Milena Rampoldi, ProMosaik, 2/1/2022
Tradotto da Silvana Fioresi, Tlaxcala
Ho parlato con il professore Michael Schneider (nato nel 1943) sul tema della COVID-19 e sul rapporto tra medicina e totalitarismo. Schneider è uno scrittore e un socialista impegnato, conosciuto, tra l’altro, per aver partecipato al movimento studentesco del 1968, per essere l’autore dell’opera «Neurose und Klassenkampf»[Nevrosi e lotta di classe, Il Formichiere, Foligno, 1976] e per aver fondato il primo teatro di strada socialista a Berlino Ovest. Si distingue per la sua critica perspicace dello status quo, e quindi anche della degenerazione “coronavirale” regnante, che riunisce numerosi elementi non solo politici, ma anche nevrotici. Ma è diversa. Il potere oggi è diverso. E il totalitarismo, oggi, è diverso.
Nell’era coronavirale, che stiamo vivendo, il legame tra medicina, potere e totalitarismo sfugge a molti, qual è il motivo secondo Lei?
Se il legame tra medicina, potere e totalitarismo sfugge a tanta gente, in questo periodo di crisi da Corona, è innanzitutto a causa della natura di questa nuova storia, estremamente raffinata ed efficace nel suo impatto sulla psicologia di massa: che il Sars-Cov-2 è un virus assassino che minaccia l’intera umanità e contro il quale bisogna “fare la guerra”, come lo ha annunciato il presidente francese nell’aprile del 2020.
In tempo di guerra e di crisi, il governo e i cittadini uniscono quasi sempre le proprie forze. La “guerra contro il Corona” e le sue nuove “varianti pericolosi” assomiglia al 1984 di Orwell, in cui le persone sono costantemente mobilitate e spinte a guerre fittizie contro nuovi nemici che nessuno vede mai. Ancora più sofisticato, da genio quasi sadico (che va nel senso della guerra psicologica): la storia (messa in scena dai servizi segreti e dai think tanks americani) di un nemico invisibile e corrosivo che può colpire ovunque e in qualsiasi momento e che può nascondersi in ognuno di noi, nel tuo vicino di casa, nel tuo collega di lavoro, anche fra i tuoi cari e, ancora peggio, in te stesso.
La premessa del “malato asintomatico”, che mette in pericolo tutti gli altri in quanto “supercontaminatore”, è particolarmente insidiosa, perché alimenta il sospetto di tutti contro tutti e conduce a uno sconvolgimento completo del carico delle prove: nella lotta contro il nemico invisibile, tutti gli uomini non sono potenzialmente in buona salute, ma potenzialmente malati. Ogni persona è un caso sospetto non ancora verificato, un pericolo, e deve provare la sua innocenza tramite le constatazioni (tamponi) o dei vaccini attualizzati giorno dopo giorno. Se non lo fa, l’emarginazione e le restrizioni di movimento sono misure di autodifesa autorizzate dalla società.
Questa storia è nuova, e trova successo soprattutto perché mette al suo servizio prima di tutto degli ideali comunitari come la solidarietà, la responsabilità verso gli altri, etc., che sono proprio cari alla sinistra. Ecco perché la sua natura perfida non è riconosciuta dalla maggior parte dei simpatizzanti di sinistra, dei socialdemocratici e dei socialisti di sinistra, tanto più che questi ultimi sono diventati vittime della loro fede nello Stato proprio adesso, durante la crisi dovuta al Corona: il fatto che, dopo trent’anni di privazioni neoliberali e di politiche di tagli evidenti (come nel campo della sanità pubblica), lo Stato, fino ad allora debole, prenda all’improvviso le redini in mano e faccia, a quanto pare, della salute dei cittadini, il punto supremo della sua azione, è considerato da loro come la prova della dimensione etica ritrovata da parte della politica. Ma perché le elite dirigenti, tra l’altro senza scrupoli, avrebbero deciso di fermare la macchina mondiale dei profitti davanti ad un agente patogeno che tocca quasi esclusivamente gli “improduttivi”, gli ultraottantenni?
John Melhuish Strudwick, Un filo d'oro, 1885