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02/09/2024

Trattamento arbitrario dei rifugiati gazesi in Francia

La giustizia francese di fronte al dilemma dell'espulsione dei palestinesi

Nonostante le decisioni prefettizie di espulsione, i giudici non sono in grado di convalidare le richieste a causa della situazione sul campo. La detenzione di alcuni cittadini stranieri viene prolungata, anche se questo sistema dovrebbe essere applicato solo a coloro la cui espulsione è imminente.

Christophe Ayad e Julia Pascual, Le Monde, 30/8/2024

Tradotto da Giulietta Masinova, Tlaxcala

Era la sesta persona a comparire davanti al giudice delle libertà e della detenzione mercoledì 28 agosto. In questo annesso della pretura accanto al centro di ritenzione amministrativa (CRA, equivalente dei CPR italiani) di Mesnil-Amelot (Seine-et-Marne), il giudice si pronuncia ogni giorno sulla proroga della ritenzione di cittadini stranieri richiesta dall'amministrazione. A pochi passi, gli aerei decollano continuamente dalle piste dell'aeroporto di Roissy-Charles-de-Gaulle.


 

Il centro di ritenzione amministrativa di Mesnil-Amelot (Seine-et-Marne), 6 maggio 2019. CHRISTOPHE ARCHAMBAULT / AFP

In linea di principio, le persone trattenute in ritenzione amministrativa dovrebbero essere espulse entro un massimo di novanta giorni. Ma Issa (le persone citate sona state anonimizzate) non ha praticamente alcuna possibilità di essere espulso. E per una buona ragione: è di Gaza. Il suo avvocato, Samy Djemaoun, ha dichiarato quel giorno: “Non c'è alcuna prospettiva che venga espulso”, anche se la legge stabilisce che uno straniero può essere trattenuto solo “per il tempo strettamente necessario alla sua partenza”.A Gaza c'è una situazione di violenza indiscriminata, non c'è un metro quadrato che non sia bombardato, quindi andare a Gaza significa andare a uccidersi”, ha sostenuto Djemaoun. “E la Palestina non ha alcun controllo sulle sue frontiere esterne, quindi chiedere alla Palestina un lasciapassare consolare è inutile”.

Eppure è quello che ha fatto il prefetto di Seine-Saint-Denis, mettendo Issa in ritenzione ad agosto e rivolgendosi alle autorità palestinesi per il suo allontanamento - anche se la Francia non riconosce lo Stato palestinese. Il 34enne, padre di due bambini francesi e marito di una donna francese, è arrivato in Francia nel 2010. Nel giugno 2022, gli è stata inflitta una pena detentiva di quattro mesi con sospensione condizionale e un divieto di ingresso in Francia per cinque anni per aver introdotto clandestinamente in Francia due siriani. Il suo nome compare anche - sebbene non sia stato condannato - in casi di furto, violenza, danni alla proprietà privata e frode. Secondo le autorità francesi, egli costituisce una “minaccia per l'ordine pubblico”.

“Aberrazione”

Nella tarda serata di mercoledì, il giudice ha infine deciso di rilasciarlo, adducendo un'irregolarità procedurale. Molte altre persone come lui sono state trattenute. In totale, dall'inizio dell'anno, secondo i dati raccolti da Le Monde presso diverse associazioni che lavorano nei CRA, sono stati arrestati quasi venti cittadini palestinesi. Secondo il Ministero degli Interni, tre sono ancora detenuti. In ogni occasione, la Francia si è rivolta alle autorità consolari palestinesi al fine di identificarli ed espellerli. Tuttavia, nessuna di queste persone è stata deportata in Palestina.

Alcuni sono stati invece rimandati in uno Stato di cui erano cittadini, come l'attivista palestinese di estrema sinistra Mariam Abudaqa, che doveva partecipare a diverse conferenze sul conflitto israelo-palestinese e che è stata espulsa verso l’ Egitto nel novembre 2023. Alcuni palestinesi sono stati espulsi anche in un altro Paese europeo dove avevano un permesso di soggiorno o una richiesta di asilo in corso. Altri sono stati infine rilasciati. Per Claire Bloch, della Cimade, un'associazione di aiuto ai migranti, "è un'aberrazione che i giudici prolunghino la ritenzione quando non c'è alcuna possibilità di deportazione in Palestina. E se ci fosse, sarebbe una violazione dell'articolo 3 della CEDU (Convenzione europea dei diritti umani), che vieta la tortura”.

Tuttavia, in una decisione del 16 giugno, un giudice di Bordeaux ha prorogato la ritenzione di un gazese con la motivazione principale che “le autorità consolari di Palestina e Israele sono state informate”. L'uomo rimane tuttora in stato di ritenzione. In un'altra decisione emessa il 17 luglio, questa volta da un giudice di Lille, la ritenzione di un palestinese è stata prorogata di 30 giorni con la motivazione che “una richiesta di lasciapassare consolare era stata presentata alla missione palestinese in Francia”, anche se non era stata ricevuta alcuna risposta.

Secondo una fonte del Ministero dell'Interno, “non esiste un divieto a priori di espulsione verso qualsiasi Paese, anche se ci possono essere impossibilità tecniche o diplomatiche”. Questa fonte sostiene anche che alcune persone che rivendicano la nazionalità palestinese sono in realtà originarie di un altro Paese.

“Rischio di trattamenti disumani”

Le persone ritenute sono principalmente stranieri che rappresentano una minaccia per l'ordine pubblico”, aggiunge Place Beauvau (sede del ministero deli Interni). Ciò si riflette in particolare nelle condanne penali che comportano l'inammissibilità. L'amministrazione non esita a far valere questo punto davanti al giudice delle libertà e della detenzione. “La ritenzione non dovrebbe essere un mezzo per regolare la sicurezzae, afferma Claire Bloch. “È un uso improprio della legge sull'immigrazione ai fini della repressione”.

Giovedì 29 agosto, Djemaoun  si è presentato in tribunale per difendere un altro palestinese, Youssef, trattenuto/ritenuto dal 9 agosto a Mesnil-Amelot. Il prefetto di Seine-Saint-Denis ha deciso di espellerlo dopo una serie di condanne, tra cui una seconda condanna per ricettazione di telefoni cellulari rubati e l'interdizione dal territorio francese. Il 23 agosto, il tribunale amministrativo di Montreuil ha annullato la decisione di determinare il Paese di rimpatrio con la motivazione che la sua espulsione in Palestina lo avrebbe esposto a “un rischio di trattamento inumano o degradante”, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

Tuttavia, un giudice di Meaux ha respinto la sua richiesta di rilascio. Egli ha presentato ricorso contro questa decisione. "Il prefetto, nonostante l'annullamento del Paese di ritorno, ha chiesto al Marocco di accoglierlo. Perché il Marocco? Non lo sappiamo”, ha detto Djemaoun ironicamente al giudice. “Se non c'è possibilità di partenza, cosa ci fa il mio cliente in ritenzione?” L'avvocato della prefettura si affanna a dare una risposta sul perché abbia scelto il Marocco, con cui Youssef non ha alcun legame. Il 29 agosto, il giudice ha infine deciso di mantenerlo in ritenzione con la motivazione che la prefettura aveva preso “provvedimenti” - senza ancora ottenere risposta - per espellerlo in Marocco.

Durante la ritenzione amministrativa a Mesnil-Amelot, Youssef, che viveva in Francia dal 2003, ha presentato una domanda di asilo. L'Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi ha respinto la sua domanda perché non si è presentato il giorno del colloquio previsto - era malato e aveva comunicato la sua indisponibilità. L'interessato intende presentare ricorso al Tribunale nazionale del diritto d’asilo.

15/07/2024

FADWA ISLAH
Dopo l'Algeria, il Marocco: nuove rivelazioni sui legami di Jordan Bardella con il Maghreb

  

 

Fadwa Islah, Jeune Afrique, 28/6/2024

Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

Dopo aver indagato sulle origini algerine del presidente del Raggruppamento Nazionale, Jeune Afrique ha seguito le orme del nonno paterno, a Casablanca. Rivelazioni esclusive.

Se il presidente del Raggruppamento Nazionale, Jordan Bardella, non si è mai trattenuto dal sottolineare le sue origini italiane, soprattutto per illustrare il modello di assimilazione che difende politicamente, ha sempre ignorato i legami della sua famiglia con il Maghreb.

Permesso di residenza 

Innanzitutto quelli del bisnonno Mohand Séghir Mada, un operaio immigrato algerino arrivato dalla Cabilia in Francia negli anni ‘30 [leggi qui]. Ma anche quelle del nonno paterno, Guerrino Bardella. Si sposò dapprima con Réjane Mada, del ramo algerino della famiglia, e la coppia diede alla luce, nel 1968, Olivier Bardella, padre del potenziale futuro primo ministro francese [questo articolo è stato pubblicato prima del primo turno elettorale, NdT]. Successivamente la coppia divorziò e Guerrino si stabilì in Marocco, dove sposò la sua seconda moglie, una donna marocchina, di nome Hakima.

Sebbene non si conosca la data esatta del matrimonio, il minimo che si possa dire è che risale a diversi anni fa: l’ultimo permesso di soggiorno in Marocco di Guerrino Italo Bardella, ottenuto per “ricongiungimento familiare”, secondo le informazioni di cui dispone Jeune Afrique, è stato rilasciato nel 2016 per un periodo di dieci anni.

Ciò significa che non si trattava del suo primo permesso di soggiorno in Marocco, ma di un rinnovo.

Conversione all’Islam

Con la nuova moglie, questo pensionato, ottantenne dal 1° aprile 2024, vive felicemente a Casablanca, nel quartiere di Bourgogne. Il matrimonio con Hakima implica la sua conversione all’Islam, secondo la legge in vigore in Marocco, che prevede che un cittadino non possa sposare uno straniero di fede non musulmana se prima non si è ufficialmente convertito davanti a un adul (autorità giuridica religiosa) e a diversi testimoni.

Guerrino Bardella è noto come falegname ed ebanista, lavora negli ambienti degli espatriati e della borghesia marocchina ed è registrato nel Regno come cittadino italiano. Come molti dei suoi connazionali che vivono nella capitale economica del Marocco, da tempo frequenta il ristorante del Circolo italiano “Chez Massimo” in boulevard Bir Anzarane nel quartiere del Maarif.

Un futuro migliore

Nato nel 1944 ad Alvito, in provincia di Frosinone, nel Lazio, in una famiglia di quattro figli - ha una sorella, Giovanna, e due fratelli: Honoré Roger e Silvio Ascenzo, tutti e tre deceduti - il figlio di un muratore arriva a Montreuil, in Francia, nel 1960, in cerca di un futuro migliore. Nel 1963 sposò Réjane Mada, figlia di Mohand Séghir Mada.

Poco si sa del rapporto di Jordan Bardella con il nonno, che si era convertito all’Islam e si era stabilito in Marocco. Ancora meno si sa del suo rapporto con le origini algerine, che il Presidente del RN non ha mai menzionato pubblicamente.

 

26/06/2024

Le origini algerine di Jordan Bardella: indagine su un tabù

Farid Alilat, Jeune Afrique, 24/6/2024
Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

Il bisnonno di Jordan Bardella, presidente del Rassemblement National, era un lavoratore algerino immigrato. Si era stabilito nella regione di Lione, in Francia, all’inizio degli anni Trenta. Abbiamo indagato su questo antenato nel suo villaggio in Cabilia e a Parigi.

Jordan Bardella à Villepinte le 19 juin 2024. © Daniel Dorko / Hans Lucas / Hans Lucas via AFP

Jordan Bardella a Villepinte il 19 giugno 2024. Daniel Dorko / Hans Lucas via AFP

Jordan Bardella, presidente del Rassemblement National e possibile futuro primo ministro, non parla mai delle origini algerine del suo bisnonno. Nella famiglia Bardella l’argomento è taciuto. All’interno dell’ex Front National di Marine Le Pen, la questione è tabù. Eppure Mohand Séghir Mada, il bisnonno di Bardella, proveniva davvero dalla Cabilia, in Algeria.

Jeune Afrique è andata alla ricerca di questo antenato e della sua famiglia, nel suo villaggio natale di Guendouz, capoluogo del comune di Aït Rzine, nella wilaya (provincia) di Bejaïa*. Erano gli anni ‘20. L’Algeria era allora “francese” e, in questo piccolo villaggio aggrappato alle montagne che si affacciano sulla valle del Soummam, la popolazione sopravviveva coltivando magri campi di ulivi e allevando capre e pecore. Qui, come altrove in Cabilia, la povertà è ovunque. All’epoca, Albert Camus, scrittore e futuro premio Nobel per la letteratura, ne fu talmente colpito da dedicarvi una serie di reportage, apparsi nel 1939 sul quotidiano Alger Républicain con il titolo “Misère de Kabylie” (“Miseria in Cabilia”).

Qui non c’erano fabbriche, né fattorie coloniali, né fabbriche per dare lavoro ed evitare la fame. In effetti, furono proprio la miseria e la fame a spingere centinaia di migliaia di cabili a emigrare dall’inizio del XX secolo per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere della Francia metropolitana. Nel villaggio di Guendouz, la famiglia Mada lotta per sopravvivere. L’indigenza è tale che Tahar Mada e i suoi due figli Bachir, il maggiore, e Mohand Séghir, il più giovane, sono costretti a vendere i loro oliveti o a ipotecarne alcuni.

 Guendouz, dans la wilaya (département) de Bejaïa, le village natal de Mohand Séghir Mada.

Guendouz, nella wilaya (provincia) di Bejaïa, il villaggio natale di Mohand Séghir Mada

09/06/2023

FAUSTO GIUDICE
Annecy: un amok “nel nome di Gesù Cristo”

Fausto Giudice, Tlaxcala, 9/6/2023

Amok, parola derivata dal termine malese amuk che significa “rabbia incontrollabile”, si riferisce ad atti commessi da persone - di solito uomini - che vengono improvvisamente sopraffatti da una follia omicida e compiono attacchi all’arma bianca contro individui casuali in una corsa che generalmente si conclude con l'uccisione o il suicidio dell'assassino. Questa forma estrema di scompenso suicidario, osservata in Malesia e in altri paesi, è stata oggetto di innumerevoli studi etnologici e psichiatrici, opere letterarie - da Rudyard Kipling a Romain Gary e Stefan Zweig - e film (almeno 9 dal 1927).

 

L'accaduto sulle rive del lago di Annecy giovedì 8 giugno 2023 è un tipico caso di amok: Abdelmasih Hannoun, un siriano di 31 anni, ha accoltellato 4 bambini piccoli davanti alle loro madri inorridite, e poi due anziani. Un giovane, Henri, 24 anni, che passava di lì, ha cercato di fermarlo con il suo zaino, ma non è riuscito a farlo. È bastato questo per far sì che questo studente di marketing, attualmente impegnato in un tour delle cattedrali francesi, diventasse l'“eroe dello zaino” delle reti cosiddette sociali. La polizia è stata allertata ed è intervenuta, ponendo fine alla folle corsa, senza uccidere l'aggressore, ma sparandogli alle gambe.

“Allo stato attuale, non abbiamo prove che suggeriscano che ci fosse un movente terroristico”, ha dichiarato la procuratrice di Annecy Line Bonnet-Mathis durante un briefing con la stampa sulla scena 6 ore dopo. Poiché l'aggressore non era sotto l'effetto di alcol o droghe, le indagini si stanno orientando verso sua storia psichiatrica e sul suo stato psicologico. Gli inquirenti, che senza dubbio non hanno letto né Stefan Zweig né Émile Durkheim, avranno il loro bel da fare per spiegare l'accaduto.

Con il passare delle ore sono emersi dettagli su Abdelmasih Hannoun [traduzione letterale: servo misericordioso del Messia]: rifugiato in Svezia, dove ha sposato una donna svedese di Trollhättan conosciuta in Turchia, questo cristiano siriaco (“assiro”) di Hassake, nel nord-est della Siria, ha trascorso una decina d'anni in Svezia prima di divorziare e lasciare il paese. Ha presentato domande di asilo in Francia, Italia e Svizzera prima che la sua prima domanda di asilo in Svezia fosse finalmente accettata il 26 aprile 2023, il che ha portato al rifiuto della sua domanda in Francia, notificato il 4 giugno. Avendo ottenuto un permesso di soggiorno permanente in Svezia nel 2013, dal 2017 aveva presentato domanda di citaddinanza svedese, respinta per tre volte, nonostante avesse una figlia, oggi di 3 anni, e studiasse per diventare infermiere.

Durante il suo amok, il nostro servo del Messia ha gridato due volte: “Nel nome di Gesù Cristo” in inglese. Indossava una croce a ciondolo e, oltre al coltello, aveva con sé un libro di preghiere. Di conseguenza, la polizia non gli ha sparato alla testa, cosa che sarebbe avvenuta se avesse gridato “Allahu Akhbar”. Questo avrebbe risparmiato al Signor Ministro dell’ Interno Darmanin di scervellarsi su “coincidenze inquietanti” e avrebbe calmato “lo spavento che sta travolgendo il nostro Paese" (Aurore Bergé, capa del gruppo Renaissance dei deputati macronisti, la quale ha approfittato dell'amok savoiardo per denunciare la “battaglia degli straccioni” all'Assemblea nazionale sulla riforma delle pensioni).

Potremmo quindi aggiungere questa definizione al Dizionario dei luoghi comuni di Gustave Flaubert:

Amok: una forma di terrorismo quando l'autore è musulmano, un atto semplicemente spaventoso e inquietante quando l'autore è cristiano, anche se arabo e barbuto”.


 

11/04/2023

FAUSTO GIUDICE
50 anni dopo, la rinascita di Malika, uccisa all’età di 8 anni da un gendarme francese: un libro pugno allo stomaco

Fausto Giudice, 11 aprile 2023

I.                Preludio

Ammettiamolo: la mia generazione, quella dei babyboomers sessantottini, ha una tendenza generale a guardare con condiscendenza la generazione dei millenials, quella dei loro nipoti. O almeno è così che loro spesso percepiscono i nostri atteggiamenti da veterani.

Io stesso non giudico mai nessuno, e alla fine mi è costato caro. Il tradimento e la calunnia sono la sorte comune degli esseri umani non appena formano una società. E capisco perfettamente i miei giovani amici che scelgono la strada dell’eremitaggio de-tecnologizzato in montagna. Ho iniziato a pensarci e a sognare di creare comunità rurali in cui qualsiasi oggetto elettronico o addirittura elettrico venga lasciato sotto sorveglianza all’ingresso.

Nel frattempo, trascorro, con crescente disperazione, troppo del tempo che mi resta da vivere davanti ai miei schermi e alle mie tastiere. Venticinque anni fa, le mie viscere si sono ribellate a tutto questo e hanno cominciato a sanguinare. Me la sono cavata, per un miracolo inspiegabile. Il chirurgo che mi ha operato la seconda volta mi ha raccontato che quando ero sul tavolo e la mia pressione sanguigna era scesa a zero, ha detto all’équipe: “Vado a fare uno spuntino, penso che quando tornerò sarà passato”. E quale fu la sua sorpresa quando, tornando dalla mensa, scoprì che il Rital respirava ancora. Mi spiegò l’ipotesi medica che la mia emorragia digestiva fosse la sindrome di Mallory-Weiss. Questo mi fu di grande aiuto. Gli dissi che secondo me ero stato vittima della sindrome della rivoluzione virtuale sul Mcintosh. Il colpo che mi aveva stroncato era stato un progetto totalmente fuoritesta di un gruppo di cretini di Marsiglia, Avignone e dintorni di fare una “carovana verso la Palestina”. Ho subito scoperto che non solo erano abissalmente ignoranti, ma anche - e questo di solito va di pari passo - terribilmente pretenziosi. In breve, nessuna carovana, né in Palestina, né in nessun altro luogo se non l’ospedale.

Tornato da 12 anni nel paese in cui sono cresciuto, senza televisione, senza computer (non esisteva), senza cellulare (il telefono fisso dei miei genitori, che era in camera mia, non squillava quasi mai), ho avuto uno shock, una raffica di shock: nella Medina erano scomparse intere strade di artigiani, in via Malta Sghrira tutti gli artigiani del ferro battuto erano stati sostituiti da mercanti di mobili in legno scadente (le sedie a sdraio che ho comprato non sono durate un anno) e plastica, e nel mercato centrale i bei pomodori rossi avevano lasciato il posto a insipidi pomodori arancioni, provenienti da semi ibridi prodotti nell’UE e destinati all’UE. E otto dei dodici milioni di abitanti del Paese avevano un conto fesbuc. Poiché gli abbonamenti telefonici sono spesso abbinati a un account fesbouc, molti utenti (o usati?) conoscono della rete solo fesbuc, wadzapp, youtube, telegram o, ora, tiktok. Ed è così ovunque, da Medellin a Nablus, da Soweto a Jebel Lahmar. Durante le campagne elettorali a cui ho assistito nel mio “Paese del ritorno”, non ho visto un solo manifesto attaccato a un muro. Nessuna delle centinaia di persone sotto i 45 anni che ho conosciuto in questi 12 anni ha mai scritto e preparato un volantino in vita sua, per distribuirlo alle 5 del mattino davanti al cancello di una fabbrica, o alle 8 davanti al cancello di una scuola superiore, o a mezzogiorno in un mercato, o alle 18 all’uscita di un grande magazzino. Insomma, in poche parole, siamo passati dal collé-serré [incollato-stretto, modo di ballare] della mia giovinezza al copia-incolla-invia-liki-buzzi di oggi. E le tre dozzine di bastardi che stanno cercando di fare la legge sur nostro pianeta che sta implodendo lavorano duramente (o meglio, fanno lavorare duramente i loro schiavi haitech) per assicurarsi di non avere più bisogno di noi, annientandoci, mentre preparano la loro fuga, sulla Luna o su Marte o altrove. Qualche anno fa, un geniale truffatore è riuscito a vendere titoli di proprietà di appezzamenti di terreno sulla luna a israeliani che sentivano che il progetto sionista stava definitivamente fallendo e che non avevano altra scelta che colonizzare la luna. Lì, almeno, erano sicuri di trovarsi in territorio garantito araberrein [pulito dagli arabi.

II.           Malika e Malika

Il 5 giugno 2021 ho ricevuto una notifica da Yezid Malika Jennifer: “Buonasera signore. Grazie per l’omaggio a mia zia Malika yezid uccisa nel 1973 dai gendarmi [emoji] buona sera”.

Il 7 giugno, secondo messaggio:



La piccola di sotto era Malika.

Ho letto il suo libro e quando ho visto il nome yezid, che è anche il mio nome, mi ha toccato il cuore. Perché questa storia ha distrutto la mia famiglia. Mia nonna mi ha raccontato questa storia. Tutti questi abusi polizieschi, queste famiglie distrutte, è orribile.  Tutti questi nomi di vittime: non dobbiamo mai dimenticare. Buona giornata.

Ecco a cosa si riferiva:

“Domenica 24 giugno (1973), i gendarmi di Fresnes, alla ricerca di un quattordicenne algerino fuggito, hanno aggredito la sua sorellina. Malika Yazid stava giocando nel cortile della cité de transit dei Groux, dove viveva a Fresnes. È salita nell'appartamento per avvertire il fratello. I gendarmi hanno fatto irruzione nell'appartamento.

Uno di loro, dopo aver dato a Malika uno schiaffo, si rinchiude con lei in una camera per un “interrogatorio”. Un quarto d'ora dopo, Malika esce dalla stanza e crolla sul pavimento. Muore quattro giorni dopo all'ospedale Salpétrière senza essere uscita dal coma.”

Sono le undici righe che ho dedicato alla piccola Malika, uccisa a schiaffi da un gendarme all’età di otto anni, in quella terribile estate del 1973, la sequenza più dura del ventennio arabicida che ho ricostruito nel libro che porta questo nome, pubblicato nel 1992. Questo libro era stato una scelta ovvia, fatta durante il lavoro sul precedente, Têtes de Turcs en France, pubblicato nel 1989, che aveva avuto un discreto successo (più di 25.000 copie vendute, all’epoca si leggevano ancora libri stampati su carta). Era dolorosamente evidente che era impossibile dedicare un capitolo solo di Têtes de Turcs (ogni capitolo descriveva un esempio di apartheid alla francese: lavoro, sanità, scuola, casa, ecc.) a quelli che allora venivano chiamati “crimini razzisti”. Ce n’erano stati troppi. Decisi quindi di dedicarvi un libro a parte. Per due anni, il soggiorno del mio tugurio a Ménilmontant è stato bloccato da una lunga tavola appoggiata su due sedie, su cui erano ammassate le cartelle gialle per caso e per anno. Insomma, un preludio materiale (legno, inchiostro, carta) alle tabelle Excel del prossimo futuro.

Alla fine ne avevo 350 in 21 anni, ovvero 16,6 all’anno, 1,3 al mese. Un’inezia rispetto ai negricidi in AmeriKKKa. Ma per carità, non siamo dagli yankees, siamo nella culla dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, tutti gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti ecc. ecc. che abbiamo appena celebrato in pompa magna sugli Champs-Élysées con la parata di Jean-Paul Goude per il Bicentenario della Grande Rivoluzione! Confesso che in quelli due anni di intenso lavoro investigativo, più di una volta ho rischiato la depressione e la fuga, forse non sulla luna, ma comunque lontano da Madame la France, come dicevano i magrebini (in riferimento alla banconota da 100 franchi con l’effigie della Libertà dal seno scoperto che guida il popolo).

I momenti più difficili sono stati i processi, dove le povere famiglie arabe hanno sperimentato una seconda morte, inflitta dalla fronte degli infarinati: giudici, pubblici ministeri, avvocati difensori e imputati mano en la mano, e giurati - quando si trattava di assise - totalmente intoniti e muti. Non ho mai sentito un solo giurato dire una parola durante un processo di tre giorni. Viene da chiedersi quale sia lo scopo delle giurie dette popolari.

 La famiglia di Malika non ha dovuto subire questo: il caso è stato chiuso in fretta. Ma non è stato risparmiato loro nient’altro. Jennifer Malika Fatima è una delle due uniche sopravvissute della famiglia, decimata dall’hogra [disprezzo], dalla droga, dalla delinquenza e, dietro a tutto questo, dal cosiddetto transit. Il complesso residenziale di transito di Les Groux, a Fresnes, a due passi dalla prigione (“comodo”, dice suo zio Nacer, l’unico altro sopravvissuto, che ne ha avuto un assaggio), una situazione provvisoria che è durata etrnamente. Abbandonata al suo destino con la nonna dopo il suicidio della madre, a 18 mesi fu affidata a una famiglia adottiva puramente gallica. Vi rimase per trent’anni e alla fine sfuggì al suo destino dopo aver sfiorato tutti i soliti pericoli che attendono i bambini delle classi pericolose razzizzate.

E ora, il 7 aprile, esce il SUO LIBRO! Un vero evento! Non voglio fare spoiler, ma solo dire questo: questo libro è la migliore realizzazione che io conosca ad oggi del desiderio che avevo formulato per me stesso quando è uscito il mio libro Arabicides. Non ero soddisfatto del risultato finale del mio lavoro, sognavo a A Sangue Freddo di Truman Capote, che aveva lavorato per anni su due giovani assassini nel braccio della morte e aveva prodotto un capolavoro. E mi sarebbe piaciuto cucinare alcuni autori di arabicidi e i loro famigliari, ma non sono riuscito a trovarne. Comunque non ero Truman Capote, La Découverte non era una grande casa newyorkese che poteva pagare dei detective, ero solo un oscuro giornalista “islamogauchiste” italiano prima del tempo (“Ah! Lei parla molto bene il francese”- “Come lo dici, bastardo, il francese è il nostro bottino di guerra”), edito da una casa editrice dal passato glorioso (François Maspero) ma dal presente critico (è stata poi acquistata da una multinazionale), insomma mi dicevo che il mio lavoro era un servizio minimo da rendere alle generazioni future che si sarebbero interrogate su questa storia e avrebbero voluto scavarci.

Trenta o cinquant’anni dopo, questo è esattamente ciò sta accadendo. È sempre la terza generazione a tirare fuori il passato dall’oblio: questo vale per gli armeni, per gli ebrei d’Europa e per tutti gli altri. È la generazione dei nipoti delle vittime di crimini di Stato massicci, concentrati o diluiti, che fa rivivere le esperienze traumatiche collettive e le trasmette alla generazione successiva. Il libro di Jennifer Malika Fatima è, a mia conoscenza, il primo del suo genere, costruito sui ricordi, le conversazioni e gli incredibili archivi accuratamente conservati e archiviati da sua nonna, una cabila (ingannevolmente) analfabeta.

Non si tratta di una tesi di dottorato formattata in modo accademico e generalmente illeggibile per la gente comune, ammesso che sia accessibile. È un pugno nello stomaco. Appena l’ho ricevuto, l’ho ingoiato tutto e l’ho finito in due ore. Poi mi sono rifugiato in una ruminazione intontita per qualche settimana. Tempo di digerire. Questo è il risultato della mia digestione, perché mi ero ripromesso di pubblicare questa recensione non convenzionale per l’uscita del libro il 7 aprile.

Il libro, per il quale Jennifer Malika Fatima è stata sostenuta in modo sororale/fraterno e rispettoso dalla scrittrice Asya Djoulaït per la formattazione del manoscritto e dallo storico Sami Ouchane per la presentazione dei documenti tratti dagli archivi - che non hanno cercato di imporle una formattazione accademica -, è magnificamente postfazionato dalla cara Rachida Brahim, un’altra piccola stella splendente delle generazioni venture alla quale mi ero detto che il mio libro avrebbe potuto parlare. Il libro ha beneficiato di un’edizione accurata ed esemplare da parte di una giovane casa editrice femminista di Marsiglia, Hors d’atteinte [Fuori portata], che ho scoperto con piacere e il cui catalogo ha messo in subbuglio le mie ghiandole salivari, al punto che domani ho un appuntamento con il mio dentista per la rimozione di un mucocele del labbro inferiore (spiegazioni in rete).

Brave, signore, mi avete tolto la tentazione di essere accondiscendente. Credo che apparteniamo alla stessa specie: quella delle persone che non sanno di cosa si parla quando si dice: pensioni. Concludo con questa frase di Nietzsche che concludeva il mio libro: “L’uomo di lunga memoria è l’uomo del futuro”. Uomo, naturalmente, nel senso di Mensch, umano, in tedesco, yiddish e newyorkish.

Quindi non esitate e correte alla vostra libreria locale (dimenticate Amazon, per favore!) e ordinate il libro questo sabato (è distribuito da Harmonia Mundi), se potete leggere il francese. Se casomai vi trovate a Marsiglia il 3 giugno, incontrate Jennifer Yezid per una conferenza su “Malika, una vita preziosa. Genealogia di un crimine di polizia” presso la biblioteca Alcazar, 58, cours Belsunce. E se non conoscete il francese, vi toccherà aspettare una versione italiano. Ci diamo da fare per renderla possibile. Editori interessati possono rivolgersi a tlaxint[[at]gmail.com.


Cartaceo 15€ - Elettronico 11,99€.