Collaboratore anonimo, Mondoweiss, 30 ottobre 2023
Tradotto da Giulietta Masinova,
Tlaxcala
Questa lettera aperta è stata scritta da un critico culturale, autore e artista palestinese che ha scelto di pubblicarla in forma anonima per paura di rappresaglie da parte del regime israeliano, che dal 7 ottobre scorso ha sottoposto le voci palestinesi a una violenta campagna di arresti e repressione.
Circa due settimane fa lei ha pubblicato un articolo in cui affermava che “la vera linea di demarcazione in Israele-Palestina” si colloca tra i “fondamentalisti” di entrambe le parti e tutti coloro che cercano realmente la “pace”, per cui lei invita a una posizione che non scelga tra una “linea dura” e l’altra. Nonostante l’equiparazione di principio tra le due parti, lei inizia e conclude il suo articolo con una condanna senza appello della condotta di Hamas, senza mai condannare esplicitamente l’altra fazione della “linea dura”, che ha perseguito la medesima condotta, lentamente e giorno per giorno, nel corso degli ultimi 75 anni. Inizio la mia risposta con una domanda fondamentale: in che veste parla?
Parla in veste di filosofo strettamente occidentale impegnato in un progetto occidentale, tristemente noto per la secolare e perdurante tradizione di colonialismo – con cui non si sono ancora fatti i conti dal punto di vista morale – e per la logora narrazione che contrappone civile e barbaro? Se è così, accetto la sua posizione e non ho altro da dirle. Ha scelto da che parte stare. Ma se si esprime in veste di filosofo, di portatore della verità, mi aspetto un minimo di pensiero critico soprattutto per quanto riguarda il canone politico su cui fonda il suo giudizio, la sua visione e il suo invito all’azione. Non mi aspetterei nulla di meno dalla star della “critica dell’ideologia”, che è senza dubbio esperta nel rilevare l’ampia e brutale autorità della manipolazione ideologica, soprattutto quando le prospettive geopolitiche occidentali sul Medio Oriente, espresse sia attraverso i media che attraverso le narrazioni storiche, hanno spesso dimostrato di essere alterate da tale manipolazione.
La sua principale intuizione sull’ideologia è che essa funziona in quanto tale; non ci crediamo ma la pratichiamo, come mostra la scena culminante di They Live [Essi vivono, John Carpenter, 1986], dove i titoli cubitali celano una plasmazione più profonda e disturbante del soggetto. Lo vediamo nei titoli urlati sui cartelloni fisici e virtuali dei media occidentali dopo il 7 ottobre e le sue presunte atrocità– stupri, neonati decapitati e altri massacri così indicibili da colpire molti lettori sul piano umano e personale.
Queste affermazioni appaiono profondamente inopportune se riferite a una fazione politica che conduce una guerra per la giustizia e la liberazione – e questo, naturalmente, se si è adeguatamente attrezzati e moralmente impegnati a riconoscere, anche in seguito a un’analisi distratta, che si tratta in effetti di una fazione di resistenza. Alcune di quelle affermazioni brutali, come il mito dei “neonati decapitati”, sono state confutate da molti, compresi gli israeliani e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nel frattempo altre affermazioni sono state almeno contestate, e molte sono state confutate dalle testimonianze di ostaggi israeliani liberati. Alcuni di essi hanno coraggiosamente dichiarato che i partecipanti del festival musicale, per esempio, non erano stati uccisi da Hamas ma erano stati vittima del fuoco incrociato, suggerendo che si trattasse di fuoco amico degli israeliani, poco attenti alla presenza di civili sul loro cammino. Con tali contraddizioni e per effetto della censura mediatica, la verità su quei fatti rimane sconosciuta.
Tuttavia, c’è una marcata insistenza perché una fazione della resistenza palestinese nata nell’evidente contesto dell’occupazione militare venga equiparata all’ISIS, malgrado le loro storie contrastanti e i loro diversi obiettivi e ideologie. Questo tentativo, che risale alla guerra del 2014 contro Gaza, è stato messo in atto da Netanyahu per la campagna elettorale del suo partito di destra, ed è stato già respinto da alcuni studiosi israeliani come una distorsione della realtà finalizzata a eludere i negoziati. Da un punto di vista critico, la ripresa di questa affermazione nel clima politico attuale si presenta come un ulteriore abuso della crescente islamofobia in Occidente per assicurare a Israele un sostegno incondizionato.
Questa premessa solleva dubbi non solo sull’integrità dei media, ma anche sull’intero apparato politico occidentale, poiché si fonda su un rifiuto unilaterale delle fazioni di resistenza etichettandole come puro terrorismo in nome dell’Islam, insistendo al contempo sulla narrazione rivale di una “legittima difesa” politicamente giustificata. Se tali dubbi vanno presi in considerazione – e dovrebbero esserlo –, le posizioni politiche, le storie e i contesti hanno una grande importanza. Se lei liquida Hamas (e altri movimenti di resistenza) come terrorismo, non rischia di liquidare anche tutta la storia della lotta armata palestinese contro un’occupazione armata di tutto punto?
Lei inizia chiedendo una via d’uscita attraverso il contesto storico, ma la sua riflessione storica sembra escludere la parte in cui la resistenza palestinese si forma e si plasma a livello nazionale. Liquidare la resistenza come terrorismo significa decontestualizzarla politicamente e privare i palestinesi del diritto fondamentale all’organizzazione e all’aspirazione politiche. Ciò rende nichilista il soggetto palestinese e conduce a interpretazioni errate, come quando lei descrive l’Intifada di Gerusalemme nel 2015 – chiamata “Intifada dei coltelli” – come un’espressione violenta della disperazione. Un simile approccio sociologico alla politica impone un serio approfondimento.
Nei casi di attentati suicidi dei cosiddetti “lupi solitari” può esserci un piccolo numero di attentatori motivato dalla disperazione economica o personale, ma la maggior parte di essi dedica di fatto le proprie azioni al progetto generale di resistenza, solitamente sotto forma di testamento scritto. In molti casi, riflettendo sui precedenti post sui social media di questi individui, è solo dopo il martirio che le loro intenzioni politiche iniziano ad acquisire significato. Questi attentati locali riconoscono il poco tempo a disposizione per “agire”. Tengono conto della natura della polizia israeliana, dei soldati, delle forze di sicurezza e anche della popolazione pesantemente armata, soprattutto a Gerusalemme – queste forze sono sempre all’erta e pronte alla violenza, che si tratti di infliggerla o di subirla. In questi scontri di guerriglia, perfino gridare “Palestina libera” metterebbe in pericolo la “missione”. Si tratta di conoscenza basilare del contesto.
“La resistenza è un impegno continuo e fattibile”. Questa frase appare spesso sui muri graffitati delle città e dei villaggi palestinesi e sui muri virtuali dei social media. Essa incarna una filosofia coniata dal più famoso martire intellettuale della Palestina, Basil al-Araj [1], filosofia che si è trasformata in una teoria della resistenza nella cultura nazionale palestinese e che abbraccia la convinzione secondo cui un atto di resistenza sarà sempre ripagato dal raggiungimento degli obiettivi nazionali, durante la vita delle generazioni future se non della propria. Non c’è ricerca della morte “fine a se stessa”, non c’è “violenza” priva di un inno politico. È un investimento della vita individuale in una vita collettiva libera. Un dissolversi nella collettività.
Questo dogma pone l’enfasi sulla sacralità del ruolo collettivo dell’individuo, posizione cruciale nella risposta alla distruzione sistematica della capacità di auto-organizzazione dei palestinesi. Il sociologo norvegese Johan Galtung ha coniato il termine “sociocidio” per descrivere ciò che Israele pratica sui palestinesi, e che comporta la distruzione della loro capacità di auto-creazione e di ricreazione come comunità. Ciò permette di comprendere come la nozione religiosa di “jihad”, o “guerra santa”, sia divenuta rilevante e perfino imperativa per la causa nazionale palestinese.
La diffusa necessità di un legame più forte con la lotta per la liberazione, qualcosa di materialmente indistruttibile come la fede, ha dato origine al “jihad” come forma di lotta. La fede infonde agli individui la resilienza necessaria a sostenere un consenso collettivo, anche in condizioni di isolamento politico, e il jihad, nel suo significato linguistico di base, consiste nell’“esercitare il massimo della forza e dell’impegno” [2]. Se si esamina il contesto storico, Hamas e il Jihad islamico, le principali fazioni di resistenza islamica in Palestina, sono stati creati dopo il fallimento del nazionalismo arabo e la sconfitta del 1967. Per i palestinesi la religione è stata e continua a essere un impegno incrollabile nei confronti della loro causa, un patto sacro per la liberazione.
Ciò potrebbe sfuggire agli osservatori occidentali. Come sottolinea il giornalista Omar Al-Agha in un articolo per Al Jazeera, l’incapacità di Israele e dell’Occidente di prevedere le azioni di Hamas si spiega con la loro incapacità di comprendere appieno le intenzioni di un “combattente dogmatico” politico, elemento centrale della resistenza palestinese. Questa difficoltà, spiega Omar Al-Agha, deriva da un cambiamento storico del pensiero occidentale.
Tale evoluzione è caratterizzata dalla convinzione che la società occidentale incarni il culmine dell’evoluzione umana, astenendosi da considerazioni teologiche. Al-Agha distingue anche tra combattenti dogmatici e combattenti ideologici che l’osservatore occidentale conosce con il nome di “combattenti comunisti”. La principale differenza risiede nella componente della fede e nella convinzione che vi sia una ricompensa sotto forma di vita ultraterrena.
Complico ulteriormente la diagnosi esaminando la sintesi di questo dogma in una “struttura organizzata”, come un progetto di resistenza nazionale, vale a dire la formazione di un gruppo politico. Tale sintesi conduce a un’evoluzione della percezione della ricompensa da parte dell’individuo – la forma della ricompensa stessa non cambia per quanto riguarda l’aldilà, ma la fede nella ricompensa subisce una trasformazione. Dapprima fondata sul concetto di un aldilà personale ricompensato, tale fede evolve abbracciando una dimensione nazionale più ampia, una vita collettiva iniziata dalla morte del combattente. Questa “vita dopo la morte” diventa la ricompensa politico-terrena, l’occasione di una migliore esistenza collettiva.
Questa sociologia può anche essere individuata nella creazione del “tavolo comune delle fazioni della resistenza palestinesi”, dove le fazioni di sinistra e comuniste si uniscono alle fazioni islamiche sospendendo le differenze (anche tra islamisti) per risolverle politicamente dopo la liberazione. Inoltre, un’analisi antropologica del “pubblico” palestinese e arabo della resistenza rivela un ampio spettro di individui che comprende liberali, cristiani, atei, comunisti, persone LGBTQ+ e femministe, composizione che ricorda quella di una moltitudine politica “laica”.
Queste e molte altre analisi smontano le narrazioni di “fondamentalismo” e “antisemitismo” brutalmente abbracciate dall’Occidente riguardo a qualsiasi tentativo di liberazione palestinese. Non è un segreto che il mondo occidentale sia diventato un ambiente ostile e perfino violento per la libertà di espressione sotto il falso pretesto dell’antisemitismo. Le violenze scatenate contro i manifestanti pro-palestinesi dagli apparati di Stato in Europa sono troppo simili a quelle delle forze israeliane contro i manifestanti palestinesi. Come dice lei, professor Žižek, la violenza rappresenta il fallimento dell’autorità paterna, e ciò solleva una questione: l’Occidente ha mai desiderato che i palestinesi cercassero un dialogo politico, o tutto il discorso sul “fondamentalismo” è un tentativo di cancellare le aspirazioni palestinesi autonome riducendole al puro odio e all’annientamento del popolo ebraico?
Anche alcune voci israeliane hanno visto nella liberazione incondizionata dei prigionieri e nel trattamento umano ricevuto dal personale di Hamas, come dichiarato alla stampa, un’indicazione che trattative di pace, o perfino trattative politiche con Hamas, siano possibili. Ma questo cosa significherebbe per lo “Stato di Israele”? E perché qualsiasi discussione sulla “pace” deve essere preceduta da una condanna esclusivamente di Hamas, e non dalla condanna incondizionata dell’esercizio della violenza? Dal momento che gli accordi internazionali legittimano la resistenza, perché la legittimità della resistenza politica palestinese deve essere presa di mira, persino dalle voci più critiche dell’Occidente?
Sono forse queste le vere linee di demarcazione in Israele-Palestina, professor Žižek: le narrazioni incentrate sull’Occidente che tengono attivamente al di fuori dello spazio politico le iniziative politiche palestinesi. Un cambiamento di approccio a questo riguardo è forse la chiave per un’eliminazione pratica della violenza su questo territorio. In ultima analisi tutti i palestinesi che conosco, persone che hanno sofferto troppo a lungo, si oppongono principalmente alla violenza contro ogni vita innocente.
Note
[1] Basil al-Araj. I Have Found My Answers: Thus Spoke the Martyr Basil al-Araj (2018).
[2] Edward Lane, An Arabic-English Lexicon, vol. 1 (London: Williams and Norgate, 1865), 473.
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