Paolo Persichetti, l’Unità /Insorgenze, 12/6/2023
Cosa è stato
il berlusconismo? Come è riuscito ad imporre la sua egemonia? «Goffamente
astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata,
farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della storia
mondiale, geroglifico inesplicabile», l’apparente inconsistenza del personaggio
berlusconiano si è rivelata in realtà un suo punto di forza: «Appunto perché
non era nulla, egli poteva significare tutto», come capitò di scrivere a Marx a
proposito di un altro «uomo della provvidenza (Louis-Napoléon Bonaparte)», ed
essere così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e
somiglianza
Pranzo natalizio a Villa San Martino (Arcore), 2011
Fin dal
momento della sua entrata diretta in politica, nel lontano 1994, il dispositivo
Berlusconi ha agito come un grande diversivo, un potentissimo magnete capace di
captare su di sé passioni contrapposte. Una sorta d’incantesimo che ha permesso
al padrone della televisione commerciale di collocarsi da subito al centro
della scena scompaginando gli schieramenti, rimescolando le carte, sparigliando
il tavolo da gioco. Forse solo riconoscendo questa sua irresistibile capacità
illusionistica si può riuscire a spiegare anche l’essenza contraddittoria,
quella combinazione di contrari che è l’antiberlusconismo.
Solo in questo
modo si riesce a comprendere perché personaggi della destra storica, come Indro
Montanelli o populisti di destra come Antonio Di Pietro siano diventati dei
paladini del popolo della sinistra, oppure un damerino reazionario come Marco
Travaglio abbia potuto ispirare prima le correnti giustizialiste della
sinistra, dai girotondi al popolo viola, e poi i Cinque stelle.
Sicuramente Berlusconi ha saputo
intercettare e interpretare a modo suo quel nuovo spirito del capitalismo
descritto da Luc Boltanski e ève
Chiappello in un volume pubblicato da Gallimard nel 2000 e arrivato in Italia
solo nel 2014 con Mimesis (Il nuovo
spirito del capitalismo). Versione italiana di quella nuova etica della
valorizzazione del capitale che, secondo i due sociologi, dopo l’originaria
fase puritana e la successiva età della programmazione e della razionalità
fordista, ha trovato nuova fonte d’ispirazione e legittimazione in una parte
delle critiche rivolte al modo di produzione capitalista durante la
contestazione degli anni Settanta. La critica al taylorismo fordista,
all’alienazione seriale del lavoro, ai rapporti di società rigidi e
gerarchizzati e alla società dello spettacolo, sono state assorbite e
metabolizzate fino a fare della creatività e della flessibilità i tratti
salienti del nuovo sistema dell’economia dei flussi, del valore aggiunto, del
lavoro immateriale incamerato nel prodotto finito. Inventiva, piacere e pazzia
– sempre secondo l’analisi di Boltanski e Chiappello – sono diventati
ingredienti del successo capitalista molto più dei costipati valori del lavoro,
della preghiera e del risparmio che ispiravano gli albori del capitalismo ma
anche quella sorta di calvinismo del valore lavoro di cui era intriso il
togliattismo.
Se
l’immaginazione non è mai arrivata al potere, sicuramente ha trovato posto in
piazza Affari. Dimostrazione della capacità dinamica e innovativa
dell’«imprenditoria deviante», secondo una categoria forgiata dalla sociologia
criminale. L’ambivalenza del comportamento berlusconiano, condotta all’interno
e all’esterno dell’ordine stabilito, ha permesso di condurre esperimenti,
d’esplorare possibilità anche illegittime. Risorsa necessaria affinché
l’iniziativa economica innovativa potesse avere luogo. In questo modo l’uomo di
Arcore ha mantenuto «una distinta leggerezza che ha consentito alle sue
imprese, in maniera weberiana, di levarsi al di là del bene e del male», come
ha scritto Vincenzo Ruggiero in, Crimini dell’immaginazione. Devianza e
letteratura, il Saggiatore, Milano 2005.
Il patron
della pubblicità con le sue televisioni è stato il volto italiano di questa
rivoluzione del capitale. Con la sua abilità nel produrre ideologia è riuscito
a sintetizzare anche interessi e spinte sociali diverse ma accomunate da
un’ipertrofica rapacità individualista. Venditore di sogni e d’illusioni,
spacciatore di marche, dealer di un mondo ridotto al dominio del logo e
delle sue imitazioni. Divenuto sistema-mondo, occupata la società, a Berlusconi
mancava solo la politica. Non la politica vera. Quella l’aveva sempre fatta,
come una volta vantò in una intervista. La sua rete commerciale non era altro
che un partito di tipo leninista. L’unico rimasto. Il partito dei
professionisti della pubblicità. Una struttura di quadri selezionati, radicati
nel territorio e nei distretti economici, con rapporti diffusi e alleanze con
le corporazioni, le organizzazioni di categoria e gli imprenditori legali e
illegali. Un vero modello d’organizzazione bolscevica della borghesia. Ed
difatti, alla fine del 1993, in pochi mesi riuscì a farne la struttura portante
di Forza Italia per lanciare l’attacco alla cittadella della
politica-istituzionale, all’occupazione della macchina statale. Grazie ad una
scientifica attività lobbistica e alle protezioni ottenute da settori influenti
della politica, più che alla capacità di stare sul mercato, ha potuto costruire
negli anni Ottanta la sua posizione dominante nel settore delle televisioni
commerciali e della raccolta pubblicitaria.
Ma a spianare
la strada al suo ingresso diretto nel mondo dei palazzi romani è stato il
tracollo del sistema politico dei partiti provocato dalle inchieste
giudiziarie. Quando sulle ceneri della Prima Repubblica rivaleggiavano ormai
forme contrapposte di populismo, Berlusconi è riuscito a sconvolgere la scena
politica del paese sradicando la tradizione dei partiti di massa già in crisi e
imponendo il proprio modello anche ai suoi avversari. In grado di miscelare
elementi elitari e plebiscitari, premoderni e ipermoderni, quello berlusconiano
è apparso un modello di populismo dove vecchio e nuovo s’integravano. Sorretto
dal ritorno all’affermazione della leadership carismatica e provvidenziale,
nella quale il potere patrimoniale sostituisce la vecchia legittimità
paternalista-patriarcale, il paradigma berlusconiano ha accompagnato l’elogio
dell’imprenditorialità diffusa dentro la quale riescono a convivere anche forme
arcaiche e bestiali di taylorismo. Il sogno e l’inganno di milioni di piccole
imprese, nuova configurazione di un rapporto lavorativo che occulta dietro il
mito dell’imprenditorialità individuale le gerarchie di un nuovo modello di
sfruttamento. Illusione di un facile accesso al ceto medio e all’arricchimento
personale modellato con i valori profusi dalle televisioni commerciali, tra
gossip, cronaca nera, veline e reality show.
Esaltazione
retorica e sognatrice dell’autoaffermazione individuale, della proprietà (tanto
più quando questa è insignificante e si riduce ad un’abitazione o un’automobile
acquistata contraendo mutui bancari pluridecennali o alla conversione dei
propri risparmi in bond e partecipazioni in titoli finanziari). Ideologia che
riesce a far convivere con un mirabile gioco di prestigio temi legati alla
riscoperta dei valori morali, come patria, famiglia e presunta etica della vita
(ostilità verso l’aborto e l’uso delle staminali), insieme ad una sorta di
sfrenato “edonismo proprietario”, di ’68 dei padroni (il “bunga bunga”).
«Goffamente astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione
calcolata, farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della
storia mondiale, geroglifico inesplicabile», l’apparente inconsistenza del
personaggio berlusconiano si è rivelato in realtà un suo punto di forza:
«Appunto perché non era nulla, egli poteva significare tutto», come capitò di
scrivere a Marx a proposito di un altro «uomo della provvidenza», ed essere
così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e
somiglianza. Tutto ciò come è stato possibile?
Quando la
società dei lavoratori e dei cittadini volontari è messa fuori gioco, ha
risposto Mario Tronti: «la politica diventa il monopolio dei magistrati, dei
grandi comunicatori, della finanza, delle lobby, dei salotti. Cessa di essere
la sede in cui i progetti di società si affrontano e confrontano e diventa il
luogo dell’indifferenza, uno spazio indistinto dove l’apparenza prevale sul
contenuto, l’estetica s’impone sulla sostanza». Per questo l’antiberlusconismo
giustizialista non solo si è rivelato inefficace ma si è addirittura dimostrato
dannoso riverberandosi unicamente come riflesso subalterno del suo acerrimo
nemico spianando la strada al governo della destra fascista.
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