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28/10/2025

Giovani scriventi di Palestine Nexus riflettono su due anni di genocidio

Zachary Foster, Palestine Nexus, 16/10/2025
Tradotto da Tlaxcala


Ghaydaa Kamal, Dalal Sabbah, Hani Qarmoot e Rama Hussain AbuAmra (da sinistra a destra)

Il popolo palestinese di Gaza ha vissuto due anni di genocidio. Eppure, nonostante gli sfollamenti forzati, la campagna di fame e gli omicidi di massa, i giovani scriventi di Gaza hanno rifiutato di tacere. Hanno raccontato i loro corpi affamati, le esperienze di morte sfiorata e la lotta per trovare cibo, medicine, acqua e rifugio. Viaggiano per ore per trovare una connessione internet e scrivono a stomaco vuoto mentre sostengono le loro famiglie e aiutano chi ha ancora meno. Rischiano la vita ogni giorno per raccontare al mondo le storie della Palestina, e resteremo per sempre ammirativi del loro coraggio e della loro resilienza. Ecco alcune delle loro riflessioni guardando indietro agli ultimi due anni.
Dr. Zachary Foster, fondatore di Palestine Nexus


Hani Qarmoot, 22 anni, giornalista e cantastorie del campo di Jabalia

«Durante i due anni di genocidio, ogni giorno è stato segnato dalla fame, dallo sfollamento, dal sangue e dal fragore delle esplosioni. Per la nostra sopravvivenza, per la continuazione delle nostre storie e per il riconoscimento della nostra sofferenza e del nostro sorriso, scrivo nel buio. Anche se ho perso amici, colleghi, insegnanti e persone care, i loro ricordi mi sostengono. Il suono della risata di un bambino, il messaggio di un amico o il silenzio tra le esplosioni sono cose che mi danno vita. Scrivere è un atto silenzioso di resistenza che dimostra che siamo ancora vivi. Le nostre parole sono il nostro scudo e la nostra voce non sarà mai messa a tacere.»
Hani Qarmoot


Rama Hussain AbuAmra, 23 anni, scrittrice e traduttrice di Gaza City

«Faccio ancora fatica a credere che questo genocidio possa davvero finire. Per due anni abbiamo vissuto un incubo che ha rubato ogni traccia di amore, sicurezza e gioia. Siamo stati spogliati delle nostre case, dei nostri ricordi e delle persone che amiamo. Ogni momento era intriso di paura — paura di perderci, paura di perdere chi amiamo.
Una notte mi perseguita più di tutte: quella del 10 ottobre 2023. Alle 1:30 del mattino, una telefonata ci avvertì di evacuare l’edificio prima che fosse bombardato e ridotto in macerie. Come si può mettere un’intera vita in una sola borsa? La mia infanzia, i miei libri, i miei vestiti preferiti, l’angolo che amavo all’alba e al tramonto, tutto è rimasto indietro. Siamo corsi, senza fiato, verso un ospedale vicino, aspettando l’ignoto. Poi arrivò il rombo dell’esplosione che distrusse la nostra casa e i nostri cuori. Il giorno dopo fuggimmo ad Al-Zawaida, nel sud di Gaza, solo per assistere a un altro orrore: 25 anime della stessa famiglia spazzate via. Il fumo riempiva i nostri polmoni, il vetro cadeva come pioggia e il sangue copriva il terreno. Vedo ancora la cenere, le finestre infrante, gli arti sparsi.
Siamo sopravvissuti, in qualche modo. Ma le cicatrici restano. E ora aspettiamo, non in pace, ma con una fragile speranza.»
Rama Hussain AbuAmra


Dalal Sabbah, 20 anni, studentessa di traduzione inglese di Rafah

«Negli ultimi due anni, ho affrontato la sfida di documentare la vita a Gaza, assicurandomi che le nostre storie raggiungessero il mondo al di là delle macerie e del silenzio. Ogni giorno è stato una prova di resistenza, ma sono rimasta salda, perché queste storie meritano di essere raccontate.
Nonostante gli sfollamenti ripetuti, la stanchezza, la paura costante e la vicinanza alla morte; nonostante la perdita di molti membri della mia famiglia, ho dovuto continuare a scrivere per registrare questi momenti e onorare la memoria di coloro che abbiamo perso. Scrivere è diventato più di una professione; è diventato un grido silenzioso dal cuore al mondo, una testimonianza di vite che sfidano la morte ogni giorno, e la prova che le nostre voci non scompariranno tra il fumo e le macerie.
Anche quando la disperazione mi opprime, continuo. Scrivo, parlo, testimonio, perché è il mio dovere verso il mio popolo, verso la mia patria, verso la Palestina.
E qualunque cosa accada, la Palestina è libera, dal fiume al mare.»
Dalal Sabbah


Khaled Al-Qershali, 22 anni, giornalista freelance di Al-Nasser

«Anche se il genocidio dell’occupazione israeliana è finito e io sono sopravvissuto, nulla di ciò che mi è stato tolto mi sarà mai restituito. Ho perso due amici cari, Mohammed Hamo e Abdullah Al-Khaldi, insieme alla mia casa e alla vita che conoscevo prima del 7 ottobre 2023.
Da quel giorno, la vita come la conoscevo è stata distrutta. Gli ultimi due anni sono stati segnati da sfollamento, fame, paura e perdita costante.
Spero che il cessate il fuoco regga, ma faccio fatica a crederci. Durante l’ultimo cessate il fuoco, a gennaio, mio nonno e i miei zii tornarono a Gaza per ricostruire le loro vite dalle rovine. Ma era una trappola: il genocidio riprese e tutto ciò che avevano ricostruito sparì.»
Khaled Al-Qershali


Ghaydaa Kamal, 23 anni, giornalista e traduttrice di Khan Yunis

«Ogni storia che scrivo è una battaglia per la sopravvivenza. Ho scritto tra le rovine, nelle tende, in luoghi dove elettricità e internet sono miracoli. A volte camminavo per ore sotto il sole cocente perché i trasporti erano troppo costosi e perché il silenzio non era un’opzione.
Il mio portatile porta ancora la polvere della mia casa distrutta. L’ho estratto dalle macerie dopo un bombardamento, l’ho pulito con mani tremanti e gli ho ridato vita. Si è bloccato, si è spento, mi ha tradito molte volte, eppure continua a funzionare, proprio come me.
Ho scritto tra la fame, la stanchezza e la paura, documentando cosa significhi vivere e lavorare sotto bombardamenti costanti. Ci sono stati momenti in cui ho scampato la morte per pochi minuti.
Ma continuo a scrivere, perché se smetto, loro vinceranno — non solo uccidendoci, ma cancellando le nostre storie.»
Ghaydaa Kamal

26/10/2025

Non è più possibile essere palestinese in Cisgiordania

Gideon Levy, Haaretz, 26/10/2025
Tradotto da
Tlaxcala

 Mentre Trump promette ai paesi arabi che l’annessione israeliana “non avverrà”, volta le spalle alla distruzione, allo spossessamento, alla povertà, alla violenza dei coloni e agli abusi militari in Cisgiordania, permettendo che il tormento continui: non c’è tregua.

 

Palestinesi accanto a una strada distrutta dopo un’operazione militare israeliana nella città cisgiordana di Tubas, la settimana scorsa.
Foto Majdi Mohammed / AP

In Cisgiordania nessuno ha sentito parlare del cessate il fuoco a Gaza: né l’esercito, né i coloni, né l’Amministrazione Civile e, naturalmente, neppure i tre milioni di palestinesi che vivono sotto la loro tirannia. Non percepiscono minimamente la fine della guerra.

Da Jenin a Hebron, non si intravede alcun cessate il fuoco. Da due anni regna in Cisgiordania un clima di terrore, protetto dalla guerra nella Striscia, che funge da dubbio pretesto e da cortina fumogena, e non c’è alcun segno che stia per finire.

Tutti i decreti draconiani imposti ai palestinesi il 7 ottobre restano in vigore; alcuni sono stati persino inaspriti. La violenza dei coloni continua, così come il coinvolgimento dell’esercito e della polizia nei disordini. A Gaza si uccide e si sfolla meno gente, ma in Cisgiordania tutto prosegue come se non esistesse alcun cessate il fuoco.

L’amministrazione Trump, così attiva e risoluta a Gaza, chiude gli occhi sulla Cisgiordania e si illude sulla situazione che vi regna. Impedire l’annessione le basta. “Non accadrà perché ho dato la mia parola ai paesi arabi”, ha dichiarato il presidente Donald Trump la settimana scorsa, mentre alle sue spalle Israele fa di tutto in Cisgiordania per distruggere, spossessare, abusare e impedire ogni possibilità di vita.

 

Coloni israeliani lanciano pietre contro abitanti palestinesi durante un attacco al villaggio cisgiordano di Turmus Ayya, a giugno.
Foto Ilia Yefimovich / dpa

A volte sembra che il capo del Comando Centrale delle FDI, Avi Bluth, fedele e obbediente al suo superiore — il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che è anche ministro nel Ministero della Difesa — stia conducendo un esperimento umano, insieme ai coloni e alla polizia: vediamo fino a che punto possiamo tormentarli prima che esplodano.

La speranza che la loro brama di abuso si attenuasse con la fine delle battaglie a Gaza è svanita. La guerra nella Striscia non era che un pretesto. Quando i media evitano la Cisgiordania e la maggior parte degli israeliani — e degli usamericani — non si interessa davvero di ciò che vi accade, il tormento può continuare.

Il 7 ottobre è stato davvero un’opportunità storica per i coloni e i loro collaboratori di fare ciò che non avevano osato fare per anni.



La famiglia Zaer Al Amour, nelle colline meridionali di Hebron — una regione spesso soggetta alla violenza dei coloni e dell’esercito — fa la guardia a turno dalla sera al mattino per proteggere le proprie terre.
Foto Wisam Hashlamoun / Anadolu via AFP

Non è più possibile essere palestinese in Cisgiordania. Non è stata distrutta come Gaza, non sono morte decine di migliaia di persone, ma la vita lì è diventata impossibile. È difficile immaginare che la morsa di ferro israeliana possa durare ancora a lungo senza un’esplosione di violenza — giustificata, questa volta.

Tra 150.000 e 200.000 palestinesi della Cisgiordania che lavoravano in Israele sono disoccupati da due anni. Due anni senza un solo shekel di reddito. Anche gli stipendi di decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità Palestinese sono stati drasticamente ridotti a causa del trattenimento da parte di Israele delle entrate fiscali che riscuote per conto dell’Autorità.

La povertà e la miseria sono ovunque. Così come i posti di blocco e i checkpoint; mai ce ne sono stati così tanti, e per un periodo così prolungato. Ora se ne contano centinaia.

Ogni insediamento ha cancelli di ferro chiusi, o che si aprono e chiudono a turno. È impossibile sapere cosa sia aperto e cosa no — e, cosa più importante, quando. Tutto è arbitrario. Tutto avviene sotto la pressione dei coloni, che hanno trasformato l’esercito israeliano nel loro servo sottomesso. Così va quando Smotrich è il ministro della Cisgiordania.

 

Una casa incendiata durante le rivolte del 2023 nel villaggio di Huwara. Smotrich parlava già nel 2021 di un “Piano decisivo”.
Foto Amir Levi

Circa 120 nuovi avamposti di colonizzazione, quasi tutti violenti, sono stati creati dal maledetto 7 ottobre, coprendo decine di migliaia di ettari, tutti con il sostegno dello Stato. Non passa settimana senza nuovi avamposti; altrettanto inedita è l’ampiezza della pulizia etnica che perseguono: Hagar Shezaf ha riferito venerdì che, durante la guerra di Gaza, gli abitanti di 80 villaggi palestinesi in Cisgiordania sono fuggiti per salvarsi la vita, temendo i coloni che si erano impadroniti delle loro terre.

Il volto della Cisgiordania cambia ogni giorno. Lo vedo con i miei occhi stupiti. Trump può vantarsi di aver fermato l’annessione, ma questa è ormai più radicata che mai.

Dal centro di comando che l’esercito usamericano ha istituito a Kiryat Gat si può forse vedere Gaza, ma non si vede Kiryat Arba, la colonia vicina a Hebron.

La Cisgiordania grida per un intervento internazionale urgente, non meno della Striscia. Soldati — usamericani, europei, emiratini o persino turchi — qualcuno deve proteggere i suoi abitanti indifesi. Qualcuno deve liberarli dalle grinfie dell’esercito israeliano e dei coloni.

Immaginate un soldato straniero a un checkpoint che ferma i teppisti coloni diretti a un pogrom. Un sogno.

Linciaggi, incendi, massacri di greggi: la Cisgiordania di fronte a una violenza israeliana senza precedenti

 

Jonathan Pollak, Haaretz, 25/10/2025

Tradotto da Tlaxcala

Milizie di coloni israeliani, appoggiate dai soldati, stanno devastando le comunità palestinesi: picchiano gli abitanti, incendiano i raccolti, distruggono le auto e massacrano gli animali.
Jonathan Pollak, che accompagna i contadini palestinesi durante la raccolta delle olive, racconta ciò che ha visto — e come ha rischiato di pagarne il prezzo con la vita.

Gli alberi del Sud danno un frutto strano,
Sangue sulle foglie e sangue alla radice,
Corpi neri che oscillano nella brezza del Sud,
Frutti strani appesi ai pioppi.

Scena pastorale del valoroso Sud,
Gli occhi sporgenti e la bocca contorta,
Il profumo dolce e fresco delle magnolie,
Poi il rapido odore di carne bruciata.

Ecco un frutto per i corvi,
Per la pioggia, per il vento, per il sole,
Finché gli alberi non lo lasceranno cadere,
Ecco un raccolto strano e amaro.

“Strange Fruit”, di Abel Meeropol


Un pogromista israeliano mascherato usa una fionda per attaccare i raccoglitori nel villaggio di Beita, all’inizio di questo mese. Per molti coltivatori, l’incentivo economico a completare la raccolta è ormai quasi scomparso, mentre il pericolo di morte cresce di giorno in giorno.
Foto Jaafar Ashtiyeh / AFP

 

Una violenza senza freni

Gli ultimi due anni sono stati un periodo di violenza israeliana sfrenata. Nella Striscia di Gaza tale violenza ha raggiunto proporzioni mostruose, ma anche in Cisgiordania i palestinesi hanno sofferto la loro parte.
Ogni luogo ha la propria forma di violenza. Qui, in Cisgiordania, la violenza israeliana è esercitata congiuntamente da tutte le forze presenti: esercito, polizia, polizia di frontiera, Shin Bet (servizio di sicurezza interna), amministrazione carceraria, coordinatori di sicurezza degli insediamenti e, naturalmente, civili israeliani.
Spesso questi civili portano bastoni, barre di ferro o pietre; altri sono armati di fucili. Milizie che operano al di fuori della legge, ma sotto la sua protezione.
Talvolta sono i civili a dare il via agli attacchi, con le forze ufficiali che li coprono; talvolta accade il contrario. Il risultato, però, è sempre lo stesso.

Dall’inizio della raccolta delle olive, la violenza israeliana in Cisgiordania — organizzata e coordinata — ha raggiunto livelli mai visti. Prima ancora dell’inizio della stagione, la violenza si era già abbattuta su Duma, Silwad, Nur Shams, Mu’arrajat, Kafr Malik e Mughayyir a-Deir. Questo è il destino delle comunità rurali palestinesi lasciate sole di fronte agli avamposti israeliani.

Morti e pogrom

Mohammed al-Shalabi corse per salvarsi la vita, senza sapere che stava correndo verso la morte, quando un gruppo di israeliani armati su un pick-up grigio lo inseguì insieme ad altri dieci uomini. Il suo corpo fu ritrovato ore dopo: colpito alla schiena, portava i segni di una brutale violenza.
La stessa sorte toccò a Saif a-Din Musallet, aggredito, riuscito a fuggire per un po’, poi collassato e morto. Rimase lì, privo di sensi e morente, mentre soldati e civili israeliani continuavano la caccia sulle colline. Era l’11 luglio 2025, durante il pogrom di Jabal al-Baten, a est di Ramallah.

Non sapevo ancora che fossero morti, ma conoscevo la paura della morte. Qualche ora prima, una folla di israeliani aveva invaso al-Baten, e un gruppo di giovani palestinesi dei villaggi vicini di Sinjil e al-Mazra’a ash-Sharqiya aveva cercato di fermarli. All’inizio avevano avuto il sopravvento, poi arrivò un pick-up grigio con uomini armati.

Civili israeliani attaccano agricoltori, i loro terreni e i loro veicoli durante l'attacco a Beita, il 10 ottobre. Venti persone sono rimaste ferite, una delle quali da colpi d'arma da fuoco. Foto Jaafar Ashtiyeh/AFP

Il pick-up investì uno dei palestinesi. Mentre aiutavo a trasportare il ferito, cominciammo a correre per salvarci, perché i giorni precedenti avevano mostrato chiaramente che cosa accade a chi non riesce a fuggire.
Non ce l’abbiamo fatta. Un gruppo di israeliani mascherati, armati di manganelli, ci raggiunse. Colpi sul viso, sulle costole, sulla schiena, di nuovo sul viso. Calci, pugni, polvere. Lunghi momenti di violenza selvaggia.
Con i volti gonfi e viola, fummo noi — e non loro — ad essere arrestati quando arrivarono i soldati.

Mentre aspettavamo di essere portati alla stazione di polizia, il pick-up tornò verso Sinjil, dove c’erano un’ambulanza e un’auto civile. Fu l’inizio del linciaggio, con tutte le componenti della violenza israeliana presenti: forze ufficiali e milizie private, ciascuna al proprio posto.

La raccolta profanata

La raccolta delle olive non è sempre stata una sequenza di attacchi e di pogrom estivi. Un tempo era molto di più di un’attività economica: era un pilastro della vita culturale palestinese. Le famiglie, comprese donne e bambini, si riunivano all’aperto; si cantavano canzoni popolari, si cucinava qalayet bandura — cipolle, pomodori e peperoncini — sul fuoco, all’ombra degli alberi.
Trasformare questa festa in un momento di paura e di allerta è più che un atto di espulsione fisica: è un attacco al legame emotivo con la terra, un tentativo di cancellazione culturale, di annientamento dell’identità. Non è un caso che tale descrizione richiami gli articoli del diritto internazionale che parlano di distruzione di un popolo.

L’attacco in cui Mohammed e Saif furono uccisi rappresentò un momento particolarmente atroce in una lunga serie di pogrom. Ho perso il conto dei funerali ai quali ho partecipato negli ultimi mesi.
E come se la violenza non bastasse, negli ultimi anni si è aggiunto il collasso climatico. Gli ulivi danno un raccolto abbondante un anno e scarso l’anno successivo. Quest’anno è stato scarso, aggravato dalla mancanza di piogge e dalle ondate di calore che hanno seccato gli alberi e fatto cadere i frutti.
Interi uliveti sono rimasti sterili, ancora prima di considerare gli alberi sradicati. Per molti contadini, l’incentivo economico è quasi svanito, mentre il pericolo di morte aumenta.

Agricoltori e attivisti palestinesi raccolgono olive vicino al villaggio di Turmus Ayya questo mese. Un'ampia coalizione si è mobilitata per sostenere gli agricoltori. Foto Hazem Bader / AFPAFP 

 

Resistere: la campagna Zeitun 2025

Nonostante la persecuzione e il rischio di prigione, la campagna Zeitun 2025 (“Olivo 2025”) è iniziata: un’ampia coalizione, che va dalla sinistra palestinese alle diverse fazioni di Fatah, organizzata per sostenere i contadini durante la raccolta.
Gli attivisti hanno mappato le aree di rischio e le necessità dei villaggi. Ma la notte prima dell’inizio, decine di soldati hanno fatto irruzione nella casa di Rabia Abu Naim, uno dei coordinatori della campagna, mettendolo in detenzione amministrativa — cioè senza processo.
Rabia è di al-Mughayyir, a est di Ramallah, epicentro della violenza dei coloni e dei militari. È lì che furono uccisi Mohammed e Saif, e dove l’esercito ha sradicato 8.500 alberi, mentre gruppi di israeliani hanno completato il lavoro distruggendone altre centinaia.

Qualcuno potrà pensare che la situazione non sia così grave, che “la violenza è da entrambe le parti”, che la polizia indaga, che la detenzione di Rabia sia giustificata. Bene: continuino pure a raccontarsi favole.

La stagione dei pogrom

Il primo giorno della raccolta, due settimane fa, la violenza si abbatté come un diluvio.
A Jurish, coloni israeliani attaccarono con bastoni i raccoglitori e impedirono loro l’accesso ai campi. A Duma, il villaggio dove nel 2015 fu sterminata la famiglia Dawabsheh, furono i soldati a vietare l’ingresso ai contadini, invocando la “coordinazione di sicurezza”.
A Kafr Thulth, i coloni uccisero delle capre. A Far’ata spararono con munizioni vere contro gli agricoltori, mentre i soldati presenti non intervennero. A Kobar, il villaggio del leader palestinese incarcerato Marwan Barghouti, i contadini furono arrestati per aver lavorato nei propri uliveti.

Rabia Abu Naim fotografato da un soldato. Alla vigilia della raccolta delle olive, l'esercito ha fatto irruzione nella sua casa e lo ha posto in detenzione amministrativa. Foto Avishay Mohar / Activestills

 Il culmine fu Beita, a sud di Nablus. Quel venerdì 10 ottobre, circa 150 raccoglitori si recarono negli oliveti vicino a un nuovo avamposto coloniale. Furono attaccati da un’azione congiunta di soldati e civili: bastonate, spari, incendi, vetri infranti.
Venti feriti, uno dei quali colpito da proiettile vero. Tre giornalisti aggrediti: Jaafar Ashtiya, la cui auto fu bruciata; Wahaj Bani Moufleh, con una gamba fratturata; e Sajah al-Alami.
Otto veicoli incendiati e un’ambulanza rovesciata.

 Esercito e coloni: un fronte comune

Nei giorni seguenti, decine di nuovi attacchi si susseguirono: a Burqa, al-Mughayyir, Lubban al-Sharqiya, Turmus Ayya.
L’esercito non si limita a osservare: accompagna gli aggressori, chiude gli occhi o interviene direttamente.
A Burin ha persino dichiarato il villaggio “zona militare chiusa”, vietando l’accesso anche ai residenti. Trentadue attivisti solidali furono arrestati per aver bevuto il tè in una casa privata.

Il 17 ottobre, a Silwad, gli attacchi durarono ore: ambulanze vandalizzate, veicoli rubati, alberi abbattuti.
Un pick-up grigio — sempre lo stesso — arrivò con giovani armati che dichiararono l’area “zona militare chiusa”. Poi giunsero i soldati, che cacciarono i contadini… ma non gli aggressori.
Ero lì.
Mentre tornavamo al villaggio, un’auto con giovani israeliani ci inseguì lungo una strada tortuosa sul bordo di un precipizio. Le immagini del pogrom di Jabal al-Baten mi attraversarono la mente.
Riuscimmo ad arrivare sani e salvi.


I soldati bloccano i palestinesi del villaggio di Kobar, vicino a Ramallah, mentre si recano a raccogliere le olive. I residenti che lavoravano la propria terra sono stati arrestati dall'IDF. Crediti: Hazem Bader / AFP

E continua

Centinaia di incidenti, grandi e piccoli, uno dopo l’altro.
A Turmus Ayya, uomini mascherati hanno colpito un’anziana alla testa: soffre di emorragia cerebrale ed è ricoverata a Ramallah. Due attivisti feriti, cinque auto incendiate.
E la raccolta non è neppure a metà. Gli attacchi continueranno fino alla fine — e oltre.

Ma questa non è solo una storia di violenza e spoliazione. È anche la storia della resistenza palestinese, del loro legame con la terra e della loro ostinazione a non cedere.
Rabia, il coordinatore della campagna Zeitoun 2025 imprigionato, lo aveva detto prima dell’arresto:

Se gli ulivi del villaggio scompariranno, raccoglieremo le querce.
E se non resteranno ghiande, raccoglieremo le foglie”.