Romain Gary, LIFE
Magazine, 22/12/1967, Le Figaro Littéraire, Marzo
1968
Tradotto da Silvana Fioresi, Tlaxcala
English
Français
Español
Deutsch
Leggendo questa lettera ti domanderai, senz’ombra di dubbio, che cosa ha potuto incitare un esempio zoologico, così profondamente preoccupato dell’avvenire della sua propria specie, a scriverla. L’istinto di conservazione, certamente è questo, il motivo. Già da molto tempo ho la sensazione che i nostri destini sono legati. In questi giorni così pericolosi “di equilibrio attraverso il terrore”, di massacri e di sapienti calcoli sul numero di umani che sopravviveranno a un olocausto nucleare, è semplicemente troppo naturale che i miei pensieri si rivolgano a te.
Ai miei occhi, caro signor Elefante, rappresenti alla perfezione tutto quello che, oggi, è minacciato di estinzione in nome del progresso, dell’efficacia, del materialismo integrale, di un’ideologia o anche della ragione, visto che un certo uso astratto e disumano della ragione e della logica si fa sempre di più complice della nostra follia assassina. Sembra evidente oggi che noi ci siamo comportati, verso le altre specie, e la tua in particolare, semplicemente come stiamo per farlo verso noi stessi.
È in una cameretta per bambini, quasi un mezzo secolo fa, che ci siamo incontrati per la prima volta. Per anni abbiamo condiviso lo stesso letto, e io non mi addormentavo mai senza baciare la tua proboscide, senza abbracciarti forte, fino al giorno in cui mia madre ti portò via dicendo, non senza una certa mancanza di logica, che ero troppo grande per giocare ancora con un elefante. Non mancheranno certamente degli psicologi che pretenderanno che la mia “fissazione” sugli elefanti rimonta a questa terribile separazione, e che il mio desiderio di stare in tua compagnia è, a tutti gli effetti, una forma di nostalgia verso la mia infanzia e la mia innocenza perduta. Ed è vero che tu rappresenti ai miei occhi un simbolo di purezza e un sogno innocente, quello di un mondo in cui l’uomo e la bestia potrebbero vivere pacificamente insieme.
Diversi anni dopo, da qualche parte nel Sudan, ci siamo incontrati di nuovo. Ritornavo da una missione di bombardamento al di sopra dell’Etiopia e atterrai con il mio aereo in stato pietoso a sud di Khartum, sulla riva occidentale del Nilo. Ho camminato per tre giorni prima di trovare da bere dell’acqua, cosa che ho pagato poi con il tifo, che mi è quasi costato la vita. Mi sei apparso attraverso un qualche magro carrubo, tanto che mi credevo vittima di allucinazione. Perché eri rosso, di un rosso scuro, dalla proboscide alla coda, e la vista di un elefante rosso che fa le fusa seduto sul sedere mi ha fatto drizzare i capelli sulla testa! Eh sì, tu facevi le fusa, e da allora ho imparato che questo profondo rimbombo è per te un segno di soddisfazione, cosa che mi lascia supporre che la scorza dell’albero che mangiavi era particolarmente deliziosa.
Mi ci è voluto un po’ di tempo per capire che, se eri rosso, era perché ti eri rotolato nel fango, cosa che voleva dire che vicino c’era dell’acqua. Avanzavo piano e proprio in quel momento ti sei accorto della mia presenza. Hai drizzato le orecchie e la tua testa è così apparsa grande il triplo, mentre il tuo corpo, simile a una montagna, spariva dietro questa sorta di tenda apparsa all’improvviso. Tra te e me, la distanza era di circa venti metri, e non solo ho potuto vedere i tuoi occhi, ma sono proprio rimasto impressionato dal tuo sguardo, che mi ha colpito come un pugno nello stomaco. Era troppo tardi per pensare di fuggire. E poi, nello stato di sfinimento in cui mi trovavo, la febbre e la sete presero il sopravvento sulla paura. Rinunciai alla lotta. Mi è successo più volte durante la guerra: chiudevo gli occhi, aspettando la morte, il che mi è valso, ogni volta, un decoro, e la fama di essere coraggioso.