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12/10/2022

SERGIO FERRARI
La memoria solidale, senza età né frontiere
“El Periscopio” presenta “Grand Hotel Coronda” in italiano

 Sergio Ferrari, La Pluma, 13/10/2022
Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala
Posso abbracciarvi forte? Con parole spezzate dall'emozione, Milena, una ragazza di 18 anni dai capelli tinti di rosso punk, si è avvicinata ai tre ex prigionieri politici del carcere di Coronda (Santa Fe, Argentina, anni settanta). Le sue radici messicane e la sua identità svizzera italiana hanno reso l'abbraccio quasi senza fine.

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Lacrime giovanili

Sono trascorsi appena 120 minuti di scambio presso la Scuola Commerciale della città di Bellinzona, capoluogo del Canton Ticino, l'unico della Svizzera dove l'italiano è lingua maggioritaria e ufficiale. Tre ex detenuti argentini, tutti intorno ai settanta, con un centinaio di giovani di non più di 18 anni e una decina di professori appena un po' più grandi dei loro studenti.

Era il 15 settembre, prima presentazione pubblica di Grand Hotel Coronda, versione italiana di Del otro lado de la mirilla,  un libro anonimo, collettivo, scritto da settanta ex prigionieri politici argentini, e ora pubblicato dalla prestigiosa casa editrice romana Albatros.

E nella bella sala conferenze della scuola ticinese non volò una mosca. Non ci sono stati Whatsapp fastidiosi o sguardi da dietro le quinte sui cellulari, come spesso accade quando la noia si impone all'interesse.

È possibile avvicinare generazioni separate da più di cinquant' anni? Possiamo immaginare che il cittadino comune europeo si interessi oggi a fatti vissuti mezzo secolo fa in un paese latinoamericano a più di 10 mila chilometri? Con queste domande esistenziali, i corondaes - come si autodefiniscono quelli che passarono per le segrete della dittatura argentina in quella città santafesina – partirono per un periplo sconosciuto portando con sé, con odore di inchiostro fresco e pelle di cartone, il nuovo figlio appena nato.

L'emozione si impose. La forza del racconto sulla brutalità repressiva ha irrigato in quell' anfiteatro svizzero un dialogo quasi sublime: gli studenti hanno bombardato gli “esponenti” con un interrogatorio tanto fine quanto pertinente. “Come capire che la lotta per la democrazia e per un paese più giusto possa portare giovani della nostra stessa età a situazioni limite come quelle vissute nel carcere di Coronda, così come in tanti altri centri di detenzione argentini e latinoamericani? Perché vi hanno arrestati? Avete pensato molto alla possibilità di morire proprio lì? Che cosa avete fatto il primo giorno di libertà?”. Intercalata, qualche riflessione che non si aspettava risposta: “Ci commuove che veniate a condividere tutto ciò che per noi è così sconosciuto, ma che è così vitale per qualsiasi società umana”.

Un team della televisione pubblica svizzera italiana ha coperto le due ore di interscambio. Era la Giornata Internazionale della Democrazia: l'occasione ideale per un servizio speciale. Il reportage di quattro minuti trasmesso sul telegiornale quello stesso pomeriggio è stato sconvolgente :

 

Il servizio inizia alle 16:07

Il microfono è stato aperto sia ai vecchi corondaes che ai giovani studenti. La telecamera si è concentrata anche su Barbara, l'insegnante che ha organizzato l'incontro, e si sono sentite le sue parole finali: “A nome della nostra scuola e dei nostri studenti, vogliamo ringraziarli per averci dedicato il vostro tempo e, soprattutto, per aver condiviso un pezzo della vostra vita con noi. Il vostro racconto ci ha aperto una pagina di storia dolorosa, ma ci ha anche mostrato quanto sia importante credere in un progetto per il quale bisogna lottare in questa Giornata Internazionale della Democrazia, quanto sia importante affrontare tutti coloro che vogliono distruggere queste idee e i diritti essenziali che le danno senso e la fondano”.

Correre per non dimenticare

“Corsa a staffetta tra le generazioni argentine e latinoamericane che continuano a passarsi il testimone della memoria”, hanno sostenuto gli anziani ex prigionieri, solo poche ore dopo, ora nelle strutture della Casa del Popolo, sede di sindacati e organizzazioni sociali. Ma lo stesso scenario: una nuova ondata di gente che ascoltava attentamente, con emozione contenuta. “Il vostro periscopio (una minuscola invenzione artigianale), che vi ha permesso di controllare le guardie di Coronda, è anche una sorta di specchio della nostra anima solidale sotto queste latitudini. Riflette i dolori, ma anche la forza della resistenza umana per sopravvivere ed esistere”, riflette Denise, una giovane donna con capacità diverse, dalla sua sedia a rotelle e con una voce appena udibile. Le sue parole con accento europeo e dalla sua stessa anima sofferente giunsero come una carezza al cuore.

I 60 esemplari di Grand Hotel Coronda previsti per le prossime quattro presentazioni sono evaporati in pochi secondi appena terminata la prima attività pubblica. Tutto esplode. Tutto commuove. La storia dell'Argentina galleggia. E i vecchi corondaes insieme a lei.

Alla testimonianza a Bellinzona seguirono Biasca, Lugano e la Biblioteca Popolare LaFilanda di Mendrisio, città nel sud elvetico, quasi a sfiorare il confine italiano.

22/07/2022

Luis E. Sabini Fernández
Nueva definición de antisemitismo: una mosqueta ideológica

 Luis E. Sabini Fernández, Revista Futuros, 21/7/2022

“El antisemitismo es una cierta percepción de los judíos que puede expresarse como el odio a los judíos. Las manifestaciones físicas y retóricas del antisemitismo se dirigen a las personas judías o no judías y/o a sus bienes, a las instituciones de las comunidades judías y a sus lugares de culto. […] Las manifestaciones pueden incluir ataques contra el Estado de Israel, concebido como una colectividad judía.”

Una vez más, Argentina se hace asiento de potencialidades opuestas.

El abuso feudal en pleno siglo XX contra “peones de campo” generó una resistencia que a su vez llegó a ser ahogada con fusilamientos masivos por parte del ejército y enterramientos sumarios en la Patagonia argentina…

La dictadura de 1976, con el despiadado trato a perseguidos y el negocio generado con sus vástagos, dio lugar al formidable reclamo de madres y abuelas de desaparecidos y esa resistencia social ha tomado tal empuje como para alcanzar a hijos de desaparecidos y, en una nueva expansión de la conciencia social y moral, a hijos de desaparecedores. Y un reclamo chovinista, por ejemplo, sirvió para finalmente desnudar una dictadura más atroz todavía que anteriores y, a contrario sensu, realzar la conciencia por los derechos humanos y contra los atropellos (por ejemplo, de la oficialidad militar contra los soldados rasos).


Televisión Pública Argentina

En Argentina jamás se avanzó con la investigación de dos acontecimientos atroces; la voladura de la Embajada de Israel (1992) y la de la AMIA (1994); las pistas que tendrían que haberse colectado in situ por la policía local al parecer fueron escasas y poco confiables, y la llegada inmediata de otros organismos de seguridad, israelí, estadounidense, no parece haber aclarado el panorama, antes al contrario…

 Conmemorando el vigesimooctavo aniversario de la voladura de AMIA y la muerte de 85 seres humanos en el derrumbe, fue anunciado un “Foro Latinoamericano de combate al antisemitismo” el 17 y el 18 de julio ppdo. en Buenos Aires, en la sede de AMIA. “Para trabajar juntos contra los discursos de odio”, remarcó Claudio Epelman, uno de los organizadores.

En dicho encuentro, una enviada de EE.UU., Deborah Lipstadt, funcionaria de su Dpto. de Estado, que se presenta como especialista en antisemitismo, definió: “Si el antisemitismo solo afectase judíos […P]ero el antisemitismo es mucho más que eso.” (tal vez este comentario explique el inexplicable “o no judíos” de la definición de antisemitismo de IHRA que pusimos como epígrafe).


 Junto a Lipstadt, se ha presentado su colega temático en la OEA, Fernando Lottenberg. Invitado de primera línea, Jimmy Morales, ex presidente de Guatemala.  También concurrirá la vicecanciller salvadoreña, Adriana Mira, y una jueza de la Corte Constitucional de Colombia, Cristina Pardo. Roy Cortina [Partido socialista] y Victoria Donda [hija de desaparecidos, Directora del Instituto Nacional contra la Discriminación, la Xenofobia y el Racismo, fundadora del partido Somos, integrante del Frente de Todos] lo harán entre los adherentes locales.

El foro fue iniciativa del Congreso Judío Latinoamericano y el Ministerio de Asuntos Exteriores del Estado de Israel, junto con la Latino Coalition for Israel [sic] y Combat Antisemitism Movement (CAM).

La realización de dicho evento nos permite auscultar sus líneas ideológicas más basales; una identificación entre antisemitismo y la defensa del Estado de Israel.

La escasez de datos sobre la atrocidad sufrida en AMIA no nos permite siquiera conocer su naturaleza, si se trató de un acto terrorista y antisemita o fue fruto (podrido) de una geopolítica; un acto antiisraelí (o “todo en uno”).

Mientras se anunciaba este Foro, en esa misma segunda semana de julio, el 14 y el 15, tuvo lugar en Buenos Aires y por zoom un encuentro; “Foro Internacional por Palestina” poniendo sobre el tapete el conflicto más largo de nuestra contemporaneidad –que arranca a fines del s XIX y se continúa, arrastrando al pueblo palestino a una peripecia de casi siglo y medio- a manos del sionismo.

Ambos encuentros, de alcance claramente internacional, fueron paralelos, no hubo cruce, o diríamos geométricamente, se cruzarán en el infinito.

¿Hay motivos para semejante cruce?

Claro que lo hay.

Porque el Foro Latinoamericano contra el Antisemitismo “guarda un muerto en el armario”.


Galit Ronen, embajadora de Israel en Argentina, remarcó la enorme relevancia que tiene para el estado sionista abordar la cuestión del antisemitismo desde una perspectiva multifocal: “este flagelo no es patrimonio de un país […]. Israel trabaja activamente para promover un lenguaje de encuentro sin espacio para la irracionalidad que aun hoy en día la judeofobia expone.”

Ronen procura hacernos creer –ella misma lo cree sin duda–  que la racionalidad guía el comportamiento israelí: pero basta un somero repaso de las acciones del terrorismo sionista durante buena parte de la primera mitad del siglo XX, aplicado para “limpiar la tierra sagrada”: voladura de buses, de hoteles, de vehículos abandonados estratégicamente con explosivos, de mercados con sus pacíficos compradores y vendedores, de negocios palestinos en barrios, siempre con población directamente victimada.

21/06/2022

LUIS E. SABINI FERNÁNDEZ
Transnacionalización rampante: la globocolonización y el despeñadero planetario

Luis E. Sabini Fernández, 21/6/2022

¿A qué se debe que a fines del s. XX Argentina, con su gobierno elegido en elecciones constitucionales, aprobara, con los pasos formalmente requeridos, el ingreso de alimentos transgénicos a la mesa de los argentinos y sobre todo a los campos de cultivo de Argentina y que todo el proceso diz que democrático de aprobaciones legales contara con los fundamentos en inglés (tan apurados los mandantes que ni a traducción recurrieran)?

¿A qué se debe que a comienzos del s. XXI, Uruguay con su gobierno, también  él perfectamente elegido en elecciones legales, aprobara un proyecto de industrialización venido desde medio planeta de distancia a aplicar sobre una producción por lo menos “recién llegada”, rubricado, el convenio, con una coda digna de Marx, pero Groucho: escrito el convenio en inglés y en castellano, se establece que en caso de duda  prevalecerá la versión en castellano, y cuando sobreviene una diferencia en los respectivos textos, prevalece la versión inglesa?


Cualquiera de esos episodios, llamémosle avanzadas del centro planetario mundial sobre la periferia,  esbozos de un gobierno transnacional mundializado, revelan el desplazamiento de las soberanías nacionales, por definición locales y limitadas. Mencioné apenas un par de ejemplos que conozco sobradamente pero me consta que no son exclusivos de la región platense. Lo mismo, con el denominador común de estas “vergüenzas” locales; el idioma inglés.

Estos episodios no son novedosos. Están íntimamente ligados a la periferia planetaria y prácticamente desde su constitución. Sólo que han ido cambiando “los envoltorios”; de las economías de extracción bruta de materia prima en los albores del industrialismo metropolitano al desarrollo, más cerca nuestro, de industrias adventicias, periféricas, las zonas francas, y en los últimos tiempos, a la computarización más o menos forzosa, más o menos universalizada.

Todo ese proceso de formación de un mercado mundializado fue acompañado de progresos reales o supuestos, en la legislación, en la cultura, en la vida cotidiana, a menudo presentándose el mercado mundial como protector de lo que legislaciones nacionales habían ignorado.

El proceso de traspaso de políticas desde un ámbito nacional a entornos supranacionales ha operado en varios niveles: empresas locales “igualadas” con consorcios transnacionales, que no soportan dicha competencia, porque esos grandes consorcios bajan costos mediante una manopla de recursos mucho mayor (y en general, de menor calidad). Y porque la tendencia a acumular poder engarza mejor con unidades económicas mayores.

Por eso, los grandes aglomerados agroindustriales han ido despedazando a campesinos, productores familiares o cooperativos de alcance local. Sin mejorar la calidad alimentaria, en rigor empeorándola (pese a la propaganda en contrario). Apelando a aditivos casi siempre tóxicos, pero consiguiendo con ellos estimular la demanda y aumentar la escala de producción. En ese deterioro alimentario, cada vez más generalizado, los transgénicos ocupan un lugar relevante, como décadas antes lo hicieran los biocidas, bajo el perverso nombre de “revolución verde”.

Tal vez, resumiendo, el rasgo más característico, estructuralmente necesario, para la rentabilidad verificable en este último medio milenio, sea el de la tendencia sostenida al aumento de escala para la producción junto con la expansión de los mercados; ambivalente situación, porque el aumento de escala deteriora calidad, pero la expansión mercantil permite el acceso a más seres humanos. Se trata de una expansión no lineal sino progresiva, que va expandiendo no sólo la producción, los mercados y sus modalidades, sino también el ritmo con que se produce la misma expansión.

- unidades productivas, de aprovisionamiento y procesamiento, cada vez más grandes y consiguiente consumo creciente de materias primas y recursos,

-        inversión de las relaciones entre economía y finanzas y entre ciencia y tecnología; las finanzas toman preeminencia sobre la economía y la tecnología y sus centros de producción sobre la ciencia,

-        contrarreforma agraria en marcha, expulsión o ahogo de campesinos, despoblando campos, formando unidades de producción agraria o agropecuaria cada vez mayores e industrializantes (borrando diferencias entre la elaboración de ropas o vajilla, por ejemplo, con la crianza de patos y plantas),

-        megalopolización urbana y contaminación cada vez más fuera de control,

-        recambio más o menos permanentemente acelerado de objetos de producción y consumo; obsolescencia programada.

Tomemos un único ejemplo.

PESCA. La humanidad se ha nutrido desde tiempo inmemorial de peces y seres vivos acuáticos. Se estima que el 60% de las proteínas animales consumidas por la humanidad ha provenido, históricamente, de la pesca. El otro tercio de proteínas animales ha sido provisto por los animales de tierra o aire. Aves, cérvidos, liebres, cabras, cerdos, vacas, cuises, y el larguísimo etcétera que va variando de región en región. La pesca se ha estado industrializando desde hace siglos. Y “perfeccionando” sus técnicas al punto que al día de hoy, con sus redes de arrastre, sus bombas de profundidad y tantos otros recursos, los pescadores están en condiciones técnicas de vaciar el mar. Cada mar que “visitan”.

Sería un éxito deslumbrante si no fuera por el pequeño detalle de que la pesquería está logrando así serruchar la rama donde está asentada.

Sus técnicas de arrastre son tan “perfectas” como para no dejar intocado los fondos marinos. Que son, precisamente, la base nutricia de muchísimos circuitos vitales. Las redes son tan rendidoras que no perdonan ni siquiera a los más pequeños peces, puesto que los barcos engullen los peces grandes para comida humana y los pequeños como masa nutricia para animales criados o cultivados por el hombre, peces en estanque incluidos.

Tanta calidad técnica y ceguera natural o crisis del sentido común, ha hecho que la pesca haya desaparecido por ejemplo de todo el entorno europeo. El Mar Mediterráneo,  otrora asiento de apetitosos atunes y tantas otras especies que han alimentado milenariamente a las poblaciones costeras, es ahora poco más que el sumidero de los desechos de los países que lo circundan. El Báltico, por ejemplo, está tan contaminado que sus especies marinas han disminuido dramáticamente su fecundidad. Por estar interconectado no desaparece, como el mal llamado Mar de Aral (el sexto lago más grande del planeta, hoy reducido a una charca salobre gracias al “milagro soviético”): permanece entonces, pero cada vez más sin vida, como tantos otros mares o lagos en el mundo.

Desde hace unos años, las dotaciones pesqueras europeas se dedican a saquear las costas africanas, como la somalí, donde la impunidad es grande por la falta de un estado local en condiciones de defenderse.

Si revisáramos la actividad avícola o suina, veríamos el mismo cuadro, desolador; pollos o cerdos agigantados que no pueden tenerse sobre sus patas; las deyecciones gigantescas de establecimientos avícolas con millones de cabezas no permiten ya incorporarlas como abono y –gran festín para laboratorios que suministrarán “el fertilizante”– se depositan en lagos que apestan kilómetros a la redonda.

Así remataba la oenegé GRAIN un informe donde desnudaba el verdadero origen de la gripe aviar de 2011 y el sistema industrial de cría de animales:

Una interrogante candente es por qué los gobiernos y las agencias internacionales como la FAO (Organización de las Naciones Unidas para la Agricultura y la Alimentación) no hacen nada para investigar cómo las granjas industriales y sus productos, tales como estiércol y raciones, extienden el virus. Por el contrario, están usando la crisis como una oportunidad para profundizar la industrialización del sector. Se multiplican las iniciativas para prohibir la producción de pollos al aire libre y eliminar a los pequeños productores, y reponer las granjas con pollos genéticamente modificados. La red de complicidad con una industria involucrada en una sarta de mentiras y encubrimientos parece completa.”

Los campesinos están perdiendo sus medios de vida, sus razas de pollos nativos están siendo expulsadas del mercado, y algunos expertos dicen que estamos al borde de una pandemia humana que podría matar millones de personas […]. ¿Cuándo se darán cuenta los gobiernos que para proteger a los pollos y a las personas de la gripe aviar, necesitamos protegerles de la industria avícola mundial? 

¿Por qué los humanos hemos descubierto e inventado tantas cosas formidables que nos han ayudado, como la molienda o el pulido y las consiguientes herramientas que lo habilitaron, estamos ahora con esta problemática? El vidrio, por ejemplo, inventado hace miles de años mantiene la propiedad de su reversibilidad; hecho con arena y agua, puede volver a sus elementos originarios; como pasa con los elementos vivos; “renace”, en cierta forma (mediante “la muerte” de lo previo).

Con la modernidad, poco a poco, parece haberse roto esa doble vía entre lo elaborado por humanos y su entorno.

Demos un ejemplo de lo que quiero decir con “modernidad” y sin atarnos en modo alguno con medievalistas ultramontanos. En el esplendor romano, hace más de dos mil años, los privilegiados de entonces querían disponer de agua en abundancia. En Roma y en la Punta del Este de entonces, en Pompeya. Marco Vitruvio Polión, un arquitecto romano de entonces, planeó las canalizaciones correspondientes. Eligiendo, según tramos y otras características físicas, hacerlas en piedra, mampostería, cerámica y madera. Descartó el plomo, que era toda una tentación por su maleabilidad fundible a relativamente pocos grados (300). Vitruvio desaconsejó su uso  porque la frecuencia de saturnismo entre los mineros que extraían tan codiciado metal, lo puso alerta.[1]

Técnicos entonces de la era precristiana no aceptaron el plomo para las cañerías de agua.[2]  Una situación no lineal, ciertamente. Otra gran ciudad de la época, como Mohenjo-Daro, en el actual Paquistán, usó para el tendido de las redes de agua potable barro cocido, cerámica, madera, cemento, roca, plomo, bronce…

La negativa al uso de plomo en Roma y Pompeya se realza en el marco cultural de entonces, por la resistencia al uso meramente pragmático de un material.

Peguemos un salto de más de milenio y medio…

Si hace dos mil años, era insensato hacerlo, ¿qué pasó en los siglos de despliegue industrial y colonial (vienen juntos) con el Reino Unido y Europa Occidental a la cabeza?  A comienzos del s. XIX, Glasgow, en Escocia, comienza el tendido de redes de agua potable para toda la ciudad; la primera ciudad europea moderna que despliega esa ingeniería… y lo hace con plomo.

La advertencia sanitaria de los romanos dos mil años antes se había esfumado en el galope tendido de la civilización occidental, europea, moderna. Y cuando hace menos de cien años las redes de cañerías de plomo extienden masivamente su uso al agua también caliente, cuando todos los hogares de alta sociedad y cada vez más los de las capas medias, pasan a disponer como algo normal de “agua corriente y caliente” en las viviendas, Vitruvio parecía definitivamente olvidado.

Pero no había pasado ni otro siglo, con el agua caliente “perfectamente instalada”, que la realidad empezó a descargarse sobre la sociedad, sus habitantes. El agua caliente “se come” el plomo, y es fácil imaginar quién  “come” realmente el plomo de cañerías perdiendo grosor. Pensemos que esa agua, “en casa” se usa como ingrediente alimentario. La insensatez había tomado dimensiones demenciales. Nunca se sabrá, y los sistemas médicos se cuidan mucho de investigarlo, si una serie de dolencias, como atrasos madurativos, dolores de cabeza, déficit intelectuales, calambres, atrofias musculares, no son sino manifestaciones de la temida plombemia. Que Vitruvio evitó a propietarios romanos.

Esto es lo que ha pasado en las ciudades occidentales a lo largo del siglo XX.

Como para mostrarnos que no aprendemos nada, en ese mismo momento histórico, de crisis de los caños de plomo y sustitución por otros materiales,[3] muy específicos conglomerados empresariales, administradores del agua, como Coca-Cola, optan por persuadir a la gente que la solución más cómoda es tener siempre agua consigo y para ello… botellitas de plástico. Muy marcadas excepciones hubo, como Roma y su gobierno municipal, que se empeñó en evitar botellitas de plástico ofreciendo en todas sus plazas bebederos públicos en buen estado. Estábamos alrededor del 2000.  Veinte años después, con la paranoia por el Covid, sólo quedaría la botellita “para sí”.

Cómo ingresa en nuestras vidas el “tren” de la modernización tecnocrática

Jonathan  Cook[4] nos da una explicación que nos parece muy digna para tener en cuenta: que el sistema de construcción tecnocrático se ha convertido en religión, con la sacralización consiguiente. 

Eso es lo que nos pasó: fuimos entrando en una nueva religión, casi sin darnos cuenta por más que se lo haya dicho tantas veces; una religión del progreso, con sus sacerdocios mayores; la ciencia y la tecnología.

El mundo empresario, apurando ganancias, estimulado por una escala siempre creciente, pivoteando sobre el colonialismo, el despojo de tierras y materias primas y el más abyecto racismo, hizo prevalecer la ganancia sobre la calidad alimentaria y el poder sobre la naturaleza. Los alimentos fueron cambiando, con empleo de  mejoradores, colorantes, floculantes, conservantes,  emulsionantes, espesantes… fosfato monosódico, polisorbatos, grasas hidrogenadas, jarabe de maíz transgénico de alta fructosa, y mil aditivos más de los que apenas se conoce una propiedad (refrigerante o antioxidante, por ejemplo) y se desconocen todas sus otras potencialidades (benignas o tóxicas) dando sin más rienda suelta a  una producción cada vez más contaminante.

Ante semejante invasión literal de modernidad galopante, la división entre conservadores y progresistas se redujo en la mayor parte de los casos, a que los primeros querían la apropiación privada y los últimos, la estatal. Pero todos, casi todos, aceptando alegremente (o al menos sin chistar), en este caso, la contaminación alimentaria.

Para asegurarse, el mundo empresario, cada vez más transnacionalizado, se valió de la designación de oficinas –provinciales, nacionales, regionales, internacionales– de control, supervisión o evaluación, públicas; “para todos”. Una esfera estatal que se hizo rápidamente cómplice de los “progresos”.

Así entraron, por ejemplo, los alimentos transgénicos a nuestras mesas. Por resolución ministerial, pero por decisión de grandes consorcios transnacionales.

Luddismo

Algunos académicos se han preguntado  si los conflictos sudamericanos no están teñidos de luddismo.[5] Por la oposición a la tecnología nuclear, a los transgénicos, a los gasoductos, a la minería a cielo abierto…

Nada más equivocado. No ha habido ni rastros de luddismo; en todo caso, luddismo es lo que nos ha faltado atemorizados por una izquierda tecnocrática que ha tipificado a los ludditas como meros rompedores de máquinas,  de puro retardatarios. Porque esa izquierda, progresista, jamás quiso salirse de la “senda del progreso”, empeñados en ver un único y necesario devenir histórico. Han apostado al agua corriente en plomo antes que a la sabiduría y sensatez de milenios atrás, con el progreso perdidas.

Y todos esos conflictos señalados por académicos provienen del daño, el malestar y el rechazo que provoca el despojo que ejercen los núcleos poderosos sobre  las sociedades periféricas (a las centrales, hasta ahora al menos, se las distraía con otros recursos). Se sabe que esas mismas “realizaciones técnicas” se desarrollan en países “industrializados” con menos abuso que el que las mismas empresas se arrogan en tierras periféricas.

Como explica Dorothy Nelkin,[6] los titulares de esos megaproyectos “trabajan en términos de un cálculo de eficiencia que sólo incorpora costos” que estos titulares evalúan, y dejan de lado “otros” costos que en todo caso afecten a poblaciones civiles y a sus entornos sociales, ambientales, sanitarios.

En buen romance, que a las empresas las tiene sin cuidado que sus proyectos productivos enfermen a criaturas ajenas a la empresa, contaminen agua ajena a la de sus circuitos, perjudiquen el hábitat donde se asientan exclusivamente para extraer una producción.

Todo este cuadro de situación nos impele a preguntarnos porqué, pese a una crisis cada vez mayor; sanitaria, alimentaria, psíquica, ambiental, a la conciencia social creciente de que los políticos no son sino “firmaplanos” que otros dibujan, el pensamiento y la acción, críticas, vuelan tan bajo, sin atreverse a “sacar los pies del plato”.

Están, “estamos” los objetores de este curso, carentes de “masa crítica”. Y están “los optimistas de siempre” que tratan de persuadirnos que estamos en el mejor de los mundos, en todo caso peor que el que vendrá mañana.

Eppur si muove; hay muchas señales sobre una crisis terráquea…

La contaminación avanza, está generalizada y fuera de todo control.

La idea de pocos años atrás de lanzar al mar océano enormes barcos “tragaplásticos” para retirar las toneladas de tales arrojados a los mares del planeta ha caído en la más penosa obsolescencia desde que se sabe, hace ya muchos años, que los plásticos sufren una erosión marítima permanente que no los biodegrada pero sí los desmenuza, convirtiendo los trozos plásticos en unidades cada vez más pequeñas, hasta alcanzar dimensiones microscópicas. Así, sin biodegradarse, esas partículas reciben la adherencia de seres vivos microscópicos, de los que se sabe que algunos al menos generan un fuerte atractivo hacia peces. Que engullen tales micropartículas con sus colonias como manjares.

Nos falta saber qué funciones podrán cumplir tales micropartículas en los cuerpos anfitriones. De peces, mamíferos, humanos incluidos. Sabemos sí, que algunas de dichas partículas son cancerígenas.

Pero antes de incursionar en la problemática sanitaria y los posibles efectos adversos de semejante metástasis, sobreviene una pregunta previa: ¿cómo pudo concebirse y aprobarse la “construcción” de sustancias no biodegradables? Porque no es un descubrimiento, es una invención ante la cual ni el idioma tiene una palabra para describirlas: no biodegradables. ¿Cómo no darse cuenta que construyendo tal tipo de sustancia corrompíamos la naturaleza, generábamos una dificultad irresoluble? ¿Qué imaginaban ser los científicos, técnicos, gerentes de los grandes laboratorios inventándolo? ¿Dioses? Se podría replicar: ¿Quién no conoce una formidable aplicación del material plástico? Claro que las hay, y muchas. Pero su peculiar “naturaleza”, que no es tal, nos debería haber advertido y ser cautos. Pero, otra vez, como jugando a ser dioses, si algo hemos expandido fuera de control en todo el planeta ha sido, precisamente, el material plástico.

De todos modos, lo de las micropartículas plásticas hoy repartidas en toda la superficie planetaria es apenas un ejemplo del sistema de construcción que una modernidad cada vez más ciega a la naturaleza nos ha generalizado.

Nuestro futuro robado

Dos  biólogos y una periodista especializada, estadounidenses, a fines del siglo XX redactaron un informe sobrecogedor: Our Stolen Future [7] (con que titulamos nuestro subcapítulo). En que demuestran, a través de un enorme despliegue de trabajo de campo, una crisis de la sexualidad, animal y humana en progresivo avance, sin ninguna duda asociada a la contaminación. En el caso de varones (las mediciones están hechas solo con estadounidenses, pero las causas traspasan claramente fronteras, aunque puedan tener diversa intensidad en distintas latitudes y regiones), las mediciones revelan que década a década durante la segunda mitad del s XX, la capacidad espermática ha disminuido. Sin excepciones, sin curva alguna “hacia arriba”. Entre animales, las investigaciones también resultaron desasosegantes; desde cocodrilos con penes tan pequeños que no podían acceder, propiamente copular con la hembra; a gaviotas hembras que cumplían funciones proveedoras (que suelen hacer los machos, aquí faltantes) a hembras que cloquean; hasta peces que naturalmente son sexuados, machos y hembras, pero que se presentaban bisexuados…

Nos parece que la investigación de los nombrados biólogos nos da otra faceta de la problemática, que entendemos crítica del “estado de las cosas”.

Y uno de los fenómenos que cada vez vemos más claramente: cada avance tecnológico trae consigo un debilitamiento de nuestras raíces, tanto las sociales como las biológicas.  Y ese proceso parece únicamente acentuarse, avanzando. y multiplicándose ocupando cada vez más áreas de nuestras vidas y el planeta.

El arqueólogo e historiador chileno, Miguel Fuentes lo dice nítidamente. Refiriéndose a un motivo de preocupación de la ecología oficial y la burocracia internacional, que es el avance, al parecer imparable, de la presencia de dióxido de carbono en nuestra atmósfera (recalentamiento de la corteza terrestre entre otras manifestaciones) afirma:

La magnitud de este problema habría rebasado ya hace mucho tiempo, […], la ‘esfera de competencia’ de los sistemas económicos y tecnológicos para desplazarse al ámbito de las relaciones geológicas y biofísicas del planeta en su conjunto, poniendo desde aquí en entredicho las propias capacidades tecnocientíficas […] de la civilización contemporánea. […] El problema que representarían los actuales niveles de dióxido de carbono en la atmósfera (cercanos ya a los 420 ppm), no vistos en millones de años en la Tierra, o bien los relacionados a los avances sin precedentes de la acidificación marina, del deshielo del Ártico o de las tasas de derretimiento del permafrost, constituirían hoy desafíos cuya solución escaparía en gran medida a cualquiera de nuestros desarrollos técnico-científicos y capacidades técnicas.[8]

La tesis de Fuentes advierte la gravedad del camino emprendido por la humanidad, por un sector apenas, pero es el que ha resultado decisivo para imprimir el destino a nuestra especie; al haber convertido, como recuerda Cook, a la ciencia en religión y sobre todo, a su capítulo utilitario; la tecnología devenida tecnociencia, una suerte de tecnosacralización. Y lo más penoso: las más de las veces ha sido el lucro o e éxito el motor que impulsó esos desarrollos.

Con una coda al parecer inevitable: convertida en religión, la humanidad pierde capacidad crítica, se siente desautorizada para hacer cualquier crítica. Y así sí somos pasto de los consorcios transnacionales de presunta o presumida vanguardia.

Fuentes da otros datos afligentes; con todos los despliegues tecnológicos con que nos atosigan los medios de incomunicación de masas un día sí y otro también; el control  y hasta la disminución de CO2 atmosférico está muy lejos de alcanzarse: “las llamadas “plantas de absorción” de CO2, […] no han sido capaces todavía de remover ni siquiera una pequeña fracción […] de las más de 40 mil millones de ton. de CO2 emitidas cada año por la sociedad industrial.” (ibíd.) Y Fuentes nos recuerda que lo del CO2 no es un caso aislado; lo mismo pasa con la acidificación de los mares o con la chatarra espacial. Y que en general es tonto recurrir al auxilio tecnológico cuando es precisamente lo tecnológico invasivamente desplegado lo que nos ha situado en la crisis ambiental en que estamos.

Con imaginación casi poética Fuentes sostiene que enfrentamos problemas tan insolucionables como los que se le plantean a quien busque  restaurar a su estado original una olla de arcilla o una botella de vidrio luego de que ésta haya sido rota en mil pedazos […]. ¿Restaurar una copa del más fino cristal luego de ser molida en pedazos? ¡Ni siquiera con la inversión de diez, cien mil PIB mundiales sería posible! ¡Esto es justamente lo que hemos hecho con el mundo, el más bello de los cristales planetarios de nuestro sistema solar, volado en mil pedazos por el industrialismo ecocida!” (con lo cual, de paso, se burla, y con razón, de quienes especulan acerca del porcentaje, 2%, 3%, 4% del PBI mundial, que alcanzaría para reencauzar el estado planetario (como si se tratara de solucionar los desajustes ambientales con unos pocos remiendos de circunstancias).

Nos vemos en camino a un mundo cada vez más desmejorado en condiciones vitales. Ya se estima, en nuestro presente, que la generación de nuestros hijos recibe un mundo peor que el que recibiéramos de nuestros progenitores…

Tendremos que reaccionar ante un fideísmo ante la ciencia como en su momento, hubo quienes pudieron y supieron reaccionar contra el fideísmo religioso medieval, validos de un pensamiento laico, pero crítico.

El sobreuso de nuestros medios materiales, alegremente “cubierto” con ardides tecnológicos, nos ha cegado para poder ver que estamos agotando literalmente el planeta; su aire, agua, suelo.

Que la construcción de megalópolis, por ejemplo, resulta suicida, aunque de modo mediato. Lo mismo podríamos decir de los desplazamientos de las capas con alto poder adquisitivo, quienes se sienten, y son “locales” en todo el planeta.

La civilización rampante que “perfeccionó” nuestra ruina cada vez más a la vista fue, a mi modo de ver una variante de lo que llamamos Occidente, para muchos, la culminación o vanguardia civilizatoria mundial. Su expresión más acabada. Una sociedad que extremó tales rasgos hasta hacerlos patéticos, carentes de todo equilibrio, de toda complejidad; de ying y yang, dirían los orientales: la cultura dominante de EE.UU., el american way of life.

Con este “sistema” o “estilo de vida”  los humanos perdimos sabiduría ganando eficacia. Perdimos la noción de escasez, intoxicados culturalmente (y sobre todo, mediáticamente) por una abundancia apabullante.

Pero esta derrota cultural no proviene de este último capítulo; ya estaba incubada en el pensamiento de la modernidad burguesa, occidental.

Una eficacia altanera, autosuficiente. Indiferente, insensible, por ejemplo a la contaminación. Cegados, como dirían antiguos dioses si existieran, hasta que resulta demasiado tarde. Porque, como dice Fuentes, no podemos ahora recuperar “el paraíso viviente”, perdido.

Apenas ver si podremos salvar “partes del naufragio” planetario.

Es con este desarrollo arrasador del industrialismo, la colonización generalizada, el racismo acaparador, nuevas invasiones (semánticamente salvaguardadas como “avances de la frontera del progreso”), exterminando flora y fauna sin pausa y sometiendo con diversas modalidades, esos otros humanos tan a menudo considerados subhumanos (aunque la fraseología democrática ha ido corriendo las exclusiones hasta hacerlas desaparecer literalmente, al menos si no de la realidad, de la cosmovisión ideológica oficial).

Y seguimos, cada vez más de prisa, construyendo una tecnosfera que imaginábamos salvadora y paradisíaca, aunque cada mañana percibimos, oscuramente, que es la nave mayor, la nave insignia, la que está averiada...

Por eso dijimos inicialmente que lo que nos faltó fueron ludditas y, que en lugar de ello, arropados en ideologías progresistas o literalmente egoístas, amparadas en la modernidad,  nos fuimos entregando o fuimos entregados, siempre deslumbrados ante “los cada vez más impresionantes desarrollos tecnocientíficos”.

Vayan unas grajeas ilustrativas de ese pensamiento dominante:

□ Ante la ya indubitable crisis de las abejas, alterada su orientación, no sabemos si por la creciente carga electromagnética atmosférica, por la presencia cada vez más pesante de agrotóxicos o por la invasión de “soluciones” biocidas, Monsanto se puso “a disposición”, invitándonos a usar drones que ellos confeccionarían para hacer “el trabajo” que las especies amenazadas o exterminadas iban a dejar de hacer, creyendo o haciéndonos creer que drones podrían cubrir la formidable y menudísima tarea que llevan a cabo los insectos libadores.

No  tuvieron, no expresaron, claro, el más mínimo pensamiento hacia los costos. Si el costo de esa neopolinización imposible llegara a salir mil veces mayor que la clásica, “natural”, Monsanto podría frotarse las manos a la vista de esos miles de millones…

 □ Oceanógrafos comprobaron el derretimiento del casquete polar ártico y  que dicho casquete es cada vez menos grueso. Algunas compañías navieras de transporte de combustibles festejaron ese adelgazamiento porque calcularon que bajaban sus fletes… La interdependencia, bien gracias.

 □ Trabajos de megaminería en  algunas laderas andinas afectaron glaciares. Caballerosamente, algunas compañías mineras se ofrecieron a cambiarlos de sitio… ¿Cómo se imaginan que se forman los glaciares? ¿Qué alguien dibuja en alguna oficina de diseño el sitio y luego se lleva allí un poco de hielo?

Cualquiera de esos tres ejemplos nos muestra que la relación del mundo empresario con la naturaleza es ya, no pobre, esquemática, sino de una ignorancia insondable… La podríamos llamar fideísmo hacia la ciencia (en rigor, hacia la tecnología, que es lo que el capital y sus titulares tienen interés supremo en dominar).

Pero ese fideísmo (como cualquier otro) presenta un enorme peligro a nuestra especie: somos seres vivos y esa condición vital es radicalmente distinta a los rasgos de los objetos, que carecen de vida.

Hay grandes investigaciones que están superando esa dicotomía. Con buenas razones, porque se trata de una muy esquiva frontera. El panteísmo nos ha mostrado cómo todo, de algún modo, vive.

Pero aun así, lo orgánico tiene cualidades que no tiene lo inorgánico.

Y la modernización en sus últimos tramos, la cibernética derramándose sobre todas o casi todas nuestras actividades; el celular como un alter ego; la saturación como un proceso invertido al del viejo mundo de la escasez, nos está haciendo relacionar a los humanos con objetos, como nunca antes. Sin la mediación con otro, cada vez más directamente mediante “diálogo” con la aparatología cibernética. Alcanzando objetivos ya no “a dos voces”, como tradicionalmente, sino “a una sola voz”. Moverse en un mundo de inteligencia artificial, de objetos. Claro que todo “mucho mejor y más rápido”. ¿Significa algo la pérdida del diálogo, voces entre humanos? Tengo para mí que, toda esta invasión cada vez mayor de dots, trolls, spots, algoritmos-e, ocupando la mayor parte del nuestro tiempo humano debilita el diálogo entre humanos, y que, consiguientemente al llevar adelante objetivos “a una sola voz”, vamos, nosotros también, resultando objetos (esto pasa y desde “siempre” con “los nadies”, los desheredados “de siempre”). Como vemos, la condición de objeto no es novedad para buena parte del género humano; la pregunta es qué significa su generalización.

Un dato reciente: hasta hace muy pocos años, el teléfono era el nexo entre el particular y la empresa. El mundo empresario computarizó ese nexo, obteniendo una serie de ventajas materiales; de tiempo, precisión. Y de ahorro, de personal. Pero en tales cálculos no entra el tiempo social perdido por “los particulares” abriéndose paso, o no en los sitios-e. Aunque es mucho mayor que el ahorro empresarial, ese tiempo, desperdiciado, carece de valor para el mundo empresario. El tempo de Los nadies.

Todo el seguidismo que atribuíamos en otras civilizaciones a los dioses, en la laica civilización moderna lo atribuimos a la ciencia (y su hija dilecta, la tecnología). Pero aquella ceguera, que “veíamos” en culturas destrozadas por la civilización occidental se reprodujo entre nosotros, sólo alegando otras falsas certezas y nuevas fidelidades.

Ya lo anunció hace medio siglo el psicólogo Stanley Milgram con su pícara experimentación sobre dolor: la gente acepta casi cualquier monstruosidad si le dicen que es “por la ciencia”. Así fue como “enfrentamos” la pandemia decretada por la OMS.

Si no nos sacudimos de este nuevo fideísmo tan generalizado, estamos aen camino de perder no ya una elección, no las comodidades cibernéticas que tanto nos han complacido, sino  el mundo, tal cual lo conocemos.



[1]   Los aportes de Vitruvio fueron muy considerados hasta la modernidad, aunque al parecer por allí caducan; su hombre cósmico fue todavía retomado por Leonardo de Vinci, convirtiéndolo en pintura inolvidable con sus brazos y piernas duplicados y extendidos y armando con ellos un círculo y un cuadrado perfectos.

[2]  Aunque agotada, hubo una ficha de mi autoría en la Facultad de Filosofía y Letras, (UBA); ¿Ecología en la política o para otra política?, ¿crisis ambiental o crisis civilizatoria?, 2014.

[3]   Hubo un material muy usado que validó la máxima “La enmienda resultó peor que el soneto: el PVC.

[5]   Se asocia al luddismo con un sabotaje mediante “violencia a las cosas”; rompían telares industriales. Sin entrar a analizar todos sus rasgos, entiendo decisivo uno: su lucha encarnizada contra el aumento de la escala de producción. En cierto sentido, fueron muy perceptivos. Y los titulares de los poderes mayores y centrales, también, puesto que encararon su exterminio. Legalmente: todos ellos fueron condenados a la horca.

[6]   Cit. p. Ana M. Vara, ”¿Una ola del ludismo en América Latina?”, UNSAM, 28 ago 2009.

[7]  Theo Colborn, John Peterson Myers y Dianne Dumanoski.

24/05/2022

LUIS E. SABINI FERNÁNDEZ
Sesgo imperial de la argentinidad

 Luis E. Sabini Fernández, 22/5/2022        

El censo que acaba de realizarse en el país, en toda Argentina, revela, “como todo en la vida”, rasgos a menudo inconscientes y más o menos colectivos.

Argentina ha sido tradicionalmente un país de inmigración. Los primeros censos nacionales revelaron el porcentaje más que apreciable de extranjeros, generalmente inmigrantes, que fueron constituyendo el país.

Fueron proverbiales los millones de italianos que “forjaron” este país. Y también los españoles y hasta los ingleses, solo que este último aporte trajo consigo más gente con poder que gente de laburo (aunque en rigor, siempre combinados, poder y trabajo en todos los aportes inmigratorios).

Fue también proverbial el caudal, por ejemplo,  inmigratorio desde países limítrofes, particularmente de bolivianos, paraguayos, orientales (estos últimos designados, desde hace ya tiempo, como uruguayos).

En la actualidad, conocemos la llegada de muy significativos contingentes de venezolanos, colombianos, peruanos, e incluso de tierras más lejanas, como sirios, por ejemplo. En estos últimos ingresos, se mezcla cada vez más la condición de inmigrante con la de refugiado.

Y si la primera suele ser previa a la nacionalización y con ello avanza un proceso de argentinización, en el caso de los segundos, el proceso no suele ser tan lineal, porque la decisión de abandonar una tierra natal ha sido totalmente involuntaria, a menudo forzada. Por eso, muchos refugiados retornan a sus tierras natales si la situación política lo permite.

Cualquiera de sus diferentes gradaciones, debería llevarnos a hablar de habitantes de la República Argentina, y no de argentinos propiamente dichos, por más que la misma constitución nacional argentina en su preámbulo invite a todos “los hombres del mundo que quieran habitar en el suelo argentino” a hacerlo.

Es por lo tanto literalmente falso, afirmar que el censo arrojó 47 millones y medio de argentinos.

Lo que sí, revelaría el censo es la presencia de 47 millones y medio de habitantes en Argentina, dando por correcta la info recabada y publicada.

Y será muy instructivo saber de los diversos orígenes de toda esa población. Y si se puede, cruzar orígenes geográficos con niveles educacionales y de ingresos, todavía mucho mejor.

16/02/2022

REINALDO SPITALETTA
Cinco prostitutas y un anarquista

Con la matanza de obreros en la Patagonia a fines de 1921, cuando fueron fusilados por el ejército mil quinientos trabajadores agrarios, pasó como sucedió después con la masacre de las bananeras, en Ciénaga, Magdalena, en 1928, que, según las posiciones ideológicas y no los documentos y otros testimonios, fueron solo nueve y no un millar o más, como lo reconoció en su momento la Legación de EE.UU. en Bogotá.

 Cuando se trata de trabajadores, parece dar lo mismo que sean unos cuántos o centenares de ellos los masacrados. Seguro eran comunistas, dirán. O anarquistas. Y hasta se lo merecían, acotarán los verdugos. Así se niegan la historia, los contextos, las manifestaciones contra las injusticias. Y desde el poder se hace lo posible por borrar de la memoria tales acontecimientos de espanto, crímenes de lesa humanidad, como se han catalogado en tiempos más recientes.

En el sur de la Argentina, en Santa Cruz, los peones rurales de la Patagonia, a fines de 1920, declararon una huelga para reclamar a los estancieros un día de descanso a la semana, tener un lugar limpio donde dormir y un paquete de velas. No era gran cosa, pero los hacendados se opusieron y, además, incumplieron acuerdos. Un años después, los trabajadores se levantaron y entonces apareció el ejército, comandado por el coronel Héctor Benigno Varela. Y ahí comenzó una historia de horror, pero, a su vez, de demostraciones de dignidad por parte de cinco prostitutas del Puerto San Julián.


Varela inició los fusilamientos a granel, sin fórmula de juicio. Se trataba de escarmentar a los trabajadores (casi todos esquiladores y cardadores de lana), de pasarlos por las armas, de calificarlos de forajidos, insurrectos y bandoleros. Y así, por distintos predios, los fusilamientos fueron un pan duro y amargo de cada día. A comienzos de 1922, tras cumplir con la masacre, a la que el gobierno llamó “pacificación”, Varela quiso galardonar a sus soldados con un premio en especie, en desfogue para su libido reprimida.

En un burdel la soldadesca hizo la fila. No les abrieron. Y de pronto, salió la dueña, Paulina Rovira, y les anunció que las damiselas se negaban a atenderlos. “Eso es traición a la patria”, le dijo el suboficial al mando, y una patota intentó meterse a la fuerza, cuando, en esas, emergieron las cinco “pupilas”, armadas de escobas y palos, y los increparon: “¡asesinos!”, “¡porquerías!”, “¡con asesinos no nos acostamos!”.

La inesperada reacción dejó sin aliento (y sin ganas de un polvazo) a los soldados, que se paralizaron ante los hijueputazos, los escupitajos, los escobazos y los “insultos obscenos propios de mujerzuelas”, según se consignó en un informe policial. Esta muestra de coraje y dignidad de las prostitutas, la va a narrar, entre otros, el novelista David Viñas y el historiador y escritor Osvaldo Bayer, este en su impresionante libro La Patagonia rebelde.

Hace un siglo, el 17 de febrero de 1922, ocurrió el atrevido acto de rechazo a la masacre obrera por parte de cinco valientes mujeres, putas de profesión, del prostíbulo La Catalana, que, ante el silencio y el miedo general de la población, enfrentaron a los autores de una de las más atroces matanzas de la Argentina y de la historia del movimiento obrero. Las otras llegarían años después, con la dictadura militar de Videla y compañía.

 

Consuelo García, Ángela Fortunato, Amalia Rodríguez, María Juliache y Maud Foster eran las cinco heroínas de San Julián, rescatadas de la desmemoria por las pesquisas e investigaciones de Osvaldo Bayer. El otro héroe de esta singular historia fue Kurt Wilckens, anarquista alemán de tendencia tolstoiana, quien, el 27 de enero de 1923, tomó venganza por mano propia al ultimar con una bomba de percusión y un revólver Colt al teniente coronel Varela en una calle del barrio Palermo, de Buenos Aires.

Varela, como lo cuenta Bayer en su libro, a los trabajadores “les hacía cavar las tumbas, luego los obligaba a desnudarse y los fusilaba. A los dirigentes obreros los mandaba apalear y sablear antes de dar la orden de pegarles cuatro tiros”. En la Patagonia, dedicada por los latifundistas a las ovejas (uno solo de ellos, Mauricio Braun, llegó a tener la astronómica cantidad de 1′376.160 hectáreas de tierra, con ganado lanar), los peones eran sometidos a jornadas de explotación inmisericorde.

 Wilckens, un anarco que además era un pacifista, abstemio y vegetariano, se decidió a tomar justicia por mano propia ante “la violencia de arriba”. No tenía parientes entre los fusilados. No conocía la Patagonia (el Far South argentino) y solo creía que iba a cumplir “un acto individual justiciero”. Cuando alcanzó su cometido, en un atentado cinematográfico, del que además salió mal herido, declaró: “He vengado a mis hermanos”.


 Cinco prostitutas (cuatro argentinas y una española) y un anarquista alemán pasaron a la historia (bueno, digamos que gente como Bayer y otros los rescataron del olvido oficial) de las luchas contra la injusticia y la explotación.