المقالات بلغتها الأصلية Originaux Originals Originales

Affichage des articles dont le libellé est Genocidio di Gaza. Afficher tous les articles
Affichage des articles dont le libellé est Genocidio di Gaza. Afficher tous les articles

28/10/2025

Giovani scriventi di Palestine Nexus riflettono su due anni di genocidio

Zachary Foster, Palestine Nexus, 16/10/2025
Tradotto da Tlaxcala


Ghaydaa Kamal, Dalal Sabbah, Hani Qarmoot e Rama Hussain AbuAmra (da sinistra a destra)

Il popolo palestinese di Gaza ha vissuto due anni di genocidio. Eppure, nonostante gli sfollamenti forzati, la campagna di fame e gli omicidi di massa, i giovani scriventi di Gaza hanno rifiutato di tacere. Hanno raccontato i loro corpi affamati, le esperienze di morte sfiorata e la lotta per trovare cibo, medicine, acqua e rifugio. Viaggiano per ore per trovare una connessione internet e scrivono a stomaco vuoto mentre sostengono le loro famiglie e aiutano chi ha ancora meno. Rischiano la vita ogni giorno per raccontare al mondo le storie della Palestina, e resteremo per sempre ammirativi del loro coraggio e della loro resilienza. Ecco alcune delle loro riflessioni guardando indietro agli ultimi due anni.
Dr. Zachary Foster, fondatore di Palestine Nexus


Hani Qarmoot, 22 anni, giornalista e cantastorie del campo di Jabalia

«Durante i due anni di genocidio, ogni giorno è stato segnato dalla fame, dallo sfollamento, dal sangue e dal fragore delle esplosioni. Per la nostra sopravvivenza, per la continuazione delle nostre storie e per il riconoscimento della nostra sofferenza e del nostro sorriso, scrivo nel buio. Anche se ho perso amici, colleghi, insegnanti e persone care, i loro ricordi mi sostengono. Il suono della risata di un bambino, il messaggio di un amico o il silenzio tra le esplosioni sono cose che mi danno vita. Scrivere è un atto silenzioso di resistenza che dimostra che siamo ancora vivi. Le nostre parole sono il nostro scudo e la nostra voce non sarà mai messa a tacere.»
Hani Qarmoot


Rama Hussain AbuAmra, 23 anni, scrittrice e traduttrice di Gaza City

«Faccio ancora fatica a credere che questo genocidio possa davvero finire. Per due anni abbiamo vissuto un incubo che ha rubato ogni traccia di amore, sicurezza e gioia. Siamo stati spogliati delle nostre case, dei nostri ricordi e delle persone che amiamo. Ogni momento era intriso di paura — paura di perderci, paura di perdere chi amiamo.
Una notte mi perseguita più di tutte: quella del 10 ottobre 2023. Alle 1:30 del mattino, una telefonata ci avvertì di evacuare l’edificio prima che fosse bombardato e ridotto in macerie. Come si può mettere un’intera vita in una sola borsa? La mia infanzia, i miei libri, i miei vestiti preferiti, l’angolo che amavo all’alba e al tramonto, tutto è rimasto indietro. Siamo corsi, senza fiato, verso un ospedale vicino, aspettando l’ignoto. Poi arrivò il rombo dell’esplosione che distrusse la nostra casa e i nostri cuori. Il giorno dopo fuggimmo ad Al-Zawaida, nel sud di Gaza, solo per assistere a un altro orrore: 25 anime della stessa famiglia spazzate via. Il fumo riempiva i nostri polmoni, il vetro cadeva come pioggia e il sangue copriva il terreno. Vedo ancora la cenere, le finestre infrante, gli arti sparsi.
Siamo sopravvissuti, in qualche modo. Ma le cicatrici restano. E ora aspettiamo, non in pace, ma con una fragile speranza.»
Rama Hussain AbuAmra


Dalal Sabbah, 20 anni, studentessa di traduzione inglese di Rafah

«Negli ultimi due anni, ho affrontato la sfida di documentare la vita a Gaza, assicurandomi che le nostre storie raggiungessero il mondo al di là delle macerie e del silenzio. Ogni giorno è stato una prova di resistenza, ma sono rimasta salda, perché queste storie meritano di essere raccontate.
Nonostante gli sfollamenti ripetuti, la stanchezza, la paura costante e la vicinanza alla morte; nonostante la perdita di molti membri della mia famiglia, ho dovuto continuare a scrivere per registrare questi momenti e onorare la memoria di coloro che abbiamo perso. Scrivere è diventato più di una professione; è diventato un grido silenzioso dal cuore al mondo, una testimonianza di vite che sfidano la morte ogni giorno, e la prova che le nostre voci non scompariranno tra il fumo e le macerie.
Anche quando la disperazione mi opprime, continuo. Scrivo, parlo, testimonio, perché è il mio dovere verso il mio popolo, verso la mia patria, verso la Palestina.
E qualunque cosa accada, la Palestina è libera, dal fiume al mare.»
Dalal Sabbah


Khaled Al-Qershali, 22 anni, giornalista freelance di Al-Nasser

«Anche se il genocidio dell’occupazione israeliana è finito e io sono sopravvissuto, nulla di ciò che mi è stato tolto mi sarà mai restituito. Ho perso due amici cari, Mohammed Hamo e Abdullah Al-Khaldi, insieme alla mia casa e alla vita che conoscevo prima del 7 ottobre 2023.
Da quel giorno, la vita come la conoscevo è stata distrutta. Gli ultimi due anni sono stati segnati da sfollamento, fame, paura e perdita costante.
Spero che il cessate il fuoco regga, ma faccio fatica a crederci. Durante l’ultimo cessate il fuoco, a gennaio, mio nonno e i miei zii tornarono a Gaza per ricostruire le loro vite dalle rovine. Ma era una trappola: il genocidio riprese e tutto ciò che avevano ricostruito sparì.»
Khaled Al-Qershali


Ghaydaa Kamal, 23 anni, giornalista e traduttrice di Khan Yunis

«Ogni storia che scrivo è una battaglia per la sopravvivenza. Ho scritto tra le rovine, nelle tende, in luoghi dove elettricità e internet sono miracoli. A volte camminavo per ore sotto il sole cocente perché i trasporti erano troppo costosi e perché il silenzio non era un’opzione.
Il mio portatile porta ancora la polvere della mia casa distrutta. L’ho estratto dalle macerie dopo un bombardamento, l’ho pulito con mani tremanti e gli ho ridato vita. Si è bloccato, si è spento, mi ha tradito molte volte, eppure continua a funzionare, proprio come me.
Ho scritto tra la fame, la stanchezza e la paura, documentando cosa significhi vivere e lavorare sotto bombardamenti costanti. Ci sono stati momenti in cui ho scampato la morte per pochi minuti.
Ma continuo a scrivere, perché se smetto, loro vinceranno — non solo uccidendoci, ma cancellando le nostre storie.»
Ghaydaa Kamal

23/10/2025

Il governo di Israele si vanta di sadismo, abusi e torture

Gideon Levy, Haaretz, 23/10/2025
Tradotto da Tlaxcala

NdT: stanchi dell'uso e abuso del termine “ostaggi” per indicare gli israeliani catturati il 7 ottobre, abbiamo scelto di tradurre il termine con “catturati”.

Il ritorno dei catturati israeliani  ha messo a nudo una verità che tutti conoscevano: il cattivo trattamento riservato da Israele ai prigionieri palestinesi ha peggiorato le condizioni degli israeliani tenuti prigionieri a Gaza. Ora è chiaro che il male aveva un prezzo.

Nadav Eyal ha riferito mercoledì su Yediot Aharonot che il servizio di sicurezza Shin Bet aveva avvertito già alla fine del 2024 che le dichiarazioni del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir stavano aggravando le condizioni già terribili che i catturati  stavano subendo, e a nessuno importava.

 


Prigionieri palestinesi in attesa di rilascio nel carcere di Ofer. Foto  Tali Meir

Ogni volta che Ben-Gvir si vantava degli abusi che ordinava, di cui il giornalista Yossi Eli si compiaceva nei suoi reportage sadici su Canale 13 su ciò che accadeva nelle prigioni israeliane, la vendetta arrivava dai tunnel.

È sgradevole ammettere il male israeliano. Ma perché abbiamo dovuto conoscere prima la vendetta dei rapitori palestinesi per essere scioccati dalla malvagità dei rapitori israeliani? Ciò che è accaduto (e sta ancora accadendo) nella prigione di Sde Teiman è stato una vergogna, a prescindere dalla terribile sofferenza che ha causato ai catturati.


L’ingresso della base militare e centro di detenzione di Sde Teiman. Foto  Eliyahu Hershkovitz

È vergognoso che sia stato l’abuso dei catturati  a suscitare indignazione per il trattamento da parte di Israele dei suoi prigionieri palestinesi, compreso il titolo di mercoledì di Yediot Aharonot, che finora non si era per nulla interessato a ciò che fa Israele.

Il quotidiano britannico The Guardian ha riferito questa settimana che almeno 135 corpi mutilati e smembrati sono stati restituiti a Gaza. Accanto a ciascuno dei corpi mutilati sono state trovate note che indicavano che erano stati detenuti a Sde Teiman. In molte delle foto si vedevano le mani legate dietro la schiena.

Non pochi mostravano segni di tortura, inclusa la morte per strangolamento, per essere stati travolti da un carro armato e con altri mezzi. Non è chiaro quanti siano stati uccisi dopo il loro arresto. Sde Teiman era un punto di raccolta per palestinesi uccisi altrove.

Il Club dei prigionieri palestinesi riferisce che le circa 80 morti di detenuti palestinesi in carcere potrebbero aver sottostimato la verità. The Guardian ha visto solo alcuni dei corpi e ha confermato i segni di abuso, ma ha detto che non potevano essere pubblicati a causa delle loro condizioni. Il corpo di Mahmoud Shabat, 34 anni, mostrava segni di essere stato impiccato. Le sue gambe erano state schiacciate da un carro armato e le sue mani erano legate dietro la schiena. «Dov’è il mondo?» ha chiesto sua madre.

La situazione dei palestinesi in vita che sono stati rilasciati non è molto migliore. Molti avevano difficoltà persino a stare in piedi al momento del rilascio, un fatto scarsamente coperto dai media israeliani.

Il dott. Ahmed Muhanna, direttore dell’ospedale Al-Awda a Jabalya, che era stato portato via nel dicembre 2023 e rilasciato durante la tregua, ha detto questa settimana di essere stato spostato di luogo in luogo durante la detenzione, incluso in un posto che ha descritto come un canile, dove i soldati lo hanno maltrattato con cani spaventosi.

L’aspetto emaciato del medico non lasciava dubbi sulle condizioni della sua detenzione. Israele detiene altri 19 medici di Gaza in condizioni simili.

Dovremmo ricordare le condizioni in cui Adolf Eichmann è stato detenuto. Nessuno lo ha maltrattato fisicamente prima che fosse giustiziato per ordine del tribunale.

Prigionieri palestinesi liberati portano fucili mentre arrivano nella Striscia di Gaza dopo la loro liberazione dalle carceri israeliane, a seguito di un accordo di cessate il fuoco tra Hamas e Israele, fuori dall’ospedale Nasser a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, in ottobre. Foto  Abdel Kareem Hana, AP

All’epoca, Israele si vantava delle sue  condizioni di detenzione. Oggi il governo si vanta di sadismo, abusi e torture. Lo fa perché conosce le anime dei suoi cittadini. La maggioranza degli israeliani è vendicativa e approva gli abusi.

A eccezione di organizzazioni come Medici Senza Frontiere, B’Tselem e il Comitato contro la Tortura, quasi nessuno si è opposto a quanto stava accadendo. Per i terroristi della Nukhba, tutto è permesso.

La definizione di chi conta come tale include chiunque abbia osato entrare in Israele il 7 ottobre. Il giornalista Ben Caspit ha detto questa settimana che tutti i combattenti della Nukhba dovrebbero essere giustiziati. Sembra che lo Shin Bet, il Servizio penitenziario israeliano e le Forze di Difesa israeliane abbiano già iniziato il lavoro seriamente.

L’unica preoccupazione di Israele è il danno arrecato ai catturati . Tutto il resto è perdonato. In molti casi, ci eccitiamo persino, custodiamo e apprezziamo gli abusi. Volevamo il sadismo; abbiamo ottenuto il sadismo.

Manifestazione in Estremadura contro Rheinmetall, fabbrica di morte: un messaggio universale


Tlaxcala, 23 ottobre 2025

Dalle profondità della Spagna rurale si leva un grido di rabbia, di dignità violata, un appello alle coscienze della vecchia Europa: fermiamo i fabbricanti e i mercanti di morte! Sabato 25 ottobre, per la seconda volta, si terrà una manifestazione davanti alla fabbrica di armi Rheinmetall a Navalmoral de la Mata, nella provincia di Cáceres, in Estremadura, su iniziativa dei collettivi La Vera con Palestina e Extremadura con Palestina. Di seguito un riassunto dei documenti pubblicati in spagnolo e tedesco.


L’appello s’intitola
“No al rearme, stop genocidio” – No al riarmo della Spagna e dell’Europa, fermiamo il genocidio. Nel quadro del piano “Rearm Europe” della Commissione europea, il governo di Madrid si è impegnato a rispettare l’obiettivo della NATO di destinare il 2% del PIL alle spese militari. L’obiettivo – che divide la coalizione di governo – è raggiungere entro il 2029 un bilancio superiore ai 40 miliardi di euro.

Collegare la lotta contro il riarmo alla solidarietà con la Palestina

La rivendicazione centrale è quella di unire la lotta contro il riarmo alla solidarietà con il popolo palestinese, vittima di un genocidio perpetrato da Israele con la complicità dell’Occidente. Gli organizzatori invocano la nascita di un movimento sociale internazionalista contro la militarizzazione e l’economia di guerra.

Critica del modello occidentale e appello alla disobbedienza

Il testo dell’appello dipinge un quadro apocalittico del mondo contemporaneo: l’Occidente è un impero decadente, guidato da élite egoiste (USA ed Europa) che, di fronte alla crisi ecologica ed energetica, scommettono sulla guerra e sulla conquista. Il riarmo è visto come una strategia per mantenere il modello iperconsumista e accaparrarsi le risorse del Sud. La Germania dei “poeti e pensatori” diventa quella dei “giudici e boia”, seguendo gli Stati Uniti, rinunciando alla propria autonomia energetica (il gas russo) per rilanciarsi con la produzione di armi.

L’appello sviluppa un argomento economico e morale: ogni aumento del bilancio militare si traduce in una riduzione delle spese sociali. Gli autori denunciano una nuova era di austerità, paragonabile a quella degli anni 2010, e accusano i governi spagnoli, compresi quelli socialisti, di partecipare alla privatizzazione del bene comune a vantaggio del complesso militare-industriale.

Un appello diretto è rivolto agli operai delle fabbriche Rheinmetall in Estremadura:
“Os parece ético trabajar para esta empresa cómplice del genocidio?”Vi sembra etico lavorare per un’azienda complice del genocidio?

Le rivendicazioni comprendono: eliminazione degli aiuti pubblici all’industria bellica, embargo totale sulle armi destinate a Israele, rottura delle relazioni diplomatiche, perseguimento penale dei dirigenti coinvolti, fine del riarmo europeo e avvio di un programma di decrescita.

Rheinmetall: un simbolo della guerra moderna

L’articolo di José Luis Ybot (El Salto, 17 settembre 2024) ripercorre la storia della Rheinmetall, la più grande impresa bellica tedesca, nata nel XIX secolo, associata al regime nazista, poi convertita alla produzione civile prima di tornare a essere un pilastro del riarmo dal 1956. Dal 2000 si è nuovamente concentrata sul settore militare: carri Leopard, Eurofighter Typhoon, droni, laser, sistemi di difesa, ecc.

Nel 2022 Rheinmetall ha acquistato Expal, filiale del gruppo spagnolo Maxam, proprietario degli stabilimenti di El Gordo e Navalmoral de la Mata. Questi siti, coinvolti nella produzione e nello smantellamento di mine antiuomo, fanno dell’Estremadura una regione “sacrificata” al servizio dell’economia di guerra.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, il valore di Rheinmetall si è quintuplicato. Tra i suoi azionisti figurano BlackRock, Goldman Sachs e Bank of America. L’impresa beneficia della domanda mondiale di armamenti, soprattutto attraverso la sua filiale ucraina creata nel 2023.

Inchiesta: Rheinmetall a El Gordo e Navalmoral

Un reportage di Luis Velasco San Pedro (El País, 1 novembre 2024) mostra come il villaggio di El Gordo viva grazie a Rheinmetall: 200 abitanti vi lavorano, i salari superano i 1600 euro e la disoccupazione è quasi nulla. Ma domina una cultura del segreto. I dipendenti firmano clausole di riservatezza e affermano: “Lo que se hace allí es top secret.”

La deputata Nerea Fernández (Unidas por Extremadura) denuncia la complicità regionale e il finanziamento pubblico di Rheinmetall (58.060 euro di fondi europei). Invoca la riconversione di queste fabbriche alla produzione civile. Per lei, “il genocidio di Gaza comincia in Estremadura”.

Mobilitazioni popolari e critica globale

Il comunicato che convocava la precedente manifestazione del 6 ottobre 2024 invitava al boicottaggio di Israele e alla disobbedienza civile:
“La única forma de buscar la paz es no fabricar la guerra.”L’unico modo di cercare la pace è non fabbricare la guerra.

L’Europa vi era descritta come un “mega-Israele” militarizzato, costruito sulla paura e sulla dipendenza dall’economia di guerra.

Il dossier combina inchiesta, manifesto e appello morale. Denuncia il capitalismo di guerra e collega la lotta locale contro Rheinmetall alla causa palestinese. Gli autori affermano una convinzione: la lotta per la pace comincia là dove si fabbricano le armi.

Il messaggio vale urbi et orbi, in Europa, nelle Americhe e in Asia: bisogna fermare i fabbricanti e i commercianti di morte, ovunque essi siano, “con ogni mezzo necessario”. Finora solo una fabbrica d’armi, la Elbit Systems di Bristol, nel Regno Unito, ha cessato le proprie attività. Il merito va ai coraggiosi militanti di Palestine Action, banditi come “terroristi” e perseguiti in tribunale. Lo stesso accade ai militanti tedeschi di Palestine Action Germany, che hanno compiuto un’azione simbolica contro la fabbrica Elbit Systems di Ulm: cinque di loro sono sotto processo.

Un altro aspetto delle mobilitazioni riguarda il trasporto di armamenti verso Israele, di due tipi: armi pronte all’uso e componenti destinati alle fabbriche israeliane di morte. Manifestazioni si sono tenute a Marsiglia, Genova e Tangeri; altre sono in preparazione.

La nave cargo Marianne Danica, che trasportava proiettili da 155 mm per Elbit Systems, provenienti da Chennai (India) e diretti a Haifa, si è deviata da Gibilterra a Casablanca per evitare le proteste spagnole. Un’altra nave, l’Ocean Gladiator, con 163 tonnellate di bossoli di ottone prodotti nella fabbrica Wieland di Buffalo (USA), ha appena attraversato lo stretto di Gibilterra e si dirige verso Ashdod, con prossima tappa a Limassol (Cipro) il 3 novembre [si può seguire qui]. Lì la aspettiamo.

20/10/2025

Israele tra una guerra di sterminio e una guerra elettorale

Ameer Makhoul, Progress Center for Policies, 18/10/2025

إسرائيل بين حرب الإبادة وحرب الانتخابات

Tradotto da Tlaxcala

Guerra su tutti i fronti, di Patrick Chappatte

Introduzione

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz hanno nuovamente minacciato di riprendere la guerra contro la Striscia di Gaza, avvertendo che useranno la forza se Hamas non consegnerà i corpi dei prigionieri e detenuti israeliani.
Nel frattempo, il ministro per gli Affari Strategici, Ron Dermer, ha intensificato i suoi contatti con l’amministrazione Trump, presentando rapporti d’intelligence secondo cui Hamas avrebbe la capacità di restituire un gran numero di corpi, una mossa vista come un tentativo di ottenere il via libera usamericano a una nuova escalation militare.

Parallelamente, il Forum delle Famiglie dei Prigionieri e Detenuti ha lanciato un appello pubblico a Netanyahu, chiedendo la ripresa della guerra finché tutti i corpi non saranno restituiti,  trasformando una richiesta umanitaria in uno strumento politico nella lotta interna per il potere in Israele.

La guerra al servizio della politica interna
Le rinnovate minacce di guerra da parte di Israele sembrano essere dettate più da esigenze politiche ed elettorali che da obiettivi militari immediati. Netanyahu e Katz hanno persino ribattezzato la guerra contro Gaza, passando da “Spade d’Oro” a “Guerra della Rinascita” o “Guerra della Resurrezione”, nel tentativo di rimodellare la narrazione israeliana e presentarla come parte di una più ampia “Guerra dei Sette Fronti” che includerebbe Libano, Siria, Yemen, Iraq, Iran, Cisgiordania e Gaza.

Attraverso questa nuova etichetta, Netanyahu cerca di deviare le richieste di responsabilità per gli eventi del 7 ottobre 2023, in particolare la creazione di una commissione ufficiale d’inchiesta, che continua a respingere con il pretesto che “non si possono condurre indagini in tempo di guerra”. Questa strategia è strettamente legata alle elezioni previste per l’estate 2026.

Le lacune del Piano Trump e le ripercussioni regionali
Le minacce israeliane coincidono con il dibattito in corso sui dettagli del cosiddetto “Piano Trump” per porre fine alla guerra — descritto dal Ministero degli Esteri egiziano come “pieno di lacune”.
Tra le questioni irrisolte figurano:

  • Lo scambio di corpi e prigionieri.
  • Il disarmo di Gaza e di Hamas.
  • Il ritiro graduale di Israele.
  • La governance e la ricostruzione nella fase postbellica.

Le stime palestinesi valutano il costo della ricostruzione di Gaza tra i 60 e i 70 miliardi di dollari. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti avrebbero espresso una disponibilità condizionata a contribuire con circa 20 miliardi ciascuno, a condizione che vi siano stabilità, disarmo e l’abbandono del potere da parte di Hamas, segno che gli aiuti economici sono strettamente legati al nascente quadro politico e di sicurezza.


La regola di Netanyahu…
— In una lotta per la sopravvivenza, le misure estreme sono giustificate!
— … Soprattutto se si tratta della sopravvivenza della mia carriera politica!
David Horsey

La dimensione elettorale interna
Un sondaggio del quotidiano Maariv ha mostrato un miglioramento della posizione della coalizione di governo dopo il rilascio dell’ultimo gruppo di prigionieri vivi. Il sostegno al partito Likud è aumentato, mentre il partito Sionismo Religioso di Bezalel Smotrich ha superato la soglia parlamentare. Al contrario, il partito di Benny Gantz è sceso al di sotto di tale soglia.
Il sondaggio ha previsto 58 seggi per l’opposizione, 52 per la coalizione e 10 per i partiti arabi, che potrebbero guadagnare terreno alle prossime elezioni.

Per Netanyahu, questa configurazione è ideale: gli permette di formare una minoranza di blocco che impedisce all’opposizione di formare un governo senza l’appoggio di un partito arabo, un’eventualità inaccettabile all’interno del consenso sionista. Così Netanyahu potrebbe rimanere a lungo primo ministro ad interim, con un controllo parlamentare minimo, spiegando il suo interesse per elezioni anticipate se i sondaggi continueranno a essere favorevoli.

Tra l’opzione della guerra e la necessità di stabilità
Nonostante la retorica aggressiva, vincoli interni e internazionali riducono la probabilità di una nuova guerra. La stanchezza militare, morale ed economica in Israele, insieme alla mancanza di un via libera usamericano, rendono una ripresa delle ostilità un rischio politico piuttosto che un’opportunità strategica.

Il Piano Trump, che gode di un ampio sostegno regionale e internazionale, rappresenta il pilastro della strategia di Washington per ristabilire l’equilibrio in Medio Oriente, in particolare nel quadro dei tentativi di concludere accordi di normalizzazione con Arabia Saudita e Indonesia. Il fallimento della sua attuazione minerebbe la fiducia nella capacità degli USA di gestire le intese regionali.

Il dilemma dei corpi e il ruolo degli attori regionali
La questione dei corpi dei prigionieri rappresenta una vera prova della solidità dell’accordo. Fonti israeliane riconoscono grandi ostacoli logistici dovuti alla distruzione delle infrastrutture e dei tunnel di Gaza, dove si ritiene che molti corpi siano ancora sepolti.

Il governo Netanyahu ha categoricamente rifiutato di permettere l’uso di attrezzature turche per le operazioni di recupero, una decisione politica volta a limitare l’influenza di Ankara e a sfruttare la sua posizione sulla Siria. Tuttavia, cresce in Israele il numero di coloro che sostengono un’amministrazione di Gaza guidata dall’Autorità Palestinese, per evitare un vuoto amministrativo che potrebbe favorire Hamas o altri attori esterni.

Conclusione
La minaccia di Israele di riprendere la guerra è principalmente una manovra elettorale e mediatica volta a mobilitare il sostegno interno e a sfruttare la questione dei prigionieri a fini politici.

Non ci sono segnali concreti di un’intenzione reale di riaccendere il conflitto, data la mancanza di sostegno usamericano, l’esaurimento della società e dell’esercito e la forte opposizione interna.
Il cambio di nome della guerra in “Guerra della Rinascita” riflette un tentativo di eludere le indagini e le responsabilità politiche per i fallimenti del 7 ottobre.
Le principali decisioni israeliane, di guerra o di pace, restano strettamente legate al calcolo elettorale di Netanyahu e ai suoi sforzi per mantenersi al potere.
Il fattore decisivo della fase a venire sarà l’impegno di Washington nei confronti del Piano Trump, che al momento costituisce l’unico quadro realistico per l’arena israelo-palestinese.

02/10/2025

MARCO BERSANI
Flotilla: Il pesce, il telecronista, il rosicone

Marco Bersani, Attac Italia, 2/10/2025


Il blocco delle barche della Flotilla, avvenuto manu militari da parte dell’esercito israeliano nella notte, costituisce un crimine di guerra. Non così tragico -speriamo- come quelli che quotidianamente avvengono a Gaza (anche oggi all’alba oltre 70 morti), ma identico dal punto di vista giuridico internazionale: Israele ha assaltato in acque internazionali una flotta di navi disarmate con persone provenienti da 44 Paesi che portavano con sé cibo e medicinali.

Un crimine contro il quale ogni governo democratico dovrebbe ribellarsi con forza e determinazione.

Non è il caso dell’Italia, dove i massimi esponenti di governo fanno a gara a chi si comporta in maniera più indegna.

Partiamo dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che dopo aver dato il via libera ideologico a Israele (“Quelli della Flotilla sono irresponsabili”) e dopo aver fatto dichiarazioni deliranti (“Stanno mettendo a rischio il piano di pace del mio amico Donald”) da oltre 24 ore è muta come un pesce. Evidentemente attonita nel constatare come le piazze del paese si sono spontaneamente riempite già nella serata di ieri, pronte ad esondare oggi, a bloccare tutto domani e a convergere sabato per la Palestina.

12/07/2025

LYNA AL TABAL
I stand with Francesca Albanese/Sono solidale con Francesca Albanese

Dott.ssa Lyna Al-Tabal, Rai Al Youm, 11/7/2025
Originale arabo
Tradotto da 
Gulietta Masinova, Tlaxcala

Lyna Al Tabal è libanese, dottoressa in scienze politiche, avvocata di formazione e docente di relazioni internazionali e diritti umani.

 


Sì, ho deciso di intitolare questo articolo in inglese. Non perché mi piaccia mettermi in mostra, né perché creda più nella globalizzazione della lingua che nella sua equità. Ma perché questa frase è diventata, senza l’autorizzazione di nessuno, una dichiarazione di solidarietà mondiale.

I stand with Francesca Albanese. Sono solidale con Francesca Albanese

Una frase breve, ma densa... solo cinque parole. Pronunciata con calma, ma classificata come pericolosa per la sicurezza nazionale... Come?

C’è una donna italiana che oggi è perseguita a causa di Gaza. Non ha i geni della resistenza, non ha alcun legame con Gaza, nessun passato segnato dalla Nakba, nemmeno una foto. Non è araba, non è nata in un campo profughi, non è stata educata al discorso della liberazione. Non è una sognatrice di sinistra, forse non ha mai letto Marx nei caffè. Non ha mai lanciato un sasso contro un soldato israeliano... Tutto quello che ha fatto è stato compiere il suo dovere professionale.

“Pazza”, ha detto Trump. Lui che monopolizza questo aggettivo e lo distribuisce come fanno i narcisisti quando crollano davanti a una donna che non ha taciuto di fronte all’ingiustizia.

Si chiama Francesca Albanese. Avvocata e accademica italiana, ricopre la carica di relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. Funzionaria internazionale, seduta dietro una scrivania bianca, redige rapporti in un linguaggio preciso e con una formulazione giuridica imparziale. Non è dotata di grande eloquenza, ma lo ha detto chiaramente e senza ambiguità: quello che sta succedendo a Gaza è un genocidio.

Lo ha scritto nero su bianco in un rapporto ufficiale pubblicato nell’ambito delle sue funzioni, in un linguaggio comprensibile al diritto internazionale: ciò che Israele sta facendo a Gaza è un genocidio.

Da un giorno all’altro, il suo nome è diventato pericoloso e doveva essere annientato proprio come l’esercito israeliano annienta le case a Rafah. Il suo nome è stato distrutto da un unico missile politico ed è stata inserita nella lista delle sanzioni, insieme ai trafficanti e ai finanziatori del terrorismo.

Ora lo so: in questo mondo basta non mentire per vedersi vietare di viaggiare, congelare i propri conti ed essere esclusi dal sistema internazionale.

Francesca non ha infranto la legge, l’ha applicata. Ed è questo il suo vero crimine.

Non ha commesso errori di definizione, non ha esagerato nel linguaggio, non ha oltrepassato i limiti delle sue funzioni. Tutto ciò che ha fatto è stato chiamare il crimine con il suo nome.

No, questo rapporto non tratta del genocidio degli indiani d’America. Né del Vietnam, né del fosforo bianco, né di Baghdad, né di Tripoli... Questo rapporto non rivanga il passato usamericano, ma tratta di un presente spudorato. E del diritto che si perde quando lo rivendichiamo... Questo rapporto tratta della giustizia internazionale che viene soffocata sotto i nostri occhi e della Carta dei diritti umani che svanisce anch’essa sotto i nostri occhi. Mentre il colpevole siede al Consiglio di sicurezza.

Questo rapporto parla di un mondo che non punisce i bugiardi. Un mondo che ti uccide quando ami sinceramente, quando dai senza riserve, quando parli con coraggio, quando cerchi di riparare i danni.

Questo rapporto parla semplicemente del mondo delle tenebre.

Questo mondo che strangola tutti coloro che non vogliono assomigliargli.

Francesca non era la prima.

Quando è stato creato lo Statuto di Roma, gli USA hanno trattato la Corte penale internazionale come un “virus giuridico”, perché non potevano controllarla... Bill Clinton l’ha firmato (senza ratificarlo). Poi è arrivato George W. Bush, che ha ritirato la firma e ha promulgato quella che è stata definita la “legge di invasione dell’Aia”, che autorizza l’invasione militare dei Paesi Bassi se la Corte penale osa giudicare anche un solo soldato usamericano... Barack Obama, il saggio, non ha abrogato la legge... Poi è arrivato Trump, il cowboy biondo, con due pistole alla cintura, che ha dato il colpo di grazia alla giustizia... Ha punito Fatou Bensouda, l’ex procuratrice generale della Corte, per aver aperto i fascicoli sull’Afghanistan e sulla Palestina. Le ha revocato il visto, congelato i beni e l’ha impiccata con i suoi tweet sarcastici.

Poi è arrivato Karim Khan, l’attuale procuratore generale, incaricato del pesante dossier di Gaza e di una lista di nomi altrettanto pesanti: Netanyahu, Galant... Ancora una volta, la scimitarra della vendetta politica è tornata a minacciare la spada della giustizia.

Karim Khan è stato sommerso da minacce provenienti dal Congresso, dalla Casa Bianca e da Tel Aviv.

 Il primo giorno del suo arrivo alla Casa Bianca, Donald Trump ha firmato la legge sulle sanzioni contro la Corte penale internazionale. Un uomo di origini pakistane che osa toccare nomi intoccabili? Finito di giocare.

È così che un’istituzione internazionale, con tutto il suo personale e le sue attrezzature, è stata sottoposta alle sanzioni usamericane, come se si trattasse di una milizia armata... Ai suoi dipendenti è stato vietato di viaggiare, lavorare e persino respirare liberamente... Chi ha detto che l’USAmerica impedisce la giustizia? A patto che questa non si avvicini a Tel Aviv o al Pentagono.

E in un momento di sincerità, Joe Biden lo ha detto con la sua formulazione contorta: queste leggi non sono state scritte per applicarsi all’ “uomo bianco”, ma agli africani... e a Putin, quando necessario.

Ed ecco che il paradosso è completo: l’85% dei procedimenti e dei processi dinanzi alla Corte penale internazionale riguarda africani.

 E quando vengono aperti dei fascicoli su soggetti occidentali, la giustizia diventa una minaccia... e il Tribunale un bersaglio.

E ora lo sapete anche voi: se superate il limite,

è il tribunale che viene giudicato,
il giudice che viene giudicato,

e il testimone che viene giudicato.

Rimane solo l’assassino... seduto in prima fila, sorridente davanti alle telecamere, mentre riceve inviti per partecipare a una conferenza sui diritti umani. Perché no?

Trump ha inferto un colpo mortale al diritto internazionale, una pugnalata al cuore della Corte penale, poi ha seppellito ciò che restava del sistema dei diritti umani e ci ha gettato il cadavere: “Ecco, seppellitelo”, ha detto con lo stesso tono usato per dare ordini durante i massacri sulla costa siriana, quando gli alawiti venivano seppelliti sotto le macerie, senza testimoni, senza indagini, a volte senza nome, con solo un numero... Una buca, e tutto è finito.

Trump ha agito come un cowboy: ha sparato e poi ha dichiarato che il bersaglio minacciava la sicurezza. Tutto questo sotto gli occhi delle nazioni. E anche sotto i nostri occhi... Sotto gli occhi dell’Europa, per la precisione.

L’Europa che ha redatto queste leggi dalle ceneri delle sue guerre, dai suoi complessi psicologici mai risolti, dalla sua paura di sé stessa.

E oggi guarda, silenziosa... Con tutti i suoi complessi psicologici, l’Europa oggi tace. Seppellisce il suo figlio giuridico a sangue freddo, come le madri di Gaza seppelliscono i loro figli...

Con una sola lacrima, perché il tempo non permette di piangere a lungo.

Capite ora? Tutte le leggi sui diritti umani, dallo Statuto di Roma alla Carta internazionale, sono buone per le lezioni accademiche e i corsi di formazione che si concludono con la consegna dei diplomi e le foto di rito dopo la cerimonia di laurea agli esperti soddisfatti.

E tutto si decide a Washington.

È così che viene amministrata la giustizia internazionale nell’era dell’egemonia: un elenco di sanzioni... e un tappeto rosso steso davanti al boia.

Avete seguito bene la storia...

Un’italiana nella lista usamericana dei terroristi politici... Si chiama Francesca Albanese. Non è originaria di Gaza, non è uscita da una guerra, non è nata sotto il blocco. Non nasconde armi o bombe nella borsa, non appartiene a un’organizzazione segreta... Proviene dal mondo del diritto, dalle istituzioni delle Nazioni Unite, da una burocrazia neutrale... Tutto quello che ha fatto è stato redigere un rapporto ufficiale su quanto è accaduto a Gaza...

Ha scritto ciò che ha visto: sangue, macerie, un vero e proprio crimine... Ha scritto che ciò che è successo lì non è stata un’operazione di sicurezza, né legittima difesa, ma un genocidio... Ha fatto il suo lavoro con il linguaggio dei rapporti, senza slogan, senza grida di battaglia, senza nemmeno mettere una mezza anguria rossa a margine... Francesca Albanese ha sconvolto l’ordine mondiale perché non ha mentito...

Non ha violato le regole diplomatiche... Ha semplicemente applicato la legge...

 ➤Firma la petizione

Premio Nobel per la pace a Francesca Albanese e ai medici di Gaza

03/02/2025

CHRIS HEDGES
Il genocidio al modo occidentale

 Chris HedgesThe Chris Hedges Report, 1/2/2025
Tradotto da Alba Canelli, Tlaxcala

Il genocidio di Gaza preannuncia l'emergere di un mondo distopico in cui la violenza industrializzata del Nord del mondo viene utilizzata per sostenere la sua razzia di risorse e ricchezze in diminuzione.

Mr. Fish

Gaza è una landa desolata composta da 50 milioni di tonnellate di macerie e detriti. Topi e cani rovistano tra le rovine e le fetide pozze di liquami non trattati. Il fetore e la contaminazione dei cadaveri in putrefazione si sprigionano da sotto le montagne di cemento rotto. Non c'è acqua potabile. Poco cibo. I servizi medici sono gravemente carenti e non ci sono praticamente rifugi abitabili. I palestinesi rischiano di essere uccisi dagli ordigni inesplosi rimasti indietro dopo oltre 15 mesi di attacchi aerei, sbarramenti di artiglieria, missili ed esplosioni di obici di carri armati, oltre a una serie di altre sostanze tossiche, tra cui liquami e amianto.

L'epatite A, causata dall'assunzione di acqua contaminata, è endemica, così come le malattie respiratorie, la scabbia, la malnutrizione, la fame e la nausea e il vomito generalizzati causati dall'ingestione di cibo rancido. Le persone vulnerabili, tra cui neonati, anziani e malati, vengono condannate a morte. Circa 1,9 milioni di persone sono state sfollate, pari al 90% della popolazione. Vivono in tende di fortuna, accampate tra lastre di cemento o all'aria aperta. Molte di loro sono state costrette a traslocare più di una dozzina di volte. Nove case su dieci sono state distrutte o danneggiate. Condomini, scuole, ospedali, panetterie, moschee, università (Israele ha fatto esplodere l'Università Israa di Gaza City con una demolizione controllata), cimiteri, negozi e uffici sono stati rasi al suolo. Secondo un rapporto dell'ottobre 2024 pubblicato dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro, il tasso di disoccupazione è all'80% e il prodotto interno lordo si è ridotto di quasi l'85%.

Il divieto imposto da Israele all'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) - che stima che ci vorranno 15 anni per ripulire Gaza dalle macerie lasciate indietro - garantisce che i palestinesi di Gaza non avranno mai accesso a forniture umanitarie di base , cibo e servizi adeguati.

16/01/2025

JONATHAN POLLAK
“Ho visto che il suolo era pieno di sangue. Ho sentito la paura come un’elettricità nel mio corpo. Sapevo esattamente cosa sarebbe successo”
Testimonianze sul gulag sionista

Stupri. Inedia. Pestaggi mortali. Maltrattamenti. Qualcosa di fondamentale è cambiato nelle carceri israeliane. Nessuno dei miei amici palestinesi che sono stati recentemente rilasciati è la stessa persona che era prima.

Jonathan Pollak, Haaretz , 9/1/2025 
Tradotto da Shofty Shmaha, Tlaxcala

Jonathan Pollak (1982) è stato uno dei fondatori del gruppo israeliano Anarchici contro il Muro  nel 2003. Ferito e imprigionato in diverse occasioni, contribuisce al quotidiano Haaretz. In particolare, si è rifiutato di comparire davanti a un tribunale civile, chiedendo di essere giudicato da un tribunale militare, come un comune palestinese, cosa che ovviamente gli è stata rifiutata.

Jonathan Pollak affronta un soldato israeliano durante una manifestazione contro la chiusura della strada principale nel villaggio palestinese di Beit Dajan, vicino a Nablus, Cisgiordania occupata, venerdì 9 marzo 2012. (Anne Paq/Activestills)


Jonathan Pollak presso la Corte Magistrale di Gerusalemme, arrestato nell’ambito di una campagna legale senza precedenti dall’organizzazione sionista Ad Kan, 15 gennaio 2020. (Yonatan Sindel/Flash90)


Attivisti reggono manifesti a sostegno di Jonathan Pollak durante la manifestazione settimanale nella città palestinese di Beita, nella Cisgiordania occupata, il 3 febbraio 2023. (Wahaj Banimoufleh)


Jonathan Pollak con la sua avvocata Riham Nasra presso il tribunale di Petah Tikva durante il processo per il lancio di pietre durante una manifestazione contro l’avamposto dei coloni ebrei di Eviatar a Beita, nella Cisgiordania occupata, il 28 settembre 2023. (Oren Ziv)

Quando sono tornato nei territori [occupati dal 1967] dopo una lunga detenzione a seguito di una manifestazione nel villaggio di Beita, la Cisgiordania era molto diversa da quella che conoscevo. Anche qui Israele ha perso i nervi. Omicidi di civili, attacchi di coloni che agiscono con l’esercito, arresti di massa. Paura e terrore dietro ogni angolo. E questo silenzio, un silenzio opprimente. Già prima del mio rilascio, era chiaro che qualcosa di fondamentale era cambiato. Pochi giorni dopo il 7 ottobre, Ibrahim Alwadi, un amico del villaggio di Qusra, è stato ucciso insieme a suo figlio Ahmad. Sono stati uccisi mentre accompagnavano quattro palestinesi che erano stati colpiti il giorno prima - tre da coloni che avevano invaso il villaggio, il quarto da soldati che li stavano accompagnando. 

Dopo il mio rilascio, mi sono reso conto che nelle carceri stava accadendo qualcosa di molto brutto. Nell’ultimo anno, mentre riacquistavo la libertà, migliaia di palestinesi - tra cui molti amici e conoscenti - sono stati arrestati in massa da Israele. Quando hanno iniziato a essere rilasciati, le loro testimonianze hanno dipinto un quadro sistematico di torture. Le percosse mortali sono un motivo ricorrente in ogni racconto. Si verificano quando i prigionieri vengono contati, quando le celle vengono perquisite, ogni volta che vengono spostati da un luogo all’altro. La situazione è così grave che alcuni prigionieri chiedono ai loro avvocati di tenere le udienze senza la loro presenza, perché il percorso dalla cella alla stanza dove è installata la telecamera è un percorso di dolore e umiliazione.

Ho esitato a lungo su come condividere le testimonianze che ho sentito dai miei amici tornati dalla detenzione. Dopotutto, non sto rivelando nuovi dettagli. Tutto, fin nei minimi dettagli, riempie già volumi su volumi nei rapporti delle organizzazioni per i diritti umani. Ma per me queste non sono storie di persone lontane. Sono persone che ho conosciuto e che sono sopravvissute all’inferno. Nessuno di loro è la stessa persona di prima. Sto cercando di raccontare ciò che ho sentito dai miei amici, un’esperienza condivisa da innumerevoli altri, anche se cambio i loro nomi e nascondo dettagli identificabili. Dopo tutto, la paura di rappresaglie ricorre in ogni conversazione.

Pestaggi e sangue

Ho visitato Malak pochi giorni dopo il suo rilascio. Un cancello giallo e una torre di guardia bloccavano il sentiero che un tempo conduceva al villaggio dalla strada principale. La maggior parte delle altre strade che attraversano i villaggi vicini sono tutte bloccate. Solo una strada tortuosa, quella vicino alla chiesa bizantina che Israele ha fatto saltare in aria nel 2002, è rimasta aperta. Per anni questo villaggio è stato come una seconda casa per me, e questa è la prima volta che ci torno dopo il mio rilascio. 

Malak è stato trattenuto per 18 giorni. È stato interrogato tre volte e durante tutti gli interrogatori gli sono state poste domande banali. Era quindi convinto che sarebbe stato trasferito in detenzione amministrativa - in altre parole, senza processo e senza prove, senza essere accusato di nulla, sotto una patina di sospetto segreto e senza limiti di tempo. Questo è infatti il destino della maggior parte dei detenuti palestinesi al momento. 

Dopo il primo interrogatorio, è stato portato nel cortile delle torture. Durante il giorno, le guardie rimuovevano i materassi e le coperte dalle celle e li restituivano la sera quando erano appena asciutti, e a volte ancora bagnati. Malak descrive il freddo delle notti invernali a Gerusalemme come frecce che penetrano nella sua carne fino alle ossa. Racconta di come picchiavano lui e gli altri detenuti a ogni occasione. Ogni volta che contavano, ogni volta che cercavano, ogni volta che si spostavano da un posto all’altro, tutto era un’occasione per colpire e umiliare.

“Una volta, durante la conta mattutina”, mi ha raccontato, ”eravamo tutti in ginocchio, con la faccia rivolta verso i letti. Una delle guardie mi ha afferrato da dietro, mi ha ammanettato mani e piedi e mi ha detto in ebraico: ‘Forza, muoviti’. Mi ha sollevato per le manette, dietro la schiena, e mi ha condotto piegato attraverso il cortile accanto alle celle. Per uscire, c’è una specie di stanzetta che bisogna attraversare, tra due porte con una piccola finestra”. So esattamente di quale stanzetta sta parlando, l’ho attraversata decine di volte. È un passaggio di sicurezza dove, in un dato momento, solo una delle porte può essere aperta. “Così siamo arrivati lì”, continua Malek, ”e mi hanno messo contro la porta, con la faccia contro la finestra. Ho guardato dentro e ho visto che il pavimento era coperto di sangue coagulato. Ho sentito la paura attraversare il mio corpo come un’elettricità. Sapevo esattamente cosa sarebbe successo. Aprirono la porta, uno entrò e si mise vicino alla finestra in fondo, bloccandola, e l’altro mi buttò dentro sul pavimento. Mi hanno preso a calci. Ho cercato di proteggermi la testa, ma avevo le mani ammanettate, quindi non avevo modo di farlo. Erano colpi micidiali. Ho pensato davvero che potessero uccidermi. Non so quanto sia durato. A un certo punto mi sono ricordato che la sera prima qualcuno mi aveva detto: “Quando ti colpiscono, urla a squarciagola. Che ti importa? Non può essere peggio di così, e forse qualcuno sentirà e verrà”. Così ho iniziato a gridare a squarciagola e, in effetti, qualcuno è arrivato. Non capisco l’ebraico, ma ci sono state delle grida tra lui e loro. Poi se ne sono andati e lui mi ha portato via da qui. Mi usciva sangue dalla bocca e dal naso”.

Anche Khaled, uno dei miei amici più cari, ha subito la violenza delle guardie. Quando è stato rilasciato dal carcere dopo otto mesi di detenzione amministrativa, suo figlio non lo ha riconosciuto da lontano. Ha percorso la distanza tra la prigione di Ofer e la sua casa a Beitunia. In seguito, ha raccontato che non gli era stato detto che la detenzione amministrativa era finita e temeva che ci fosse stato un errore e che presto lo avrebbero arrestato di nuovo. Questo era già successo a qualcuno che era con lui in cella. Nella foto che il figlio mi ha inviato pochi minuti dopo il loro incontro, sembra un’ombra umana. Su tutto il corpo - spalle, braccia, schiena, viso, gambe - c’erano segni di violenza. Quando sono venuto a trovarlo, si è alzato per abbracciarmi, ma quando l’ho preso in braccio ha emesso un gemito di dolore. Qualche giorno dopo, gli esami hanno evidenziato un gonfiore intorno alla colonna vertebrale e una costola guarita. 


Prigione di Megiddo

Ogni azione è un’occasione per colpire e umiliare

Un’altra testimonianza che ho ascoltato è quella di Nizar, che era già in detenzione amministrativa prima del 7 ottobre e da allora è stato trasferito in diverse prigioni, tra cui Megiddo. Una sera, le guardie sono entrate nella cella accanto e lui ha potuto sentire i colpi e le grida di dolore dalla sua cella. Dopo un po’, le guardie hanno preso un detenuto e lo hanno gettato da solo nella cella di isolamento. Durante la notte e il giorno seguente si lamentò per il dolore e non smise mai di gridare “la mia pancia” e di chiedere aiuto. Non arrivò nessuno. La cosa continuò anche la notte successiva. Verso la mattina, le grida cessarono. Il giorno dopo, quando un’infermiera venne a dare un’occhiata al reparto, capì dal trambusto e dalle urla delle guardie che il prigioniero era morto. Ancora oggi, Nizar non sa chi fosse. Era vietato parlare tra le celle e non sa quale fosse la data. 

Dopo il suo rilascio, si è reso conto che durante il periodo di detenzione questo detenuto non era stato l’unico a morire a Megiddo. Taoufik, che è stato rilasciato in inverno dalla prigione di Gilboa, mi ha raccontato che durante un controllo dell’area da parte degli agenti penitenziari, uno dei detenuti si è lamentato del fatto che non gli era permesso di uscire nel cortile. In risposta, uno degli agenti gli ha detto: “Vuoi il cortile? Ringrazia per non essere nei tunnel di Hamas a Gaza”. Poi, per quindici giorni, ogni giorno, durante la conta di mezzogiorno, li hanno portati in cortile e hanno ordinato loro di sdraiarsi sul terreno freddo per due ore. Anche sotto la pioggia. Mentre erano sdraiati, le guardie giravano per il cortile con i cani. A volte i cani passavano in mezzo a loro e a volte camminavano davvero sopra i prigionieri sdraiati; li calpestavano.

Secondo Taoufik, ogni volta che un detenuto incontrava un avvocato aveva un prezzo. “Sapevo ogni volta che il ritorno, tra la sala visite e la cella, avrebbe comportato almeno altri tre colpi. Ma non mi sono mai rifiutato di andare. Lei è stato in un carcere a cinque stelle. Non capisci cosa significhi essere in 12 in una cella dove anche in sei si sta stretti. È come vivere in un circolo chiuso. Non mi preoccupava affatto quello che mi avrebbero fatto. Il solo fatto di vedere qualcun altro che ti parla come un essere umano, magari vedendo qualcosa nel corridoio durante il tragitto, ha significato tutto per me”.

Mondher Amira - l’unico qui a comparire con il suo vero nome - è stato rilasciato a sorpresa prima della fine del suo periodo di detenzione amministrativa. Ancora oggi, nessuno sa perché. A differenza di molti altri che sono stati avvertiti e temono rappresaglie, Amira ha raccontato alle telecamere la catastrofe delle carceri, descrivendole come cimiteri per i vivi. Mi ha raccontato che una notte un’unità Kt’ar ha fatto irruzione nella loro cella nella prigione di Ofer, accompagnata da due cani. Hanno ordinato ai prigionieri di spogliarsi fino alla biancheria intima e di sdraiarsi sul pavimento, poi hanno ordinato ai cani di annusare i loro corpi e i loro volti. Poi hanno ordinato ai prigionieri di vestirsi, li hanno portati alle docce e li hanno sciacquati con acqua fredda mentre erano ancora vestiti. In un’altra occasione, ha cercato di chiamare un’infermiera per chiedere aiuto dopo che un prigioniero aveva tentato il suicidio. La punizione per aver chiesto aiuto fu un’altra irruzione dell’unità Kt’ar. Questa volta ordinarono ai detenuti di sdraiarsi l’uno sull’altro e li picchiarono con i manganelli. A un certo punto, una delle guardie allargò le gambe e li colpì sui testicoli con un manganello. 

Fame e malattie 

Mondher ha perso 33 chili durante la sua detenzione. Non so quanti chili abbia perso Khaled, che è sempre stato un uomo magro, ma nella foto che mi è stata inviata ho visto uno scheletro umano. Nel soggiorno di casa sua, la luce della lampada rivelava due profonde depressioni al posto delle guance. I suoi occhi erano circondati da un contorno rosso, quello di chi non dorme da settimane. Sulle sue braccia magre pendeva una pelle floscia che sembrava essere stata attaccata artificialmente, come un involucro di plastica. Le analisi del sangue di entrambe mostravano gravi carenze. Tutti quelli con cui ho parlato, indipendentemente dal carcere in cui sono passati, hanno ripetuto quasi esattamente lo stesso menu, che a volte viene aggiornato, o meglio ridotto. L’ultima versione che ho sentito, dalla prigione di Ofer, era: per colazione, una scatola e mezza di formaggio per una cella di 12 persone, tre fette di pane a persona, 2 o 3 verdure, di solito un cetriolo o un pomodoro, per tutta la cella. Una volta ogni quattro giorni, 250 grammi di marmellata per l’intera cellula. A pranzo, un bicchiere di plastica monouso con riso per persona, due cucchiai di lenticchie, qualche verdura e tre fette di pane. A cena, due cucchiaini (da caffè, non da zuppa) di hummus bi tahina a persona, qualche verdura, tre fette di pane a persona. A volte un’altra tazza di riso, a volte una pallina di falafel (solo una!) o un uovo, che di solito è un po’ marcio, a volte con macchie rosse, a volte blu. E questo è tutto. Nazar mi ha detto: “Non è solo la quantità. Anche quello che è già stato portato non è commestibile. Il riso è appena cotto, quasi tutto è rovinato. E poi ci sono anche bambini veri, che non sono mai stati in prigione. Abbiamo cercato di prenderci cura di loro, di dare loro il nostro cibo avariato. Ma se dai loro un po’ del tuo cibo, è come suicidarsi. Nel carcere c’è ora una carestia (magia’a مَجَاعَة), e non è un disastro naturale, è la politica del servizio carcerario”. 

Di recente, la fame è addirittura aumentata. A causa delle condizioni anguste, il servizio carcerario sta trovando il modo di rendere le celle ancora più strette. Aree pubbliche, mense: ogni luogo è diventato un’altra cella. Il numero di detenuti nelle celle, già sovraffollate in precedenza, è aumentato ulteriormente. Ci sono sezioni in cui sono stati aggiunti 50 detenuti in più, ma la quantità di cibo è rimasta la stessa. Non sorprende quindi che i detenuti perdano un terzo o più del loro peso corporeo in pochi mesi. 

Il cibo non è l’unica cosa che scarseggia in carcere; infatti, ai detenuti non è permesso possedere altro che un unico set di vestiti. Una camicia, un paio di mutande, un paio di calzini, un paio di pantaloni, una felpa. E questo è tutto. Per tutta la durata della detenzione. Ricordo che una volta, quando l’avvocato di Mondher, Riham Nasra, gli fece visita, entrò nella sala visite a piedi nudi. Era inverno e faceva un freddo cane a Ofer. Quando lei gli chiese perché, lui rispose semplicemente: “Non ce ne sono”. Un quarto di tutti i prigionieri palestinesi soffre di scabbia, secondo una dichiarazione rilasciata al tribunale dallo stesso servizio carcerario. Nizar è stato rilasciato quando la sua pelle stava guarendo. Le lesioni sulla pelle non sanguinano più, ma le croste coprono ancora ampie parti del corpo. “L’odore nella cella era qualcosa che non possiamo nemmeno descrivere. Come la decomposizione, eravamo lì e ci stavamo decomponendo, la nostra pelle, la nostra carne. Lì non siamo esseri umani, siamo carne in decomposizione”, racconta. “Ora, come possiamo non esserlo? Per la maggior parte del tempo non c’è acqua, spesso solo un’ora al giorno, e a volte non avevamo acqua calda per giorni. Ci sono state intere settimane in cui non ho fatto la doccia. Mi ci è voluto più di un mese per avere il sapone. Ed eccoci lì, con gli stessi vestiti, perché nessuno ha un cambio di vestiti, e sono pieni di sangue e di pus e c’è una puzza, non di sporco, ma di morte. I nostri vestiti erano impregnati dei nostri corpi in decomposizione”.

Taufik ha raccontato che “c’era acqua corrente solo per un’ora al giorno. Non solo per le docce, ma in generale, anche per i servizi igienici. Quindi, durante quell’ora, 12 persone nella cella dovevano fare tutto ciò che richiedeva acqua, compresi i loro bisogni naturali. Ovviamente, era insopportabile. Inoltre, poiché la maggior parte del cibo era avariato, tutti noi avevamo quasi sempre problemi digestivi. Non potete immaginare quanto puzzassero le nostre celle”. 

In queste condizioni, la salute dei prigionieri si è ovviamente deteriorata. Una perdita di peso così rapida, ad esempio, porta il corpo a consumare il proprio tessuto muscolare. Quando Mondher è stato rilasciato, ha detto a Sana, sua moglie, che è un’infermiera, che era così sporco che il sudore aveva reso i suoi vestiti arancioni. Lei lo guardò e chiese: “E l’urina?”. Lui rispose: “Sì, ho anche pisciato sangue”. “Idiota”, gli gridò, ‘non era sporcizia, era il tuo corpo che rifiutava i muscoli che aveva mangiato’.

Le analisi del sangue di quasi tutti i miei conoscenti hanno dimostrato che soffrivano di malnutrizione e di gravi carenze di ferro, minerali essenziali e vitamine. Ma anche le cure mediche sono un lusso. Non sappiamo cosa succede nelle infermerie delle prigioni, ma per i prigionieri non esistono. Le cure regolari sono semplicemente cessate. Di tanto in tanto, un’infermiera visita le celle, ma non viene somministrato alcun trattamento e la “visita” si riduce a una conversazione attraverso la porta della cella. La risposta medica, nel migliore dei casi, è il paracetamolo e, più spesso, qualcosa del tipo “bevi un po’ d’acqua”. Inutile dire che nelle celle non c’è acqua a sufficienza, perché per la maggior parte del tempo non c’è acqua corrente. A volte passa una settimana o più senza che nemmeno l’infermiera faccia visita al blocco.

E se di stupro si parla poco, non c’è bisogno di menzionare le umiliazioni sessuali: sui social network sono stati pubblicati video di prigionieri che vengono condotti in giro completamente nudi dal servizio carcerario. Questi atti non potevano essere documentati se non dalle stesse guardie, che hanno cercato di vantarsi delle loro azioni. L’uso della perquisizione come occasione di violenza sessuale, spesso colpendo l’inguine con la mano o con il metal detector, è un’esperienza quasi costante, regolarmente descritta da detenuti che sono stati in carceri diverse.

Non ho sentito parlare di aggressioni alle donne di prima mano, ovviamente. Quello che ho sentito, e non una sola volta, è la mancanza di materiale sanitario durante le mestruazioni e il suo utilizzo per umiliare. Dopo le prime percosse, il giorno del suo arresto, Mounira è stata portata nella prigione di Sharon. All’ingresso in carcere, tutti vengono sottoposti a perquisizione corporale, ma la perquisizione a strisce non è la norma e richiede ragionevoli motivi per sospettare che il detenuto nasconda un oggetto proibito. La perquisizione a strisce richiede anche l’approvazione dell’ufficiale responsabile. Durante la perquisizione, nessun agente era presente per Mounira, e certamente non c’era una procedura organizzata per verificare il ragionevole sospetto. Mounira è stata spinta da due guardie donne in una piccola stanza di perquisizione, dove l’hanno costretta a togliersi tutti i vestiti, compresi la biancheria intima e il reggiseno, e a mettersi in ginocchio. Dopo averla lasciata sola per qualche minuto, una delle guardie è tornata, l’ha colpita e se n’è andata. Alla fine le furono restituiti i vestiti e le fu permesso di vestirsi. Il giorno successivo fu il primo giorno delle mestruazioni. Le fu dato un assorbente igienico e dovette accontentarsi di quello per tutto il periodo delle mestruazioni. Ed era la stessa cosa per tutti. Quando fu dimessa, soffriva di un’infezione e di una grave infiammazione delle vie urinarie.

Epilogo

Sde Teiman era il posto più terribile in cui essere detenuti, e si suppone che questo sia il motivo per cui è stato chiuso. In effetti, è difficile pensare alle descrizioni di orrore e atrocità che provenivano da questo campo di tortura senza pensare a quel luogo come a uno dei gironi dell’inferno. Ma non per questo lo Stato ha accettato di trasferire i detenuti in altri luoghi, soprattutto a Nitzan e Ofer. Sde Teiman o no, Israele sta trattenendo migliaia di persone nei campi di tortura e almeno 68 di loro hanno perso la vita. Solo dall’inizio di dicembre è stata segnalata la morte di altri quattro detenuti. Uno di loro, Mahmad Walid Ali, 45 anni, del campo di Nour Shams, vicino a Toulkarem, è morto appena una settimana dopo il suo arresto. La tortura in tutte le sue forme - fame, umiliazioni, aggressioni sessuali, promiscuità, percosse e morte - non avviene per caso. Insieme, costituiscono la politica israeliana. Questa è la realtà.