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04/07/2023

In Tunisia, la persistenza delle immolazioni con il fuoco costituisce un implacabile atto d’accusa politico

Annick Cojean (Haffouz (Tunisia), inviata speciale) e Monia Ben Hamadi (Tunisi, corrispondenza), Le Monde, 29 giugno 2023

Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

Inchiesta
Dalla rivoluzione del 2011, centinaia di persone, soprattutto giovani, hanno cercato di darsi fuoco in tutto il Paese. Lo considerano un modo per denunciare la crisi sociale e, soprattutto, le ingiustizie di cui si sentono vittime.

Perché il calciatore Nizar Issaoui, padre di famiglia di 35 anni, si è dato fuoco il 10 aprile davanti alla stazione di polizia di Haffouz, una cittadina della regione di Kairouan, nella Tunisia centrale? Come mai, dopo una settimana di angoscia, ha ritenuto di non avere altra scelta se non quella di trasformarsi in una torcia? Per dare un orribile spettacolo della sua morte? In quale notte era sprofondato, da quale confusione era stato sopraffatto, prima di decidere di sacrificare la sua vita per lanciare un ultimo messaggio, sperando forse, nominando il suo nemico - la polizia tunisina - di confonderlo e ottenere giustizia, anche se post mortem?

Pensava forse che la morte a cui si era condannato sarebbe stata vista come un atto di coraggio e di verità, lasciando a lui l’ultima parola ed elevandolo per sempre nel campo dei valorosi? Sperava forse che il suo gesto, inscenato e filmato da lui stesso fino alla conflagrazione finale, avrebbe scatenato una rivolta popolare in cui sarebbe rimasto l’eroe? Due mesi dopo, il video è ancora online ed è agghiacciante.

Perché tanto orrore? La spiegazione proclamata al telefono tenuto a distanza da questo colosso di 1,92 metri, con i capelli e la barba spettinati, la voce quasi rotta, sembra assurda, persino grottesca. La storia riguarda una discussione sul prezzo di vendita di un chilo di banane, una discussione che lo ha portato a essere accusato di terrorismo dalla polizia. “Terrorismo per le banan”, grida, denunciando l’ingiustizia prima di accendere l’accendino. Poi si sentono solo grida di panico e di paura. Nizar Issaoui, in fiamme, lascia cadere il telefono, che un poliziotto raccoglie e spegne, come un ultimo gesto.

È stato portato all’ospedale di Kairouan e poi al Centro Traumi e Ustioni di Ben Arous, alla periferia di Tunisi, dove è morto tre giorni dopo.


 Il 14 aprile, i suoi funerali sono stati seguiti con fervore da una folla di uomini e donne che scandivano, con i pugni in aria: “Con il nostro sangue e con tutta la nostra anima, ti resteremo fedeli, Nizar!” Ci saranno scontri con la polizia. E poi la vita tornerà alla normalità, tranne che nessuno a Haffouz vi dirà mai: “Nizar si è ucciso”. Invece, diranno: “Loro hanno ucciso Nizar”. “Loro” vale a dire la polizia. “Loro” significa il sistema corrotto, ingiusto e arbitrario che si fa beffe della legge e schiaccia le persone che governa. “Loro”, lo Stato decadente, malevolo e ingrato, che non lascia altra scelta che il fuoco a chiunque voglia far sentire la propria voce.

Perché Nizar Issaoui non si è impiccato nel suo garage, né si è gettato in un pozzo: Nizar Issaoui si è dato fuoco. Dalla rivoluzione tunisina e dall’autoimmolazione, il 17 dicembre 2010, di Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante che è diventato un eroe nazionale e ha scatenato la rivolta che ha portato alla destituzione del dittatore Zine El-Abidine Ben Ali, nessuno oserebbe affermare che questo modo di uccidersi non sia un gesto politico. Bouazizi è stato emulato da centinaia di persone. E il movimento continua.

NICOLAS FAUQUÉ PER LE MONDE

“Credo che eravamo felici”

La vedova di Nizar Issaoui ci ha ricevuto in una casa caotica e malandata, diverse settimane dopo la tragedia. Non ci sono mobili, né cucina, né bagno. I materassi sono ammassati qua e là e un divano di recupero ci tende le braccia. I fili della casa vicina sono aggrovigliati e le lampadine emanano un bagliore che incupisce e ingrigisce i volti. Ma qui ci sono dei bambini. Che giocano, si spingono, si accoccolano, implorano coccole prima di sparire chissà dove. E anche adulti, della stessa taglia di Nizar, che vanno e vengono, come se fossero in visita, e poi si intromettono con sguardi cupi.

“Occupo abusivamente questa casa, che appartiene alla città”, ammette Basma Issaoui con un pallido sorriso. “Il giorno dopo la morte di Nizar, ho capito che dovevo lasciare immediatamente la nostra casa. Non potevo pagare l’affitto da sola. Ho individuato una casa vuota, ho preso i bambini per mano, alcune coperte, due valigie e sono partito. Lo Stato ha fatto quattro orfani, ci deve tanto!” E questo è tutto. L’immolazione non è un suicidio come un altro: è un atto di accusa e una presa di potere.

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24/02/2023

NEJMA BRAHIM
La Tunisia scopre con dolore di essere (ri)diventata una terra di immigrazione

La paranoia della “grande sostituzione” ha appena colpito la Tunisia al suo massimo livello: il presidente Kais Sayed ha appena lanciato una diatriba pubblica contro l'”invasione subsahariana”, che avrebbe lo scopo di trasformare il Paese in una “terra africana”, cancellando cosi  la sua identità “arabo-musulmana”. L'occupante del Palazzo di Cartagine ha fatto proprio il discorso delirante di un gruppetto, il Partito Nazionalista Tunisino, che è sceso in guerra contro l'"invasione". La Tunisia del 2023 sta scoprendo quello che l'Italia avevo scoperto negli anni '80: di non essere più una terra di emigrazione o di passaggio, ma di essere diventata una terra di immigrazione. Una situazione in cui il grottesco dei preponderanti compete con la tragedia dei pezzenti. Nejma Brahim, giovane giornalista di Mediapart, è andata a indagare a Tunisi, Sfax e Kerkennah. Di seguito i suoi due articoli, da noi tradotti.

FG, Tlaxcala 

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