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30/09/2024

ALAIN GRESH/SARRA GRIRA
Gaza – Libano: una guerra occidentale


Alain Gresh e Sarra Grira, Orient XXI, 30/9/2024
Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

Alain Gresh (Il Cairo 1948) è un giornalista francese specializzato nel Mashreq e direttore del sito web OrientXXI.

Sarra Grira ha conseguito un dottorato in letteratura e civiltà francese, con una tesi intitolata Roman autobiographique et engagement: une antinomie? (XXe siècle), ed è caporedattrice di OrientXXI.

Fino a dove si spingerà Tel Aviv? Non contento di aver ridotto Gaza a un campo di rovine e di aver commesso un genocidio, Israele sta estendendo le sue operazioni al vicino Libano, utilizzando gli stessi metodi, gli stessi massacri e le stesse distruzioni, convinto dell'indefettibile sostegno dei suoi finanziatori occidentali che sono diventati complici diretti delle sue azioni.

 

Il numero dei libanesi uccisi nei bombardamenti ha superato i 1.640 e gli “exploit” israeliani si sono moltiplicati. Inaugurati dall'episodio dei cercapersone, che ha fatto svenire molti commentatori occidentali per la “prodezza tecnologica”. Alla faccia delle vittime, uccise, sfigurate, accecate, amputate, cancellate. Si ripeterà ad nauseam che, in fondo, si trattava solo di Hezbollah, una “umiliazione”, un' organizzazione che, non dimentichiamolo, la Francia non considera un'organizzazione terroristica. Come se le esplosioni non avessero colpito l'intera società, uccidendo miliziani e civili. Eppure l'uso di trappole esplosive è una violazione delle leggi di guerra, come hanno sottolineato diversi specialisti e organizzazioni umanitari.

Gli assassinii sommari di leader di Hezbollah, compreso quello del suo segretario generale Hassan Nasrallah, ogni volta accompagnati da numerose “vittime collaterali”, non suscitano nemmeno uno scandalo. L'ultima frecciatina di Netanyahu alle Nazioni Unite è stata quella di dare il via libera al bombardamento della capitale libanese nella sede dell'organizzazione stessa.

A Gaza e nel resto dei Territori palestinesi occupati, i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ignorano ogni giorno di più i pareri della Corte internazionale di giustizia (CIG). La Corte penale internazionale (Cpi) sta ritardando l'emissione di un mandato contro Benyamin Netanyahu, anche se il suo procuratore riferisce di pressioni “da parte dei leader mondiali” e di altre parti, incluso contro lui stesso e la sua famiglia.
Abbiamo mai sentito Joe Biden, Emmanuel Macron o Olaf Scholz protestare contro queste pratiche?

Da quasi un anno una manciata di voci, che sembrerebbero quasi gli scemi del paese, denunciano l'impunità israeliana, incoraggiata dall'inazione occidentale. Una guerra del genere non sarebbe mai stata possibile senza il trasporto aereo di armi usamericane - e in misura minore europee - e senza la copertura diplomatica e politica dei paesi occidentali. La Francia, se volesse, potrebbe adottare misure che colpiscano realmente Israele, ma si rifiuta ancora di sospendere le licenze di esportazione di armi che ha concesso. Potrebbe anche fare pressione sull'Unione Europea, insieme a paesi come la Spagna, per sospendere l'accordo di associazione con Israele. Non lo sta facendo.

L'infinita Nakba palestinese e l'accelerazione della distruzione del Libano non sono solo crimini israeliani, ma anche crimini occidentali di cui Washington, Parigi e Berlino sono direttamente responsabili. Lontano dalle pose e dai teatrini dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di questi giorni, non lasciamoci ingannare dagli sfoghi finti di rabbia di Joe Biden o dai pii auspici di una “protezione dei civili” di Emmanuel Macron che non ha mai perso occasione per mostrare il suo incrollabile sostegno al governo di estrema destra di Benyamin Netanyahu. Non dimentichiamo nemmeno il numero di diplomatici che hanno lasciato la sala dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite quando il Primo Ministro israeliano ha preso la parola, in un gesto che aveva più a che fare con la catarsi che con la politica. Infatti, mentre alcuni paesi occidentali sono i principali responsabili dei crimini di Israele, altri, come la Russia e la Cina, non hanno intrapreso alcuna azione per porre fine a questa guerra, la cui portata si espande ogni giorno, estendendosi allo Yemen oggi e forse all'Iran domani.

Questa guerra ci sta facendo precipitare in un'epoca buia in cui le leggi, il diritto, le tutele, tutto ciò che impedirebbe all'umanità di sprofondare nella barbarie, vengono metodicamente abbattute. Un'epoca in cui una parte ha deciso di mettere a morte l'altra parte, giudicandola “barbara”. “Nemici selvaggi“, secondo le parole di Netanyahu, che minacciano la ”civiltà giudeo-cristiana”. Il Primo Ministro sta cercando di trascinare l'Occidente in una guerra di civiltà con sfumature religiose, in cui Israele si vede come avamposto in Medio Oriente. Con indubbio successo.

Con le armi e le munizioni che continuano a fornire a Israele, con il loro incrollabile sostegno a un  “diritto all'autodifesa” fasullo, con il loro rifiuto del diritto dei palestinesi all'autodeterminazione e a resistere a un'occupazione che la Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegale e ha ordinato di fermare - una decisione che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si rifiuta di attuare - questi paesi sono responsabili dell'arroganza di Israele. In quanto membri di istituzioni prestigiose come il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e il G7, i governi di questi Stati avallano la legge della giungla imposta da Israele e la logica della punizione collettiva. Questa logica era già all'opera in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003, con risultati già noti. Nel 1982, Israele invase il Libano, occupò il sud, assediò Beirut e supervisionò i massacri nei campi palestinesi di Sabra e Shatila. È stata questa macabra “vittoria” a portare all'ascesa di Hezbollah, proprio come la politica di occupazione di Israele ha portato al 7 ottobre. Perché la logica della guerra e del colonialismo non può mai portare alla pace e alla sicurezza.

 

14/01/2024

GIDEON LEVY
L’albero (136 ostaggi israeliani) che nasconde la foresta (2,3 milioni di ostaggi e 30mila palestinesi morti)

Gideon LevyHaaretz, 11/01/2024
Tradotto da Alba Canelli, Tlaxcala

 Shai Wenkert è il padre di Omer Wenkert, 22 anni, che soffre di colite ed è tenuto in ostaggio da Hamas. La colite è una terribile malattia cronica che può peggiorare in condizioni di stress e in assenza di farmaci e di una corretta alimentazione. Provoca molta sofferenza alle persone che ne soffrono.

Emad Hajjaj

Il padre di Omer ha lanciato avvertimenti da ogni piattaforma possibile: suo figlio è in pericolo mortale. Cerca di non pensare alle condizioni di suo figlio, ha detto in un'intervista, ma non sempre ci riesce. Infatti, pensare a una persona affetta da colite e senza farmaci, prigioniera di Hamas, è come pensare all'inferno. Omer deve essere rilasciato o almeno procurarsi rapidamente le medicine di cui ha bisogno.

Non riusciamo a mantenere la calma di fronte agli appelli di suo padre. Non c'è nessuno che non sia inorridito al pensiero della sofferenza del giovane Omer. Allo stesso tempo, ci si può solo chiedere quante persone affette da colite ci siano attualmente a Gaza, nelle stesse condizioni di Omer, senza medicine, senza cibo e sotto stress.

Omer è imprigionato; i residenti della Striscia di Gaza che soffrono di colite e altre malattie croniche fuggono disperatamente per salvarsi la vita. Non hanno un letto su cui adagiare i loro corpi malati e doloranti, non hanno una casa, le loro condizioni igieniche sono pessime. Hanno vissuto per tre mesi nella costante paura della morte, sotto bombardamenti e colpi di artiglieria senza precedenti.

Omer è stato rapito ed è ostaggio. Anche gli abitanti della Striscia di Gaza sono ostaggi e le condizioni in cui vivono, compresi i malati, non sono migliori dell'inferno di Omer. Anche loro hanno bisogno di aiuto. Anche loro devono almeno ricevere rapidamente i farmaci di cui hanno bisogno. È un peccato che il padre di Omer pensi che negare gli aiuti umanitari a Gaza, anche alle persone affette da colite, sia il modo per salvare suo figlio. Tuttavia, non bisogna affrettarsi a giudicare una persona in crisi.

 

Allan McDonald

Non c'è differenza tra Omer e Mohammed, entrambi affetti da colite. Condividono un destino simile, di insopportabile crudeltà. Provo a immaginare il giovane Mohammed affetto da colite. Nei 16 anni in cui Gaza è stata sotto assedio, è improbabile che abbia ricevuto le migliori medicine disponibili per curare la sua malattia. È stato difficile, se non impossibile, farlo uscire dal ghetto di Gaza per ricevere cure mediche quando la sua malattia è peggiorata.

Oggi Omer è imprigionato in un tunnel buio e spaventoso e Mohammed vaga per le strade, affamato, rischiando di contrarre un'epidemia, un'infezione intestinale o altre malattie. In qualsiasi momento, il prossimo proiettile potrebbe colpirlo. Mohammed e Omer soffrono tormenti che non possiamo nemmeno immaginare.

Ai 136 ostaggi israeliani bisogna aggiungere 2,3 milioni di gazawi, ovvero il numero di loro ancora vivi, anch'essi ostaggi.

Gli israeliani sono ostaggi di Hamas, mentre gli abitanti di Gaza sono ostaggi sia di Israele che di Hamas [sic]. I loro destini sono legati. Quando gli ostaggi liberati da Hamas hanno parlato del magro cibo che ricevevano in prigionia, una pita al giorno con un po' di riso ogni tanto, hanno anche indicato che questo era esattamente ciò che veniva dato ai loro sequestratori. Qui ci sono spunti di riflessione, cosa che nessuno in Israele si è preso la briga di fare. Questo è ciò che sta accadendo adesso a Gaza, agli ostaggi e ai loro sequestratori, ma nessuno ne parla.

Fa male solo la sofferenza di Omer, non quella di Mohammed. Gli israeliani furono portati con la forza all'inferno. Anche gli abitanti della Striscia di Gaza sono stati portati con la forza nello stesso inferno. Hamas sapeva benissimo quanto sarebbe stata intensa la risposta di Israele, ma non si è preoccupata di predisporre alcuna protezione per gli abitanti di Gaza: niente ospedali, niente forniture di medicinali e cibo, niente rifugi. Questo è stato il primo rapimento di residenti di Gaza. A ciò si aggiungeva una nuova occupazione israeliana di Gaza, più crudele di tutte le precedenti.

Il padre di Omer, come è stato detto, cerca di non pensare a quello che sta passando suo figlio. Possiamo provare empatia per lui. È impossibile per un padre immaginare la sofferenza di suo figlio e sentirsi così impotente nel cercare di salvarlo. Ti si rivolta lo stomaco quando senti le grida di tuo padre. Ma non possiamo continuare a chiudere un occhio e indurire i nostri cuori di fronte alla sofferenza del resto degli ostaggi, dell’intera popolazione della Striscia di Gaza, compresi coloro che soffrono di colite.


Fadi Abou Hassan 

 

18/12/2023

GIDEON LEVY
Come se la violenza dei coloni non bastasse: Israele ora sta privando dell’acqua i palestinesi della Valle del Giordano

 Gideon Levy Alex Levac (foto), Haaretz, 16/12/2023
Tradotto da Alba Canelli, Tlaxcala

Dall’inizio della guerra, circa venti famiglie palestinesi sono state costrette ad abbandonare le loro case nella Valle del Giordano a causa della crescente violenza dei coloni. Nel frattempo, l’esercito nega alle comunità di pastori l’accesso all’acqua. I volontari israeliani cercano di proteggerli giorno e notte

Questo lunedì alle dodici e quarantacinque nella valle settentrionale del Giordano. Il tratto settentrionale della strada di Allon (strada 578) è deserto, come al solito, ma a lato della strada, tra gli insediamenti di Ro'i e Beka'ot, un piccolo convoglio di cisterne d'acqua, trainate da trattori e camion, è parcheggiato e aspetta. E aspetta. Sta aspettando che le pecore tornino a casa. I soldati delle Forze di Difesa Israeliane sarebbero dovuti venire qualche ora fa ad aprire il cancello di ferro, ma l'IDF non si è presentato e non ha nemmeno chiamato, come dice la canzone. Quando chiami il numero indicato dall'esercito sul cancello giallo, dall'altra parte rispondono, poi sei subito disconnesso. Un'attivista di Machsom Watch: Women for Human Rights, Tamar Berger, questa mattina ha provato tre volte e ogni volta, non appena si è identificata, l'altra parte ha riattaccato in modo dimostrativo. Gli autisti palestinesi hanno paura di chiamare.

Un accampamento beduino abbandonato dai suoi abitanti a causa della violenza dei coloni.

 

È il tempo del vento giallo, il tempo dei portatori d'acqua nel nord della Valle del Giordano, costretti ad aspettare ore e ore finché le forze dell'esercito che detengono la chiave arrivano e aprono la porta per far entrare chi porta l'acqua. In questa regione arida, Israele non consente ai residenti palestinesi di allacciarsi ad alcuna fornitura d’acqua: loro e le loro pecore devono fare affidamento sulla costosa acqua trasportata in cisterne, e gli autisti di camion e trattori dipendono totalmente da un soldato con la chiave.

Il soldato che ha la chiave avrebbe dovuto essere qui in mattinata. Gli autisti aspettano qui dalle 8 del mattino e tra pochi minuti saranno le 13. Dopo aver aperto il cancello, si dirigeranno verso Atuf e riempiranno i serbatoi d'acqua, per poi ritornare attraverso la strada sterrata verso i villaggi sul lato est della strada, dove dovranno nuovamente attendere un soldato con le munizioni. aprire loro la porta, affinché possano distribuire l'acqua agli uomini e agli animali che non hanno altra fonte di approvvigionamento.

Dall’inizio della guerra questa barriera è stata chiusa di prassi, dopo essere rimasta aperta per anni. Dopo l'attacco con un'autobomba qui due settimane fa, in cui due soldati sono rimasti leggermente feriti, i soldati con la chiave hanno tardato ad arrivare o non sono arrivati ​​affatto. Durante quest'ultimo periodo sono trascorse intere giornate senza che la porta venisse aperta e senza che i residenti avessero accesso all'acqua. I camionisti e i pastori devono essere puniti per un attacco terroristico (non mortale) compiuto da un abitante della città di Tamun, a ovest di qui, che è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Pertanto, i palestinesi vengono lasciati a bocca asciutta.

Il lato est della strada è ufficialmente senz'acqua. Per ordinanza è vietato bere e irrigare. Questo è ciò che ha deciso Israele, con il secondo scopo di rendere la vita dei pastori più difficile fino a renderla per loro insostenibile, espellendoli poi da questa zona. Anche i coloni terrorizzano i palestinesi con l’obiettivo di espellerli, in modo ancora più intenso all’ombra della guerra. Come all’altro capo dell’occupazione, sulle colline meridionali di Hebron, anche qui, nel punto più settentrionale, nella zona chiamata Umm Zuka, l’obiettivo principale è sbarazzarsi dei pastori – il gruppo più debole e impotente della popolazione – e impossessarsi della loro terra.

Nuove recinzioni sono già state erette lungo la strada, apparentemente dai coloni, attorno all'intera area, nel tentativo di completare il processo di bonifica. Ad oggi, una ventina di famiglie, ovvero quasi 200 persone, compresi i bambini, sono fuggite, portando via le loro pecore e lasciando dietro di sé, nella fuga, pezzi di vita e proprietà.

Un camion bloccato davanti a un posto di blocco improvvisato nella Valle del Giordano in attesa che l'esercito decida di sbloccare la barriera. Se i camion che trasportano l’acqua non possono passare, i pastori e i loro greggi non avranno nulla da bere


Ritorno alla barriera gialla. Dafna Banai, una veterana di Machsom Watch nella Valle del Giordano, che da anni aiuta i residenti con incrollabile dedizione, aspetta con i camionisti fin dal mattino. Lei e Berger sono stati arrestati dai soldati al posto di blocco di Beka'ot con la falsa motivazione che erano entrati nella zona A. "So chi siete e cosa state facendo", ha detto loro il comandante dell'esercito. Rafa Daragmeh, un camionista che aspetta dalle 9:30, dovrebbe fare quattro giri di consegna d'acqua al giorno, ma ormai è metà giornata, il suo serbatoio è pieno e non ne ha ancora completato nemmeno uno. Un giorno chiese a un soldato perché non sarebbero venuti. Il soldato ha risposto: "Chiedetelo a chi ha commesso l'attacco terroristico", che suona come una punizione collettiva, ma non è possibile, poiché la punizione collettiva è un crimine di guerra (e l'esercito più morale del mondo non commette crimini di guerra. N.d.T.).

Dall'altra parte del posto di blocco attende fin dal mattino anche un'autocisterna vuota. L'autista, Abdel Khader, del villaggio di Samara, è lì dalle 8 del mattino. Un altro camion è pieno di mangime per animali: difficilmente i soldati lo lasceranno passare. L'autista deve portare il carico in una comunità che vive a 200 metri a est della barriera. Due trappole per mosche sono appese accanto al posto di blocco, il tempo stringe.

Dopo l'una del pomeriggio, una Jeep Nissan civile con la luce gialla lampeggiante si è fermata. Le forze armate emergono determinate e fiduciose: quattro soldati, armati e protetti come se fossero a Gaza. Prendono subito posizione. Un soldato sale su un cubo di cemento e ci punta contro il fucile senza batter ciglio; il suo comandante, mascherato e con i guanti, ci chiede di “non interferire con i lavori” e ci minaccia di non far passare i camion se osiamo scattare foto. Forse si vergogna di quello che fa.

Un terzo soldato apre il bagagliaio della Nissan e tira fuori una chiave appesa a un lungo laccio delle scarpe. Questa è la chiave ambita, la chiave del regno. Il soldato va al cancello e lo apre. Ora è la fase del controllo di sicurezza. Forse l'acqua è avvelenata, forse è acqua pesante, forse è un ordigno esplosivo. Con gli arabi non si sa mai.

Per arrivare fin qui serve “coordinazione”. Un autista beduino israeliano del nord del paese dice di avere il coordinamento. Il suo camion trasporta materiali da costruzione. L'autista della cisterna ci dice che il carico è destinato ai coloni; l'autista beduino nega e dice che è per i pastori. Ma non c'è un solo pastore in queste regioni che abbia l'autorizzazione a costruire anche solo un muretto.

Un pastore tedesco si scalda al sole e osserva meravigliato gli avvenimenti. Un trattore passa senza incidenti; un camion, quello proveniente da ovest, è in ritardo e il suo autista è seduto a terra al posto di blocco in attesa. Ma il grottesco è appena cominciato. Il culmine viene raggiunto quando un minibus con targa israeliana arriva e scarica un gruppo di studenti haredi yeshivah, dotati di un amplificatore che suona musica chassidica e di un vassoio di sufganiot, le ciambelle di Hanukkah. Gli autisti palestinesi ancora in attesa non credono ai loro occhi: pensavano di aver già visto tutto ai checkpoint.

Dafna Banai, una veterana di Machsom Watch nella Valle del Giordano, vicino al posto di blocco questa settimana.

 

Gli studenti della Yeshiva, della città israeliana settentrionale di Migdal Ha'emek, eseguono una mitzvah distribuendo ciambelle inviate dal centro Chabad di Beit She'an ai soldati a questo checkpoint e ad altri, con grande stupore dei trasportatori d'acqua palestinesi che sono desiderosi di attraversare e consegnare il loro carico d'acqua.

Il soldato con il fucile puntato su di noi mastica pigramente la sua ciambella, tenendola con una mano, con l'altra sul grilletto. Tutti insieme adesso: “Maoz tzur yeshuati” – “O possente fortezza della mia salvezza”. Il camion del cibo per animali non arriva. Nessun coordinamento. Viene chiamato sul posto un agente che indossa una yarmulke e, da lontano, ci scatta una foto con il suo cellulare.

Il portavoce dell'IDF, in risposta ad una domanda di Haaretz sull'operazione irregolare del checkpoint: "A seguito di una serie di eventi legati alla sicurezza accaduti qui, il cancello è stato parzialmente bloccato. Il passaggio attraverso il varco è solo coordinato e viene autorizzato in base alla valutazione della situazione operativa del settore”.

Pochi chilometri a nord, ci sono vestigia di vita sul ciglio della strada. Due famiglie di pastori hanno vissuto qui per anni, ma i coloni provenienti dagli avamposti vicini hanno reso la loro vita un inferno finché non se ne sono andati due settimane fa, abbandonando i loro magri possedimenti. Un box, due frigoriferi, un letto di ferro arrugginito, due recinti per animali, alcuni libri per bambini e un disegno di calzini con didascalia la parola calzini in ebraico, probabilmente tratto da un libro scolastico.

Dafna Banai spiega che i coloni hanno recintato l’intera area della riserva naturale di Umm Zuka, circa 20.000 dunam (2.000 ettari), per liberarla dai pastori. È sempre lo stesso sistema, spiega Banai: prima si impedisce alle pecore di pascolare e si riducono i pascoli, poi si attaccano quasi ogni notte gli abitanti delle piccole comunità - a volte gli aggressori urinano sulle loro tende, a volte si mettono anche ad arare terra nel cuore della notte, al fine di creare “fatti sul terreno”. Tareq Daragmeh, che viveva qui con la sua famiglia, non ce la fece più e se ne andò, così come suo fratello, che viveva accanto a lui con la sua famiglia. Non siamo a Gaza, ma anche qui le persone sono costrette a lasciare le proprie case sotto minacce e attacchi violenti.

Ancora più a nord c'è una comunità di pastori ben sviluppata e vivace. Siamo El-Farsiya, nell'estremo nord della Valle del Giordano, quasi alla periferia di Beit She'an. Qui vivono tre famiglie di pastori e altre due non lontano. Sono rimaste due famiglie. Uno è tornato dopo che i volontari israeliani hanno iniziato a dormire qui ogni notte dopo l’inizio della guerra, proteggendo i residenti. Ci sono dai 30 ai 40 di questi bellissimi israeliani, la maggior parte dei quali relativamente anziani (60 anni o più), che condividono i turni per proteggere i palestinesi nella parte settentrionale della Valle del Giordano, che si estende dalla colonia di Hemdat a Mehola. “Ma per quanto tempo possiamo proteggerli 24 ore su 24?" chiede Banai, che ha organizzato questa forza di volontari.

Yossi Gutterman, uno dei volontari, questa settimana. “Non credo che lo scopo della violenza dei coloni sia causare danni in quanto tali: è logoramento, intimidazione, creazione di disperazione”, afferma.


Tre dei volontari scendono dalla collina. Amos Megged di Haifa, Roni King di Mazkeret Batya e il veterano del gruppo Yossi Gutterman di Rishon Letzion. Ce ne sono due o tre per turno di 24 ore. King è stato fino a poco tempo fa il veterinario del Dipartimento della Natura e dei Parchi; Megged, fratello minore dello scrittore Eyal Megged, è uno storico specializzato negli annali degli indiani del Messico; e Gutterman è un professore di psicologia in pensione. È dotato di una fotocamera corporea.

Oggi stanno tornando da un episodio di furto di pecore ai palestinesi e non ci sono ancora volontari per la notte a venire. Dall'inizio della guerra è diventato urgente dormire qui, spiega Gutterman. “La violenza dei coloni è diventata una questione quotidiana, data per scontata, e comprende invasioni notturne delle tendopoli, rottura di oggetti e distruzione di pannelli solari. Non penso che lo scopo sia causare danni in quanto tali: è logoramento, intimidazione, creazione di disperazione”.

Una famiglia se n'è andata, dicono i volontari, dopo che i coloni di Shadmot Mehola e i loro ospiti dello Shabbat di un collegio religioso nel Kibbutz Tirat Zvi hanno rotto il braccio del padre. “Due settimane fa”, racconta Gutterman, “mentre tre dei nostri amici erano qui, i coloni hanno svegliato l’intero campo tendato alle 2:30 del mattino con urla e torce elettriche, e hanno spaventato tutti. Hanno poi iniziato ad arare un pezzo di terreno privato che era stato recentemente dichiarato “terreno abbandonato”.

Meno di due settimane fa, due volontari sono stati aggrediti qui. Uno è stato colpito con una mazza e spruzzato di peperoncino negli occhi, l'altro è stato colpito con una pietra in testa. “Qui è in corso una campagna di pulizia etnica”, ha detto Gutterman.

Dopo una telefonata, i tre uomini si sono precipitati alla loro macchina e si sono diretti a nord verso Shdemot Mehola. Un pastore racconta loro che i coloni gli hanno appena rubato dozzine di capre. Sul posto si sono recati la polizia e l'esercito e, con l'aiuto dei tre volontari, sono state ritrovate e restituite al proprietario 37 capre. Non tutte le capre sono state rubate.

Nel frattempo, gli autisti dei trattori e dei camion finiscono di fare il pieno d'acqua e tornano di corsa per varcare lo stesso cancello, che sarebbe dovuto rimanere aperto per un'ora. Quando sono arrivati ​​alle 14:30, hanno scoperto che la barriera era chiusa e che i soldati se n'erano andati. Attesero il loro ritorno per quattro ore, fino alle 18,30. Senza dubbio “per la valutazione della situazione operativa del settore”.


04/11/2023

Lettera aperta a Slavoj Žižek, un filosofo che nega il diritto alla politica dei palestinesi

Collaboratore anonimo, Mondoweiss, 30 ottobre 2023
Tradotto da Giulietta Masinova, Tlaxcala

Questa lettera aperta è stata scritta da un critico culturale, autore e artista palestinese che ha scelto di pubblicarla in forma anonima per paura di rappresaglie da parte del regime israeliano, che dal 7 ottobre scorso ha sottoposto le voci palestinesi a una violenta campagna di arresti e repressione. 
 

Caro Slavoj Žižek,

Circa due settimane fa lei ha pubblicato un articolo in cui affermava che “la vera linea di demarcazione in Israele-Palestina” si colloca tra i “fondamentalisti” di entrambe le parti e tutti coloro che cercano realmente la “pace”, per cui lei invita a una posizione che non scelga tra una “linea dura” e l’altra. Nonostante l’equiparazione di principio tra le due parti, lei inizia e conclude il suo articolo con una condanna senza appello della condotta di Hamas, senza mai condannare esplicitamente l’altra fazione della “linea dura”, che ha perseguito la medesima condotta, lentamente e giorno per giorno, nel corso degli ultimi 75 anni. Inizio la mia risposta con una domanda fondamentale: in che veste parla?

Parla in veste di filosofo strettamente occidentale impegnato in un progetto occidentale, tristemente noto per la secolare e perdurante tradizione di colonialismo – con cui non si sono ancora fatti i conti dal punto di vista morale – e per la logora narrazione che contrappone civile e barbaro? Se è così, accetto la sua posizione e non ho altro da dirle. Ha scelto da che parte stare. Ma se si esprime in veste di filosofo, di portatore della verità, mi aspetto un minimo di pensiero critico soprattutto per quanto riguarda il canone politico su cui fonda il suo giudizio, la sua visione e il suo invito all’azione. Non mi aspetterei nulla di meno dalla star della “critica dell’ideologia”, che è senza dubbio esperta nel rilevare l’ampia e brutale autorità della manipolazione ideologica, soprattutto quando le prospettive geopolitiche occidentali sul Medio Oriente, espresse sia attraverso i media che attraverso le narrazioni storiche, hanno spesso dimostrato di essere alterate da tale manipolazione.


La sua principale intuizione sull’ideologia è che essa funziona in quanto tale; non ci crediamo ma la pratichiamo, come mostra la scena culminante di They Live [Essi vivono, John Carpenter, 1986], dove i titoli cubitali celano una plasmazione più profonda e disturbante del soggetto. Lo vediamo nei titoli urlati sui cartelloni fisici e virtuali dei media occidentali dopo il 7 ottobre e le sue presunte atrocità– stupri, neonati decapitati e altri massacri così indicibili da colpire molti lettori sul piano umano e personale.

Queste affermazioni appaiono profondamente inopportune se riferite a una fazione politica che conduce una guerra per la giustizia e la liberazione – e questo, naturalmente, se si è adeguatamente attrezzati e moralmente impegnati a riconoscere, anche in seguito a un’analisi distratta, che si tratta in effetti di una fazione di resistenza. Alcune di quelle affermazioni brutali, come il mito dei “neonati decapitati”, sono state confutate da molti, compresi gli israeliani e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nel frattempo altre affermazioni sono state almeno contestate, e molte sono state confutate dalle testimonianze di ostaggi israeliani liberati. Alcuni di essi hanno coraggiosamente dichiarato che i partecipanti del festival musicale, per esempio, non erano stati uccisi da Hamas ma erano stati vittima del fuoco incrociato, suggerendo che si trattasse di fuoco amico degli israeliani, poco attenti alla presenza di civili sul loro cammino. Con tali contraddizioni e per effetto della censura mediatica, la verità su quei fatti rimane sconosciuta.

Tuttavia, c’è una marcata insistenza perché una fazione della resistenza palestinese nata nell’evidente contesto dell’occupazione militare venga equiparata all’ISIS, malgrado le loro storie contrastanti e i loro diversi obiettivi e ideologie. Questo tentativo, che risale alla guerra del 2014 contro Gaza, è stato messo in atto da Netanyahu per la campagna elettorale del suo partito di destra, ed è stato già respinto da alcuni studiosi israeliani come una distorsione della realtà finalizzata a eludere i negoziati. Da un  punto di vista critico, la ripresa di questa affermazione nel clima politico attuale si presenta come un ulteriore abuso della crescente islamofobia in Occidente per assicurare a Israele un sostegno incondizionato.

Questa premessa solleva dubbi non solo sull’integrità dei media, ma anche sull’intero apparato politico occidentale, poiché si fonda su un rifiuto unilaterale delle fazioni di resistenza etichettandole come puro terrorismo in nome dell’Islam, insistendo al contempo sulla narrazione rivale di una “legittima difesa” politicamente giustificata. Se tali dubbi vanno presi in considerazione – e dovrebbero esserlo –, le posizioni politiche, le storie e i contesti hanno una grande importanza. Se lei liquida Hamas (e altri movimenti di resistenza) come terrorismo, non rischia di liquidare anche tutta la storia della lotta armata palestinese contro un’occupazione armata di tutto punto?


Žižek in conversazione con Hegel e Stalin

Lei inizia chiedendo una via d’uscita attraverso il contesto storico, ma la sua riflessione storica sembra escludere la parte in cui la resistenza palestinese si forma e si plasma a livello nazionale. Liquidare la resistenza come terrorismo significa decontestualizzarla politicamente e privare i palestinesi del diritto fondamentale all’organizzazione e all’aspirazione politiche. Ciò rende nichilista il soggetto palestinese e conduce a interpretazioni errate, come quando lei descrive l’Intifada di Gerusalemme nel 2015 – chiamata “Intifada dei coltelli” – come un’espressione violenta della disperazione. Un simile approccio sociologico alla politica impone un serio approfondimento.

Nei casi di attentati suicidi dei cosiddetti “lupi solitari” può esserci un piccolo numero di attentatori motivato dalla disperazione economica o personale, ma la maggior parte di essi dedica di fatto le proprie azioni al progetto generale di resistenza, solitamente sotto forma di testamento scritto. In molti casi, riflettendo sui precedenti post sui social media di questi individui, è solo dopo il martirio che le loro intenzioni politiche iniziano ad acquisire significato. Questi attentati locali riconoscono il poco tempo a disposizione per “agire”. Tengono conto della natura della polizia israeliana, dei soldati, delle forze di sicurezza e anche della popolazione pesantemente armata, soprattutto a Gerusalemme – queste forze sono sempre all’erta e pronte alla violenza, che si tratti di infliggerla o di subirla. In questi scontri di guerriglia, perfino gridare “Palestina libera” metterebbe in pericolo la “missione”. Si tratta di conoscenza basilare del contesto.

“La resistenza è un impegno continuo e fattibile”. Questa frase appare spesso sui muri graffitati delle città e dei villaggi palestinesi e sui muri virtuali dei social media. Essa incarna una filosofia coniata dal più famoso martire intellettuale della Palestina, Basil al-Araj [1], filosofia che si è trasformata in una teoria della resistenza nella cultura nazionale palestinese e che abbraccia la convinzione secondo cui un atto di resistenza sarà sempre ripagato dal raggiungimento degli obiettivi nazionali, durante la vita delle generazioni future se non della propria. Non c’è ricerca della morte “fine a se stessa”, non c’è “violenza” priva di un inno politico. È un investimento della vita individuale in una vita collettiva libera. Un dissolversi nella collettività.

Questo dogma pone l’enfasi sulla sacralità del ruolo collettivo dell’individuo, posizione cruciale nella risposta alla distruzione sistematica della capacità di auto-organizzazione dei palestinesi. Il sociologo norvegese Johan Galtung ha coniato il termine “sociocidio” per descrivere ciò che Israele pratica sui palestinesi, e che comporta la distruzione della loro capacità di auto-creazione e di ricreazione come comunità. Ciò permette di comprendere come la nozione religiosa di “jihad”, o “guerra santa”, sia divenuta rilevante e perfino imperativa per la causa nazionale palestinese.

La diffusa necessità di un legame più forte con la lotta per la liberazione, qualcosa di materialmente indistruttibile come la fede, ha dato origine al “jihad” come forma di lotta. La fede infonde agli individui la resilienza necessaria a sostenere un consenso collettivo, anche in condizioni di isolamento politico, e il jihad, nel suo significato linguistico di base, consiste nell’“esercitare il massimo della forza e dell’impegno” [2]. Se si esamina il contesto storico, Hamas e il Jihad islamico, le principali fazioni di resistenza islamica in Palestina, sono stati creati dopo il fallimento del nazionalismo arabo e la sconfitta del 1967. Per i palestinesi la religione è stata e continua a essere un impegno incrollabile nei confronti della loro causa, un patto sacro per la liberazione.

Ciò potrebbe sfuggire agli osservatori occidentali. Come sottolinea il giornalista Omar Al-Agha in un articolo per Al Jazeera, l’incapacità di Israele e dell’Occidente di prevedere le azioni di Hamas si spiega con la loro incapacità di comprendere appieno le intenzioni di un “combattente dogmatico” politico, elemento centrale della resistenza palestinese. Questa difficoltà, spiega Omar Al-Agha, deriva da un cambiamento storico del pensiero occidentale.

Tale evoluzione è caratterizzata dalla convinzione che la società occidentale incarni il culmine dell’evoluzione umana, astenendosi da considerazioni teologiche. Al-Agha distingue anche tra combattenti dogmatici e combattenti ideologici che l’osservatore occidentale conosce con il nome di “combattenti comunisti”. La principale differenza risiede nella componente della fede e nella convinzione che vi sia una ricompensa sotto forma di vita ultraterrena.

Complico ulteriormente la diagnosi esaminando la sintesi di questo dogma in una “struttura organizzata”, come un progetto di resistenza nazionale, vale a dire la formazione di un gruppo politico. Tale sintesi conduce a un’evoluzione della percezione della ricompensa da parte dell’individuo – la forma della ricompensa stessa non cambia per quanto riguarda l’aldilà, ma la fede nella ricompensa subisce una trasformazione. Dapprima fondata sul concetto di un aldilà personale ricompensato, tale fede evolve abbracciando una dimensione nazionale più ampia, una vita collettiva iniziata dalla morte del combattente. Questa “vita dopo la morte” diventa la ricompensa politico-terrena, l’occasione di una migliore esistenza collettiva.

Questa sociologia può anche essere individuata nella creazione del “tavolo comune delle fazioni della resistenza palestinesi”, dove le fazioni di sinistra e comuniste si uniscono alle fazioni islamiche sospendendo le differenze (anche tra islamisti) per risolverle politicamente dopo la liberazione. Inoltre, un’analisi antropologica del “pubblico” palestinese e arabo della resistenza rivela un ampio spettro di individui che comprende liberali, cristiani, atei, comunisti, persone LGBTQ+ e femministe, composizione che ricorda quella di una moltitudine politica “laica”. 

Queste e molte altre analisi smontano le narrazioni di “fondamentalismo” e “antisemitismo” brutalmente abbracciate dall’Occidente riguardo a qualsiasi tentativo di liberazione palestinese. Non è un segreto che il mondo occidentale sia diventato un ambiente ostile e perfino violento per la libertà di espressione sotto il falso pretesto dell’antisemitismo. Le violenze scatenate contro i manifestanti pro-palestinesi dagli apparati di Stato in Europa sono troppo simili a quelle delle forze israeliane contro i manifestanti palestinesi. Come dice lei, professor Žižek, la violenza rappresenta il fallimento dell’autorità paterna, e ciò solleva una questione: l’Occidente ha mai desiderato che i palestinesi cercassero un dialogo politico, o tutto il discorso sul “fondamentalismo” è un tentativo di cancellare le aspirazioni palestinesi autonome riducendole al puro odio e all’annientamento del popolo ebraico?

Anche alcune voci israeliane hanno visto nella liberazione incondizionata dei prigionieri e nel trattamento umano ricevuto dal personale di Hamas, come dichiarato alla stampa, un’indicazione che trattative di pace, o perfino trattative politiche con Hamas, siano possibili. Ma questo cosa significherebbe per lo “Stato di Israele”? E perché qualsiasi discussione sulla “pace” deve essere preceduta da una condanna esclusivamente di Hamas, e non dalla condanna incondizionata dell’esercizio della violenza? Dal momento che gli accordi internazionali legittimano la resistenza, perché la legittimità della resistenza politica palestinese deve essere presa di mira, persino dalle voci più critiche dell’Occidente?

Sono forse queste le vere linee di demarcazione in Israele-Palestina, professor Žižek: le narrazioni incentrate sull’Occidente che tengono attivamente al di fuori dello spazio politico le iniziative politiche palestinesi. Un cambiamento di approccio a questo riguardo è forse la chiave per un’eliminazione pratica della violenza su questo territorio. In ultima analisi tutti i palestinesi che conosco, persone che hanno sofferto troppo a lungo, si oppongono principalmente alla violenza contro ogni vita innocente.

Note

[1] Basil al-Araj. I Have Found My Answers: Thus Spoke the Martyr Basil al-Araj (2018).

[2] Edward Lane, An Arabic-English Lexicon, vol. 1 (London: Williams and Norgate, 1865), 473.



 

 

03/11/2023

GIDEON LEVY
Ecco i bambini estratti dopo il bombardamento del campo profughi di Jabalia a Gaza

Gideon LevyHaaretz, 2 novembre 2023
Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Palestinesi che cercano i sopravvissuti sotto le macerie degli edifici distrutti in seguito ai bombardamenti israeliani nel campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, 1 novembre 2023. Abed Khaled /AP

Un terrorista di Hamas è stato estratto dalle macerie, portato in braccio dal padre. Il suo volto è coperto di polvere, il suo corpo si muove ondeggiando come un sacco, il suo sguardo è vuoto. Non è chiaro se sia vivo o morto. È un bambino di tre o quattro anni e il padre, disperato, lo ha trasportato di corsa all’Ospedale Indonesiano della Striscia di Gaza, che era già pieno di feriti e di morti.

Un’altra terrorista è stata estratta dai rottami. Questa volta è chiaramente viva, i suoi capelli chiari e ricci sono bianchi di polvere; ha cinque o sei anni e viene portata in braccio dal padre. Guarda a destra e a sinistra, come se si chiedesse da dove arriveranno i soccorsi.

Un uomo con un gilet a brandelli ha tra le mani un lenzuolo bianco piegato come un sudario con cui copre il corpo di un bambino e lo scuote con disperazione. È il corpo di suo figlio, un neonato. Questo neonato non aveva ancora avuto la possibilità di arruolarsi al quartier generale militare di Hamas nel campo profughi di Jabalia. Aveva vissuto solo pochi giorni – l’eternità di una farfalla – ed è stato ucciso.

Decine di giovani hanno continuato a scavare tra le macerie a mani nude nel disperato tentativo di estrarre persone ancora vive o il corpo di qualche vicino, smuovendo pezzi di muro per liberare un bambino la cui mano spuntava dalle rovine. Forse questo bambino era un terrorista della forza Nukhba di Hamas.

Tutt’intorno ci sono centinaia di uomini, con vestiti stracciati, che si stringono le mani disperati. Alcuni di loro sono scoppiati in lacrime. Un riscaldatore solare israeliano con un adesivo in ebraico giace tra le macerie, a ricordo dei giorni passati. “Non abbiamo tempo per i sentimenti ora”, dice ad Al Jazeera Mansour Shimal, residente del campo.

Martedì pomeriggio, i jet dell’aviazione israeliana hanno bombardato il Blocco 6 del campo profughi di Jabalia. In Israele, la notizia è stata a malapena riportata. Al Jazeera ha riferito che sei bombe sono state sganciate sul Blocco 6, lasciando un enorme cratere, in cui una fila di appartamenti grigi è caduta come un castello di carte. I piloti avranno riferito di aver centrato l’obiettivo. La vista era orribile.

Quando mi sono recato nel quartiere Daraj di Gaza nel luglio 2002, il giorno dopo l’assassinio di Salah Shehadeh, ho visto una scena assai dura. Ma erano paesaggi pastorali rispetto a ciò che si è visto a Jabalia martedì. A Daraj sono stati uccisi 14 civili, di cui 11 bambini: circa un decimo del numero di persone uccise nel bombardamento di martedì a Jabalia, secondo i rapporti palestinesi.

In Israele non hanno mostrato le immagini di Jabalia. Eppure, difficile da credere, sono avvenute. Alcune reti estere le hanno trasmesse a ciclo continuo. In Israele hanno detto che il comandante del battaglione centrale di Hamas a Jabalia, Ibrahim Biari, è stato ucciso in un attacco dell’aviazione nel campo profughi più affollato di Gaza e che decine di terroristi sono stati uccisi. L’uccisione di Shehadeh fu seguita da un incisivo dibattito pubblico in Israele. Quello che è avvenuto martedì a Jabalia è stato a malapena raccontato. È accaduto prima che venissero diffuse le brutte notizie sui soldati israeliani uccisi, mentre il fuoco di guerra continuava a crepitare.

Secondo i rapporti, circa 100 persone sono state uccise nell’attentato di Jabalia e circa 400 sono rimaste ferite. Le immagini dell’Ospedale Indonesiano erano terribili. Bambini bruciati gettati uno accanto all’altro, tre o quattro su un letto sudicio; la maggior parte di loro è stata curata sul pavimento per mancanza di letti sufficienti. “Curare” è la parola sbagliata. A causa della mancanza di medicinali, gli interventi chirurgici salvavita sono stati eseguiti non solo sul pavimento, ma anche senza anestesia. L’Ospedale Indonesiano di Beit Lahia è ora un inferno.

Israele è in guerra, dopo che Hamas ha ucciso e rapito con una barbarie e una brutalità che non possono essere perdonate. Ma i bambini estratti dalle macerie del Blocco 6 e alcuni dei loro genitori non hanno nulla a che fare con gli attacchi a Be’eri e Sderot.

Mentre i terroristi imperversavano in Israele, gli abitanti di Jabalia erano rannicchiati nelle loro capanne nel campo più affollato di Gaza, pensando a come passare un altro giorno in queste condizioni, peggiorate dall’assedio della Striscia degli ultimi 16 anni. Ora seppelliranno i loro figli in fosse comuni perché a Jabalia non c’è più spazio per tombe individuali.

05/09/2023

HILO GLAZER
Nelle Prealpi italiane, degli israeliani fondano una comunità di espatriati. Iniziative simili stanno nascendo altrove

 Nota del traduttore

Una battuta circolava qualche anno fa nei bar di Tel Aviv: “Un ebreo israeliano ottimista impara l'arabo, un ebreo israeliano pessimista impara l'inglese, un ebreo israeliano realista impara a nuotare”. Sembra che quello che i Palestinesi o gli arabi non sono riusciti a fare (semmai ne abbiano avuto davvero l'intenzione), Netanyahu e i suoi accoliti di governo lo stanno provocando: un'ondata di fuggi fuggi si è scatenata fra gli ebrei israeliani. Infatti, centinaia e migliaia di israeliani di varie condizioni socioeconomiche e di ogni età stanno dandosi da fare per trovare un'alternativa di vita allo Stato ebraico. Ed è in questo modo che è nato un nuovo business, che si potrebbe chiamare relocation industry (industria del trasferimento). L'articolo di Hilo Glazer racconta del Progetto Baita, lanciato in provincia di Vercelli, nella Valsesia, e di altri progetti, fra i quali ambiziosi progetti di creazione di "città israeliane" in Europa, da Cipro e Grecia al Portogallo, ed altrove. Uno di loro parla addirittura di creare una “comunità di insediamento”, che ricorda i cosiddetti insediamenti (colonie) in Cisgiordania. Possiamo legittimamente chiederci se questi progetti possano costituire un superamento definitivo del sionismo e del tribalismo, oppure se creeranno semplicemente “piccoli Israele” sparsi come coriandoli per il mondo.-FG

Hilo Glazer, Haaretz, 2/9/2023
Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

 Sulla scia del golpe giudiziario [la riforma progettata dal governo Netanyahu], le discussioni israeliane sul trasferimento all’estero non si fermano più ai gruppi sui social media. In una valle lussureggiante dell’Italia nord-occidentale, le idee di emigrazione collettiva si stanno attuando sul campo e iniziative simili stanno prendendo forma anche altrove.

“Mentre il numero di ore di luce nella democrazia del loro Paese continua a diminuire, sempre più israeliani arrivano nella valle montana alla ricerca di un nuovo inizio. Tra loro ci sono giovani con neonati nel marsupio, altri con bambini in età scolare, e ci sono persone brizzolate o pelate come me. Un insegnante, un imprenditore tecnologico, uno psicologo, un toelettatore di cani, un allenatore di basket. Alcuni dicono che stanno solo esplorando, si vergognano ancora di ammettere che stanno prendendo seriamente in considerazione l’opzione. Altri sembrano intenzionati e motivati: si informano su come ottenere il permesso di soggiorno, su quanto costa una casa, su come aprire un conto bancario e trasferire i fondi previdenziali finché è ancora possibile. Alla base di tutto questo c’è uno strato di dolore, il dolore dei bravi israeliani che credevano di potersi riposare sugli allori dopo 2.000 anni, ma che ora stanno riprendendo in mano il bastone del viandante”.

L’autore è Lavi Segal, la zona montuosa che descrive si trova nella Valsesia, nella regione Piemonte dell’Italia nord-occidentale, ai piedi delle Alpi. Segal, proprietario di un’azienda turistica della Galilea, condivide le sue esperienze con i membri di un gruppo Facebook chiamato Baita, che offre informazioni agli israeliani che cercano di immigrare e creare una propria comunità in Valsesia, molti dei cui abitanti originari sono partiti negli ultimi decenni. Il nome del gruppo è un amalgama di Bait (che in ebraico significa “casa”) e Ita - abbreviazione di Italia. Baita in italiano si traduce anche come “capanna in montagna”. E non si tratta di montagne qualsiasi: la Valsesia è conosciuta come “la valle più verde d’Italia”. Segal afferma che quello che sta presentando è un caso di pubblicità veritiera.

“Con tutto il rispetto per i discorsi sulla ‘bella Terra d’Israele’”, dice ad Haaretz in un’intervista telefonica, “Israele è forse bella se paragonata alla Siria o all’Arabia Saudita [sic] [ma] l’Europa e le Alpi sono un altro mondo. Il paesaggio è mozzafiato, il clima è meraviglioso e tutti i noti problemi di Israele - guerre, sporcizia, sovraffollamento, costo della vita - semplicemente non esistono qui”.

Segal vive in Valsesia da due mesi con la moglie Nirit, entrambi sessantenni. “Stiamo facendo un viaggio di familiarizzazione e di esplorazione”, spiega. “Abbiamo affittato una casa qui e ogni tanto parliamo con le agenzie immobiliari della possibilità di acquistarne una. Al momento non stiamo parlando di uno sradicamento definitivo, anche se potrebbe accadere se la vita in Israele diventasse intollerabile. Per il momento stiamo cercando un posto in cui possiamo dividere il nostro tempo tra Israele e l’estero. Israele ci è molto caro: Quando siamo lì partecipiamo attivamente alle manifestazioni” contro i piani del governo per la revisione del sistema giudiziario.

Nirit, che organizza ritiri artistici, ha due idee: “Questo posto è un sogno quando si tratta di creare arte, ma sono molto legata a Israele e, come molte persone del mio ambiente, lo sento soprattutto oggi. Sono preoccupata per le implicazioni dellondata migratoria sul movimento di protesta”.

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