Il
blocco delle barche della Flotilla, avvenuto manu militari da parte
dell’esercito israeliano nella notte, costituisce un crimine di guerra.
Non così tragico -speriamo- come quelli che quotidianamente avvengono a Gaza
(anche oggi all’alba oltre 70 morti), ma identico dal punto di vista giuridico
internazionale: Israele ha assaltato in acque internazionali una flotta di navi
disarmate con persone provenienti da 44 Paesi che portavano con sé cibo e
medicinali.
Un crimine contro il quale ogni governo democratico
dovrebbe ribellarsi con forza e determinazione.
Non è
il caso dell’Italia, dove i massimi esponenti di governo fanno a gara a chi si
comporta in maniera più indegna.
Partiamo
dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che dopo aver dato il
via libera ideologico a Israele (“Quelli della Flotilla sono
irresponsabili”) e dopo aver fatto dichiarazioni deliranti (“Stanno
mettendo a rischio il piano di pace del mio amico Donald”) da oltre 24 ore
è muta come un pesce. Evidentemente attonita nel constatare come le
piazze del paese si sono spontaneamente riempite già nella serata di ieri,
pronte ad esondare oggi, a bloccare tutto domani e a convergere sabato per la
Palestina.
Si
chiama Elnet, acronimo di European Leadership Network, da non confondere con
ELN, acronimo dell'altro European Leadership Network, un think tank
“rispettabile” creato nel 2011 e con sede a Londra. Elnet non ha nulla di
rispettabile: è una macchina da guerra israelo-yankee creata nel 2007 dopo la
seconda Intifada per intossicare l'opinione pubblica occidentale con la più
pura hasbara [propaganda] sionista. Obiettivo principale: i parlamentari
nazionali dell’UE e gli eurodiputati. Dopo il 7 ottobre 2023, Elnet ha
organizzato 20 viaggi in Israele per 300 parlamentari europei e britannici. Ma
Elnet ha anche diversificato le sue operazioni, organizzando viaggi in Terra
Promessa per militari, industriali e grandi intellettuali, tra cui
Bernard-Henri Lévy e Michel Onfray, senza dimenticare l'inimitabile
svizzero-catalano Manuel Carlos Valls i Galfetti, nonché viaggi di politici e
militari israeliani in Europa. Tra i parlamentari, si rastrella ampiamente, dai
conservatori agli ecologisti, passando per i liberali e i socialdemocratici,
dai lituani ai portoghesi, passando per gli ungheresi, i rumeni, i francesi, i
tedeschi, gli italiani, ecc. Di seguito alcuni documenti su questa impresa di acquisto (a basso prezzo) delle coscienze. --Ayman El Hakim
Elnet, un agente di influenza filoisraeliano nel cuore del Parlamento
francese
Dal 2017, questa lobby
ha inviato in Israele, spese pagate, un centinaio di parlamentari. Il suo
amministratore delegato sostiene di aver fatto «più del [suo] dovere» nel
sostenere «l'immensa maggioranza» dell'Assemblea nazionale e del Senato nei
confronti dello Stato ebraico dal 7 ottobre.
Nelle foto posano
sorridenti davanti al Muro del Pianto, concentrati in una sala riunioni del
ministero degli Esteri israeliano o con espressione grave durante una visita a
un kibbutz attaccato da Hamas il 7 ottobre... Nel corso degli anni, queste
immagini di deputati e senatori francesi sono apparse a decine sul sito web di
Elnet – acronimo di «European Leadership Network» , un'associazione ben nota
alla maggior parte dei parlamentari che ricevono regolarmente le sue e-mail con
inviti a viaggi in Israele.
Sulla carta, questi soggiorni, interamente
finanziati da Elnet – occorrono 4.000 euro per quattro giorni, hotel e viaggio
in aereo compresi –, hanno tutto per attirare i politici: offrono incontri “di
alto livello” con intellettuali, ambasciatori o ufficiali dell'esercito
israeliano, ma anche visite alla Knesset, al memoriale di Yad Vashem o alle
basi militari al confine con la Palestina...
”Con la vostra presenza, contribuirete a rafforzare le relazioni
strategiche bilaterali tra due paesi [...] che condividono gli stessi valori
[e] hanno gli stessi nemici”, scriveva
l'organizzazione nell'estate del 2021 in una mail inviata a trentaquattro
parlamentari macronisti, Les Républicains (LR), centristi e socialisti, alla
vigilia della loro partenza per lo Stato ebraico. Un viaggio durante il quale
hanno potuto incontrare un ex numero due del Mossad per discutere delle
questioni di sicurezza del Paese, o Benjamin Netanyahu, allora capo dell'opposizione,
che ha riassunto in una sola parola la ricetta del «miracolo israeliano»: il
«capitalismo».
Nel marzo 2023, quindici
deputati LR si sono recati nuovamente a Gerusalemme per ascoltare, tra l'altro,
un comandante della polizia che ha presentato loro il sistema di
videosorveglianza con riconoscimento facciale della città vecchia e per
guardare con lui il video di un attentato compiuto poche settimane prima dai
palestinesi. Due mesi prima, mentre si moltiplicavano le manifestazioni contro
la controversa riforma della giustizia di Netanyahu, era stata la volta dei
deputati macronisti di ascoltare un deputato del Likud assicurare loro che il
governo non avrebbe in alcun caso leso le libertà fondamentali…
Dopo il 7 ottobre, Elnet
ha rafforzato la sua azione. Solo otto giorni dopo i massacri commessi da
Hamas, l'organizzazione ha inviato dieci deputati LR e Renaissance – insieme a
Manuel Valls, recentemente nominato ministro d’oltremare [colonie] – a visitare
la base militare di Shurah, a sud di Tel Aviv, dove giacevano i corpi di 300
vittime non ancora identificate, a incontrare le famiglie degli ostaggi e a
parlare con i sopravvissuti all'ospedale Ichilov. «Mentre l'attenzione dei
media si concentra sulle immagini della distruzione a Gaza, è ancora più
importante che i decisori europei vedano la realtà sul campo dal punto di vista
israeliano per contribuire a mantenere il necessario sostegno da parte dei
principali alleati europei», ha commentato Elnet dopo la visita.
Nel gennaio 2024, mentre
il numero dei morti a Gaza sfiorava i 25.000, una delegazione di 22 senatori,
tra cui Francis Szpiner, Loïc Hervé e Françoise Gatel, ministro dei governi
Barnier e Bayrou, ha pubblicato un editoriale al ritorno dal viaggio con Elnet:
«Questo viaggio ha rafforzato il nostro attaccamento alla società israeliana
e la nostra profonda convinzione che Israele [...] sia in prima linea in una
guerra di civiltà contro la barbarie», hanno scritto.
Un lungo lavoro di influenza
Creata nel 2010, la
sezione francese di Elnet – che ha anche sedi in Belgio, Regno Unito, Germania
e Italia – ha sede a pochi metri dall'Assemblea Nazionale, in rue
Saint-Dominique. Una posizione strategica per l'ONG, che dichiara di essere
finanziata «al 100%» da contributi privati (vedi allegati) e che ha l'ambizione
di «rafforzare il dialogo diplomatico, politico e strategico tra Francia e
Israele».
Dietro questo obiettivo,
Elnet fatica a nascondere la sua simpatia per il governo di estrema destra
guidato da Netanyahu. Ancora di più dall'inizio della guerra a Gaza, che
diverse organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International,
definiscono ormai un «genocidio». «È una lobby che ha una certa importanza»,
riassume il senatore socialista Rachid Temal, autore di un rapporto pubblicato
a luglio sulle influenze straniere, che sottolinea che «l'associazione, come
tutte le altre lobby, ha il diritto di esercitare la propria influenza purché
lo dichiari».
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Una regolarizzazione
molto tardiva presso l'HATVP
Nonostante la legge
Sapin del 2016 sulla lotta alla corruzione, che obbliga i rappresentanti di
interessi a registrarsi come tali presso l'Alta Autorità per la trasparenza
della vita pubblica (HATVP), Elnet ha impiegato otto anni per registrarsi
presso l'istituzione.
Un'incongruenza che non
era sfuggita alla senatrice UDI Nathalie Goulet che, durante le discussioni
sulle influenze straniere al Palazzo del Lussemburgo quest'estate, aveva
osservato che «alcuni organismi che invitano regolarmente i parlamentari in
viaggio [...] non figurano nell'elenco di queste lobby, Elnet per non citarne
uno».
Interrogata il 21
novembre da Mediapart sui motivi per cui non si era ancora dichiarata
all'HATVP, l'associazione ha risposto: «Non ritenevamo di rientrare nella
categoria dei rappresentanti di interessi. Al fine di garantire la nostra
conformità alla legge, abbiamo incontrato l'HATVP e abbiamo concordato con i
suoi responsabili che dovevamo dichiararci come tali. La procedura è quindi in
corso». Contattata a sua volta su questo punto, l'HATVP ha dichiarato di «non
poter fornire ulteriori informazioni». Per una fortunata coincidenza, Elnet è
finalmente apparsa nel registro... cinque giorni dopo la nostra richiesta.
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Il 23 settembre, in
un'intervista al media online Qualita, un canale destinato ai francesi
immigrati in Israele, il presidente di Elnet-France, Arié Bensemhoun, si è
apertamente congratulato per l'influenza della sua organizzazione sul
microcosmo politico francese.
«Rimango relativamente ottimista sulla capacità di cambiare i parametri del
discorso diplomatico», ha affermato. Da un lato c'è la diplomazia ufficiale,
dall'altro c'è la diplomazia parlamentare. Ricordo che la stragrande
maggioranza del parlamento [francese] sostiene Israele [...] nella sua lotta
contro Hamas e Hezbollah, e questo è il risultato di decenni di lavoro svolto
da alcuni, da altri, noi abbiamo fatto più che la nostra parte”.
Di fatto, dal 2017, i
dibattiti sul conflitto israelo-palestinese hanno gradualmente cambiato tono in
un'Assemblea nazionale che fino ad allora aveva mostrato una linea piuttosto
benevola nei confronti della causa palestinese, in sintonia con il Quai d'Orsay.
Tra il voto, nel 2019, di una risoluzione che condanna qualsiasi discorso «
antisionista » in quanto automaticamente antisemita, l'accusa, in piena aula,
contro l'avvocato franco-palestinese Salah Hamouri nel 2022, le dimissioni del
presidente del gruppo Francia-Palestina, privato della parola durante un
dibattito sull'« apartheid » in Israele, e il “sostegno incondizionato” allo
Stato ebraico decretato dalla presidente dell'Assemblea nazionale Yaël
Braun-Pivet nel 2023, è poco dire che l'atmosfera è cambiata.
Da qui a vedere la mano
di Elnet? L'associazione non ha comunque perso tempo per influenzare le
rappresentanze dei parlamentari francesi negli ultimi anni. Interrogata da
Mediapart, l'ONG dichiara di «non tenere i conti», ma stando alle dichiarazioni
ufficiali dei deputati e dei senatori – tenuti a rendere pubblica «ogni
accettazione di un invito a un viaggio da parte di una persona giuridica o
fisica di cui hanno beneficiato in ragione del loro mandato» , dal 2017 sono
stati organizzati 55 viaggi per deputati e 46 per senatori.
A queste cifre si
aggiungono i viaggi di andata e ritorno effettuati ma non dichiarati: in
totale, un centinaio di parlamentari sono così partiti per Israele con Elnet,
che è diventata di gran lunga la prima organizzazione a esercitare influenza
attraverso i viaggi dei parlamentari.
Tifosi nella
Macronia e tra le fila della LR
Alcuni parlamentari sono
persino diventati habitué di Elnet. Tra i macronisti, la deputata di
Renaissance des Français d'Israël, Caroline Yadan, ma anche la sua collega
dell'Hauts-de-Seine Constance Le Grip o ancora il ministro degli Affari europei
Benjamin Haddad hanno effettuato diversi viaggi di andata e ritorno. Ferventi
difensori del “diritto di Israele a difendersi” dal 7 ottobre, tutti
appartengono al gruppo di amicizia Francia-Israele e assumono una forma di
proselitismo filoisraeliano nelle file del campo presidenziale.
È anche il caso dell'ex
presidente del gruppo di amicizia Francia-Israele (dal 2019 al 2023), oggi
ministro delegato per la parità tra donne e uomini e la lotta contro le
discriminazioni, Aurore Bergé, che è stata una delle prime a beneficiare dei
viaggi Elnet. Nel luglio 2018, subito dopo il suo ingresso al Palais-Bourbon,
la giovane deputata degli Yvelines ha fatto parte di una delegazione Elnet di
trentuno parlamentari ricevuti per una discussione definita “costruttiva” con
Benjamin Netanyahu.
Da allora, colei che
giudica questa associazione “utile per combattere il flagello
dell'antisemitismo, tanto più in questo momento in cui sta riemergendo”, è
tornata almeno due volte con Elnet. L'ultimo viaggio risale al 7 ottobre 2024,
in occasione delle commemorazioni degli attacchi mortali di Hamas, insieme ai
colleghi Caroline Yadan e Sylvain Maillard. Dal luogo del massacro del festival
Nova, hanno colto l'occasione per difendere una posizione pienamente conforme a quella del Ministero degli Affari Esteri in merito alla fornitura di armi a Israele.
Sempre a destra, Elnet
trova diversi altri sostenitori, come il vicepresidente (UDI) del Senato Loïc
Hervé, Meyer Habib, “amico personale” di Netanyahu, ma anche i deputati LR
Michèle Tabarot, Roger Karoutchi, Karl Olive – oggi vicino a Emmanuel Macron –
o Pierre-Henri Dumont. L'ex presidente della commissione affari internazionali
dell'Assemblea – che ha perso il suo seggio nel 2024 – non ha mai esitato a
farsi ambasciatore dell'organizzazione: «È un onore far parte della delegazione
di Elnet», ha recentemente affermato in un messaggio calibrato, debitamente
diffuso sui social network dall'organizzazione.
Al contrario, molti
deputati non apprezzano le insistenti richieste di Elnet. Il deputato
macronista Ludovic Mendès riferisce di essere stato avvicinato dal CEO di
Elnet-France due anni fa, durante una cena del Crif (Consiglio rappresentativo
delle istituzioni ebraiche di Francia). Ma «non se ne parla di andare da
nessuna parte con un'organizzazione finanziata da chissà chi e che promuove una
linea religiosa o politica», assicura a Mediapart. Quando vado in Israele,
voglio poter andare dove voglio, anche dalla parte palestinese”. Anche un'ex
deputata vicina a Gabriel Attal racconta di aver rifiutato le proposte
dell'ONG: ‘Ho un'etica’, dice.
Tra le fila socialiste,
anche l'ex deputata Valérie Rabault e il deputato Jérôme Guedj, entrambi membri
del gruppo Francia-Israele all'Assemblea, hanno deciso di non rispondere alle
richieste di Elnet, per paura di potenziali «ingerenze». Il deputato Liot
(Libertà, indipendenti, oltremare e territori), ex vicepresidente del
Palais-Bourbon incaricato delle questioni deontologiche, David Habib, ha invece
deciso di giocare a carte scoperte: ha effettivamente partecipato a un viaggio
con Elnet, ma ha pagato tutte le spese di tasca propria.
Rimangono infine i
partecipanti che accettano i viaggi ma dicono di “non essere ingannati” sui suoi
obiettivi. “Elnet fa soft power e chiaramente non è lì per portare un messaggio
critico su Israele. Ma questi viaggi rimangono interessanti”, ritiene il
macronista Mounir Belhamiti, membro della commissione difesa dell'Assemblea
nazionale, che si è recato una volta in Israele al momento della legge di
programmazione militare, ma ha rifiutato di tornarci dopo il 7 ottobre.
Una posizione condivisa
dal suo collega Christophe Marion, che si è recato due volte in Israele con
Elnet: «È un po' come i viaggi in URSS negli anni '30, sorride, anche se
permette di comprendere meglio la complessa situazione nella regione. Non ho
problemi ad andarci, purché non mi venga chiesto di sostenere determinate
posizioni al mio ritorno». Tuttavia, il politico riconosce che probabilmente si
porrebbe più domande se l'organizzazione gli proponesse di tornarci oggi.
Il bersaglio dell'«estrema sinistra»
Definendosi un «think
tank per il dialogo strategico tra Francia e Israele», Elnet assicura di
limitarsi a promuovere «la democrazia, la libertà, la giustizia e la pace» in
modo «indipendente» e «apolitico».
Arié Bensemhoun,
presidente di Elnet-France, non parla però d'altro che di politica. Sia su
Radio J, dove tiene una rubrica regolare, sia su CNews, è ben lungi dall'avere
una visione « apolitica » del conflitto in Medio Oriente.
Così, all'indomani della
decisione dei giudici della Corte penale internazionale (CPI) di emettere un
mandato di arresto internazionale contro il primo ministro israeliano, ha
scritto su X: «Le accuse mosse [...] non si basano su nulla, nessuna prova,
se non le false affermazioni delle ONG al soldo degli islamisti e dei
terroristi di Hamas e dell'Autorità palestinese [...]. Come un tempo davanti ai
nazisti, le nazioni si sono piegate davanti agli islamisti che vogliono
distruggere le nostre società libere e democratiche».
A metà settembre, mentre
l'Unicef contava più di 43.000 morti, tra cui oltre 14.100 bambini nella
Striscia di Gaza, Arié Bensemhoun spiegava anche su Radio J che «i civili
palestinesi che ci vengono presentati come innocenti non sono tutti innocenti.
Nessuno può immaginare che i nazisti abbiano potuto fare tutto ciò che hanno
fatto senza che tutto o parte del popolo fosse complice. È la stessa cosa per i
palestinesi di Gaza», affermava colui che da un anno denuncia «le ONG vendute
ad Hamas».
In Francia, attacca
anche gli «islamisti», gli «estremisti di sinistra» e altri «wokisti».
«L'estrema sinistra» rimane infatti il bersaglio privilegiato dell'ex
presidente dell'Unione degli studenti ebrei di Francia (UEJF) di Tolosa (Alta
Garonna), a cominciare da La France insoumise (LFI) e dalla sua «ossessione
antiebraica» che Arié Bensemhoun critica aspramente nei suoi editoriali.
Qualche giorno fa è stato Dominique de Villepin a farne le spese, come
testimonia questo testo pubblicato sul sito di Elnet, dopo le dichiarazioni
dell'ex primo ministro.
Il 16 ottobre, il
direttore di Elnet-France si è anche permesso di inviare una lettera aperta
alla presidente dell'Assemblea nazionale per chiedere «solennemente» a Yaël
Braun-Pivet di «pronunciare sanzioni disciplinari» nei confronti del
vicepresidente del Gruppo di amicizia Francia-Israele, Aymeric Caron.
Secondo lui, l'Insoumis
avrebbe “un ruolo cinico e preponderante nella legittimazione dell'odio verso
gli ebrei nel nostro Paese” per aver diffuso video “non verificati” dei
massacri a Gaza o aver paragonato l'esercito israeliano al “mostro nazista”.
Secondo le nostre informazioni, Yaël Braun-Pivet ha respinto la richiesta del
leader di Elnet. Il suo entourage ha tuttavia rifiutato di farci leggere la
lettera.
Parigi, 18-19 maggio 2025, un appuntamento da non perdere
Dopo aver indagato sulle origini algerine del
presidente del Raggruppamento Nazionale, Jeune Afrique ha seguito le orme del
nonno paterno, a Casablanca. Rivelazioni esclusive.
Se il presidente del Raggruppamento Nazionale, Jordan Bardella, non si è mai trattenuto dal sottolineare le sue origini italiane, soprattutto per illustrare il modello di assimilazione che difende politicamente, ha sempre ignorato i legami della sua famiglia con il Maghreb.
Permesso di residenza
Innanzitutto quelli del bisnonno Mohand Séghir
Mada, un operaio immigrato algerino arrivato dalla Cabilia in Francia negli
anni ‘30 [leggi qui]. Ma anche quelle del nonno paterno,
Guerrino Bardella. Si sposò dapprima con Réjane Mada, del ramo algerino della
famiglia, e la coppia diede alla luce, nel 1968, Olivier Bardella, padre del
potenziale futuro primo ministro francese [questo articolo è stato
pubblicato prima del primo turno elettorale, NdT]. Successivamente la
coppia divorziò e Guerrino si stabilì in Marocco, dove sposò la sua seconda
moglie, una donna marocchina, di nome Hakima.
Sebbene non si conosca la data esatta del
matrimonio, il minimo che si possa dire è che risale a diversi anni fa: l’ultimo
permesso di soggiorno in Marocco di Guerrino Italo Bardella, ottenuto per
“ricongiungimento familiare”, secondo le informazioni di cui dispone Jeune
Afrique, è stato rilasciato nel 2016 per un periodo di dieci anni.
Ciò significa che non si trattava del suo primo
permesso di soggiorno in Marocco, ma di un rinnovo.
Conversione all’Islam
Con la nuova moglie, questo pensionato, ottantenne
dal 1° aprile 2024, vive felicemente a Casablanca, nel quartiere di Bourgogne.
Il matrimonio con Hakima implica la sua conversione all’Islam, secondo la legge
in vigore in Marocco, che prevede che un cittadino non possa sposare uno
straniero di fede non musulmana se prima non si è ufficialmente convertito
davanti a un adul (autorità giuridica religiosa) e a diversi testimoni.
Guerrino Bardella è noto come falegname ed
ebanista, lavora negli ambienti degli espatriati e della borghesia marocchina
ed è registrato nel Regno come cittadino italiano. Come molti dei suoi
connazionali che vivono nella capitale economica del Marocco, da tempo
frequenta il ristorante del Circolo italiano “Chez Massimo” in boulevard Bir
Anzarane nel quartiere del Maarif.
Un futuro migliore
Nato nel 1944 ad Alvito, in provincia di Frosinone,
nel Lazio, in una famiglia di quattro figli - ha una sorella, Giovanna, e due
fratelli: Honoré Roger e Silvio Ascenzo, tutti e tre deceduti - il figlio di un
muratore arriva a Montreuil, in Francia, nel 1960, in cerca di un futuro
migliore. Nel 1963 sposò Réjane Mada, figlia di Mohand Séghir Mada.
Poco si sa del rapporto di Jordan Bardella con il
nonno, che si era convertito all’Islam e si era stabilito in Marocco. Ancora
meno si sa del suo rapporto con le origini algerine, che il Presidente del RN
non ha mai menzionato pubblicamente.
L’apparente stabilità istituzionale dell’Italia nasconde oggi una realtà
sociale complessa. Anche la sua narrativa politica è in discussione.
A soli 28 anni, nel 2018 Michele Sodano è stato eletto
Deputato Nazionale per la circoscrizione di Agrigento, Sicilia. Ha fatto parte
del Movimento 5 Stelle, organizzazione che in quegli anni è diventata un
fenomeno nazionale di particolare interesse per l’incredibile capacità di
coinvolgere la popolazione, nonché per la forte differenziazione delle
posizioni interne. Sodano ha concluso il suo mandato nell'ottobre 2022, non più
come rappresentante del M5S. A causa di divergenze con la leadership legate all’elezione
di Mario Draghi a Premier, nel febbraio 2021 è stato espulso dal suo partito
insieme a una ventina di suoi colleghi parlamentari. Nonostante la sua giovane
età, Sodano ha accumulato un ampio curriculum professionale. Laureato in
Economia presso l'Università Bocconi e specializzato presso l'Università di
Copenaghen, ha lavorato con il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite e in
diverse aziende private. Attualmente dirige Immagina Aps,
associazione/coworking, luogo di riferimento per incontri culturali,
progettazione e solidarietà, che può contare su una struttura situata nel cuore
di Agrigento. Ecco l’intervista esclusiva a questo giovane intellettuale
impegnato, convinto pacifista e riferimento “apartitico” per i gruppi cittadini
della sua città.
D: Come lo presento?
Michele Sodano (MS): Domanda
difficile. Normalmente, nella nostra cultura, ci presentiamo tutti con ciò che
facciamo. Nel mio caso, in questo momento della mia vita, sto dando la priorità
a quelle che ritengo attività per la mia comunità; inoltre apprezzo e valorizzo
al massimo il tempo che posso dedicare a me stesso, cosa che fino ad ora non ho
mai potuto fare. Mi sento molto fortunato se penso di potere rifiutare il
modello imperante della società contemporanea che ci vuole tutti impegnati a
vivere principalmente per il lavoro in azienda e finire così prigionieri di una
logica consumistica che può essere paragonata ad un grande carcere di lusso.
D: Vuole dire che la sua priorità
oggi è quasi esistenziale?
MS: Totalmente. Percepisco intorno a me tante persone
depresse, tristi; questo avviene perché nella maggior parte delle volte, non
sappiamo più nemmeno per cosa si è in vita. I modelli di successo che ci
vengono proposti sono molto lineari: produrre per un’azienda attraverso il
sacrificio del nostro tempo, andare in pensione e poi vivere in libertà forse
solo gli ultimi anni della nostra esistenza. Ma adesso sempre più esseri umani
cominciano ad intuire che la loro vita non debba ruotare interamente intorno ai
concetti di lavoro e reddito. La vita, nel suo miracolo, deve essere molto più
di questo. Io l’ho imparato quando ho dovuto affrontare una pesante malattia
all’età di 17 anni. È stato un momento di totale cambiamento per me. Attenzione
non sto in alcun modo demonizzando il concetto di lavoro, credo però che questo
debba corrispondere a un vero contributo, calibrato sulla nostra natura, le
nostre più intime aspirazioni e le nostre capacità, al mondo che ci circonda e
agli esseri umani che lo popolano.
Politica tradizionale in crisi
D: Una riflessione
sorprendente perché espressa dopo quattro anni vissuti in maniera frenetica, da
un Deputato Nazionale che ha vissuto a Roma, che ha preso decine di voli tra la
capitale italiana e Agrigento, la sua città…
MS: È stata un'esperienza ricca, per niente negativa che
non rinnego affatto. Mi ha permesso di comprendere meglio l’essenza di molte
cose. Non voglio essere arrogante, ma penso che adesso ho maggiore lucidità per
interpretare certe situazioni e fenomeni. In particolare, comprendere
nell’interezza del fenomeno l’enorme vuoto della politica. Ritengo, e forse ciò
che dico può sembrare provocatorio, che oggi, almeno in Italia, la differenza
tra destra e sinistra sia per lo più una questione di narrativa, non di
sostanza o di contenuto essenziale. Siamo bombardati costantemente da una
narrazione come un episodio diuna serie
Netflix, siamo molto lontani da qualsiasi contenuto sostanziale. Ciò è stato
particolarmente evidente dopo gli anni del governo Berlusconi, un ventennio che
ha ridotto quasi a zero gli strumenti di analisi sociale e che ha trasformato
la dimensione politica a quella dello spettacolo. Tutto ciò ha portato la
maggior parte della popolazione a non percepire nemmeno che oggi la politica
tutta, e il Parlamento in particolare, si è svuotata di ogni potere reale,
nessuna capacità di rappresentare il proprio popolo.
D: È un'affermazione molto
dura. Allora chi ha il potere oggi in Italia?
MS: La grande finanza, come in tutta Europa, dove domina
questo capitalismo neoliberista dominante. Ma l’Italia, in particolare, non ha
più difese immunitarie contro questo sistema. Ha una tradizione e una storia
straordinaria che ci inducono a pensare di vivere in un buon Paese. Ma in
realtà qui multinazionali e capitale finanziario possono fare quello che
vogliono, governare come vogliono e porsi all’apice di ogni processo
decisionale. Io ho avuto la possibilità di appurarlo per vie dirette, da Deputato
della Repubblica. La differenza tra Giorgia Meloni, oggi al governo, il Pd (ex
Partito Comunista) e il Movimento 5 Stelle è principalmente di narrativa.
Infatti quello che la Meloni sta mettendo in pratica oggi, in 18 mesi di
governo, non è dissimile da quanto hanno fatto, nel periodo precedente,
Giuseppe Conte o Mario Draghi (ultimi due premier prima della Meloni). Sono
stati proprio loro a spalancare le porte a tutte le principali privatizzazioni,
come quelle nel settore sanitario e delle società pubbliche, che oggi
continuano ad amplificarsi.
Un discorso per vincere la battaglia culturale
D: Secondo la sua analisi, non
sembra poi così drammatico che attualmente l'Italia sia governata da un leader
le cui origini affondano nella militanza neofascista…
MS: Non voglio negare che sia drammatico, perché la
Meloni e la destra, in più rispetto al “campo progressista”, avanzano proposte
ideologiche negative per lo sviluppo della coscienza umana. La loro xenofobia,
l’esasperazione del concetto di patriottismo, la paura dell'altro, la rabbia
verso chi è diverso, dal punto di vista ideologico e sociale creano danni
enormi e sono molto pericolose.
D: Pensa che questi impulsi,
messaggi e concetti siano irreversibili?
MS: Non posso valutare il livello di reversibilità o
irreversibilità degli argomenti imposti dall'estrema destra. La storia è fatta
di tesi, antitesi e sintesi. Non posso dire se, dopo tutti questi abominevoli
contenuti ideologici propagandati direttamente dalla politica governativa, si
raggiungerà una nuova fase di coscienza. Quello che vedo è un tremendo
smantellamento, molto accelerato, di tutto ciò che è “critical thinking” e
conoscenza nel senso più ampio del termine. Un disinvestimento concreto nella cultura,
nell’istruzione, che incide direttamente sulle consapevolezze più radicate dei
cittadini. Oggi, per esempio, molte persone reputano che il problema principale
di questo Paese profondamente indebolito per mano delle banche e delle mafie,
sia la presenza degli immigrati e il messaggio “immigrati o rifugiati che
vengono solo per rubare e farsi gli
affari propri” diventa dilagante, specie nelle fasce meno scolarizzate.
Tuttavia, per fortuna, resiste ancora una nicchia consapevole e solidale;
minoritaria, troppo piccola per incidere e incapace di organizzarsi. E così, di
fronte a una povertà dilagante, molti italiani diventano conservatori e si
appropriano acriticamente di argomentazioni bocciate dalla storia.
“Il campo progressista italiano le ha spianato la strada”
D: Ha avuto paura quando ha
vinto Fratelli d'Italia, il partito della Meloni, nel 2022?
MS: Preoccupazione e soprattutto una sensazione molto
strana: se la Meloni è qui è perché il campo progressista italiano le ha
spianato la strada.
D: Le chiedo ancora, per capire
bene: secondo la sua riflessione, l'attuale Governo, più che profondi
cambiamenti di programma, promuove un cambiamento ideologico e di narrazione
politica?
MS: Penso di sì. Ad esempio, i primi provvedimenti
approvati sono misureridicole, decreti
per opporsi ai “rave party” o per rendere illegale la carne sintetica, o ancora
circolari per vietare l’uso di parole inglesi. E così la politica trascina
tutta l’opinione pubblica e sposta il dibattito popolare su questioni non
essenziali. Ma allo stesso tempo, devo anche dire che si porta il Paese nel
passato, si condonano i grandi imprenditori con enormi evasioni fiscali, si
permette alle multinazionali di avere carta bianca su tutto. Hanno anche
cancellato il Reddito di Cittadinanza, che era un importantissimo sussidio di
700 euro per ogni famiglia sotto la soglia di povertà, una delle nostre grandi
conquiste quando governava il Movimento 5 Stelle. È terribile, perché con
l’enorme propaganda mediatica e sui social la Meloni e i suoi stanno radicando
la percezione che questo strumento di redistribuzione della ricchezza era
ingiusto e che “la gente deve lavorare”, non
importa se perfino senza diritti o sotto sfruttamento. Come se il problema non fosse la povertà strutturale di una parte
significativa della popolazione e l’incapacità a inserirsi nel mercato del
lavoro, ma la mancanza di volontà di lavorare. Esasperano tutto e approfittano
della disperazione della gente. Ecco perché insisto nel parlare del grande
problema della narrativa dei gruppi politici dominanti, ma probabilmente anche
Draghi e il Pd avrebbero, prima o poi, cancellato il Reddito di Cittadinanza.
D: Narrazione di destra e
smantellamento delle conquiste sociali…
MS: Senza dubbio. Quando nel 2018 il nostro movimento ha
raggiunto tale forza ed è salito al potere, abbiamo sentito che la giustizia
aveva trionfato. Ho vissuto in Danimarca, dove ero già attivo con il M5S. Ho
lasciato il mio lavoro lì per tornare in Sicilia e partecipare alla campagna
elettorale regionale. Dopo sei mesi e a soli 28 anni, con una candidatura del
tutto inaspettata e con il profilo di un giovane dalla parlata decisa e forte,
sono stato eletto Deputato con il sostegno di oltre il 50% dell'elettorato
della mia città. Molti italiani hanno vissuto tutto questo come una
straordinaria rivoluzione. Siamo stati in grado di legiferare e portare a
termini progressi impressionanti, come i sussidi per i più bisognosi, o
l’obbligo di avere contratti di lavoro stabili e sicuri dopo due anni di lavoro
nella stessa azienda. Siamo riusciti ad abolire la pubblicità del gioco
d’azzardo in un Paese in cui il gioco d’azzardo era sempre più una piaga e
continuava ad aumentare a causa della disperazione economica di molte persone.
Ma le concessioni alla destra di Salvini con cui era partito il primo Governo
sono iniziate rapidamente e ogni giorno perdevamo sempre più terreno. La stessa
classe dirigente del Movimento 5 Stelle ha, a poco a poco, preso gusto e si è
affezionata al potere, con la capacità di accettare compromessi sempre più a
ribasso.
Svanisce una grande illusione
D: Questo ha causato la crisi
interna al Movimento 5 Stelle?
MS: Esatto. Un gruppo di noi, che nel 2021 non ha
sostenuto la nomina di Mario Draghi a primo ministro, è stato espulso dal
Movimento e ha formato un gruppo parlamentare indipendente. Draghi, a nostro
avviso, rappresentava l’élite europea neoliberista e globalizzante. Un uomo
della Goldman Sachs, era stato direttore esecutivo della Banca Mondiale e poi,
per otto anni, presidente della Banca Centrale Europea. Dietro Draghi si sono
riuniti nuovamente la destra di Salvini e di Berlusconi, ma allo stesso tempo anche
il Partito Democratico e il M5S. La sua nomina era qualcosa che la nostra
decenza politica non poteva più accettare.
D: Un momento molto difficile
nella sua carriera politica?
MS: L'espulsione del M5S ha rappresentato un evento molto
amaro nella mia vita. Ma non potevo fidarmi di quel Governo che, come poi gli
eventi hanno dimostrato, non avrebbe apportato alcun beneficio al nostro
popolo. È stato triste perché ha rappresentato a mio parere la rottura
definitiva di un processo partecipativo, quello del Movimento 5 Stelle, che non
aveva eguali. Allo stesso tempo ritengo che la mia espulsione dal partito sia
una sorta di medaglia al valore se la guardo dal punto di vista della mia etica.
È stata una decisione di principio che ho preso sapendo che non avrebbe portato
alcun beneficio personale. Ho fatto ciò che era giusto, non la cosa più
conveniente per me ed è per questo che la considero un grande grido di libertà.
Da subito, con gli altri colleghi con cui abbiamo creato il gruppo
indipendente, abbiamo aperto una nuova fase della nostra vita parlamentare.
Abbiamo presentato progetti di legge in totale autonomia e, per la prima volta,
ho esposto nei miei interventi parlamentari i miei valori più radicali e le mie
convinzioni, senza dover leggere un documento scritto da qualcun altro. Devo
confessarti che è stata un'esperienza di cui sono molto orgoglioso. Altri
colleghi, amici e colleghi Parlamentari del nostro movimento hanno continuato
con la linea ufficiale. Provo per loro una specie di compassione, perché
dev'essere molto difficile sentirsi bene, e a posto con la propria coscienza,
dopo aver venduto l'anima al diavolo e tradito la volontà di milioni di
elettori che ci avevano dato un preciso mandato: sovvertire il sistema.
La crisi di un’Europa con la guerra dentro
D: Quando è scoppiata la
guerra in Ucraina, il vostro gruppo di M5S espulsi ha preso le distanze da ogni
sostegno militare all'Ucraina e al conflitto in generale…
MS: Infatti. Questa guerra distorce qualsiasi ruolo
strategico che l’Europa doveva svolgere. Come Unione Europea, siamo semplici
venditori di armi quando avremmo dovuto alzare una voce forte e alternativa a
favore della pace. Ritengo che oggi l'Europa, come concezione di un progetto
originale nella costruzione di un continente egualitario e giusto, sia molto
indebolita.
D: Per finire: la vostra
organizzazione IMMAGINA ha appena aperto le sue porte per presentare Grand Hotel Coronda, un libro sui prigionieri politici nel carcere argentino di Coronda
durante la dittatura militare. E in quella stessa sala si tengono le riunioni
periodiche dei diversi gruppi e forze che difendono la pace in Palestina…
MS: Per noi IMMAGINA è uno spazio aperto, in costruzione,
umano e profondamente solidale. L'obiettivo principale che perseguiamo è dare
un piccolo senso di eternità a questo momento che viviamo qui oggi. Non è un
progetto finito o chiuso. Le porte dei nostri locali sono aperte. Uno degli
obiettivi fondamentali per cui abbiamo dato vita a Immagina, è riappropriarci
della nostra esistenza. Questo implica due concetti principali: creare una
comunità solidale e intellettualmente speculativa e contribuire alla costruzione
della felicità collettiva. Con le nostre azioni cerchiamo di avanzare proposte
e parlare di umanità, senza mai dimenticare gli aspetti caratterizzanti del
nostro territorio. Con grande umiltà, passo dopo passo e con gioia, senza mai
lasciarci prendere dallo sconforto.E in questo quadro la solidarietà per noi è
un concetto fondante. Combattere tutto ciò che impoverisce oggi la nostra
società planetaria: frontiere, guerre a vantaggio di pochissimi, divisioni tra
le aree del mondo. Siamo solo esseri umani dello stesso meraviglioso universo e
dobbiamo preservarci a vicenda, non combatterci, prenderci cura, insieme, del
nostro pianeta.
Bakhita, affresco di Rosk & Loste, La Kalsa, Palermo. Foto Sergio Ferrari.
Stimati associati, compagni e amici dell’Associazione
nazionale partigiani d’Italia, ANPI,
In questi giorni di significativi anniversari—l’ottantesimo
dell’8 settembre 1943, che segnò l’inizio simbolico della Rivoluzione partigiana
in Italia e della liberazione del Dombass dall’occupazione nazifascista—è con
profondo sgomento che sono venuto a conoscenza del tacito sostegno da parte
dell’ANPI della Provincia di Milano a una mostra dal titolo "Occhi di
Mariopoli – Uno sguardo negli occhi dei difensori di Mariopoli".[1] Questa esposizione, allestita in Via Dante e nel
Museo del Risorgimento, è patrocinata dal Comune di Milano e dalla Zona 1 e
riguarda il battaglione Azov, noto per le sue posizioni nazifasciste,
antisemite e ultranazionaliste.[2] È stato organizzato e promosso con l’aiuto delle
associazioni Azov One e dalla Kvyatkovskyy Family Foundation, entrambe
affiliate al suddetto battaglione, come parte della loro campagna per
"ripulire" la reputazione di questa unità controversa.
Nella mostra oggetto di discussione, è stato fatto
un tentativo deliberato di nascondere il logo del Battaglione, che era invece
visibile nell’edizione della mostra presentata a Leopoli. Questo atto
consapevole da parte degli organizzatori evidenzia ulteriormente la
problematicità della mostra. Come ha chiaramente espresso l’ANPI di Porta
Genova (Milano), le immagini esposte mettono in primo piano le forze militari
anziché documentare le sofferenze delle popolazioni oppresse dalla guerra.
Inoltre, queste immagini fanno uso di simbolismi che evocano regimi e periodi
storici oscuri.
È fondamentale evidenziare che il battaglione Azov
trae le sue radici dalle milizie neofasciste affiliate a Pravy Sektor [Settore destro], che sono state
successivamente incorporate legalmente nelle forze armate ucraine.[3] Il simbolo che identifica questo battaglione è l’amo
per lupi, un emblema che fu inizialmente associato al Partito Nazista prima
della sua adozione della svastica. Tale simbolo è stato successivamente
incorporato nell’insieme di simboli runici utilizzati dalle S.S. ed è stato
anche adottato da otto divisioni della Wehrmacht, inclusa la 2ª Divisione
Panzer S.S. "Das Reich". Va notato che anche il Partito Social
Nazionalista Ucraino - Svoboda ha fatto uso di questo simbolo
distintivo.[4]
L’immagine emblema della mostra, una fotografia in
bianco e nero, è un ritratto di Denys Prokopenko, un comandante del battaglione
Azov noto per le sue ideologie suprematiste bianche.[5] Prokopenko ha intrapreso la sua carriera militare
inizialmente nel "Club dei ragazzi bianchi", un gruppo ultras
neonazista, per poi unirsi alla divisione Borodach. Quest’ultima è distintiva
per l’utilizzo del simbolo nazista del "Testa di morto" e tibia
incrociate. Prokopenko rappresenta solo uno dei tanti membri controversi di
questa unità paramilitare, i cui seguaci sfoggiano tatuaggi che fanno
riferimento a simbologie razziste, suprematiste, omofobe, antisemite e
nazifasciste.[6]
Il battaglione Azov è stato coinvolto in atti
spaventosi di crudeltà e illegalità, inclusi stermini, deportazioni e la
soppressione completa di libertà e dignità umana. Hanno persino praticato
crocifissioni e morti sul rogo.[7] Contrariamente alla narrativa veicolata dalla
mostra in questione, i membri del battaglione Azov non sono dunque eroi ma
piuttosto assassini crudeli e vigliacchi. La loro prigione segreta, conosciuta
come "La Biblioteca" era situata nell’aeroporto di Mariopoli sotto la
gestione dell’SBU, un luogo di tortura e assassinio per miliziani delle
repubbliche popolari del Donbas, comunisti, antifascisti e antimaidanisti.[8] Un luogo che evocava tristi somiglianze con lo
Stadio nazionale di Santiago del Cile.[9] In un contesto simile, sarebbe stato accettabile
ospitare una mostra su Pinochet e i suoi esecutori in Via Dante o al Museo del
Risorgimento nel 1973? Per illustrare l’ampio disagio suscitato e le contraddizioni
esplose con questa mostra, va notato che il quotidiano La Stampa di Torino ha
modificato in modo significativo il titolo di un suo articolo a essa relativo.
Il titolo originale, "[…] la mostra in centro sui neonazisti del
Battaglione Azov," è stato successivamente cambiato in "[…] la mostra
sulla resistenza ucraina a Mariupol," smorzando così il carattere
controverso dell’evento.[10]
L’esposizione ha suscitato un diffuso dissenso da
diverse componenti sociali, tra cui il pubblico generale, gruppi associativi e
formazioni politiche. Un numero significativo di persone ha inviato email di
protesta all’ente comunale, e nei giorni più recenti sono state pianificate
manifestazioni a cui hanno partecipato centinaia di individui, tutte con l’obiettivo
di esprimere opposizione all’esibizione e richiederne la chiusura.
Una battuta
circolava qualche anno fa nei bar di Tel Aviv: “Un ebreo israeliano ottimista
impara l'arabo, un ebreo israeliano pessimista impara l'inglese, un ebreo
israeliano realista impara a nuotare”. Sembra che quello che i Palestinesi o
gli arabi non sono riusciti a fare (semmai ne abbiano avuto davvero
l'intenzione), Netanyahu e i suoi accoliti di governo lo stanno provocando:
un'ondata di fuggi fuggi si è scatenata fra gli ebrei israeliani. Infatti,
centinaia e migliaia di israeliani di varie condizioni socioeconomiche e di
ogni età stanno dandosi da fare per trovare un'alternativa di vita allo Stato
ebraico. Ed è in questo modo che è nato un nuovo business, che si potrebbe
chiamare relocation industry (industria del trasferimento). L'articolo
di Hilo Glazer racconta del Progetto Baita, lanciato in provincia di Vercelli,
nella Valsesia, e di altri progetti, fra i quali ambiziosi progetti di
creazione di "città israeliane" in Europa, da Cipro e Grecia al
Portogallo, ed altrove. Uno di loro parla addirittura di creare una “comunità
di insediamento”, che ricorda i cosiddetti insediamenti (colonie) in
Cisgiordania. Possiamo legittimamente chiederci se questi progetti possano
costituire un superamento definitivo del sionismo e del tribalismo, oppure se
creeranno semplicemente “piccoli Israele” sparsi come coriandoli per il mondo.-FG
Sulla scia del golpe giudiziario [la riforma progettata dal governo Netanyahu], le discussioni israeliane sul trasferimento all’estero non si fermano più ai gruppi sui social media. In una valle lussureggiante dell’Italia nord-occidentale, le idee di emigrazione collettiva si stanno attuando sul campo e iniziative simili stanno prendendo forma anche altrove.
“Mentre il numero di ore di luce nella democrazia del loro Paese continua a
diminuire, sempre più israeliani arrivano nella valle montana alla ricerca di
un nuovo inizio. Tra loro ci sono giovani con neonati nel marsupio, altri con
bambini in età scolare, e ci sono persone brizzolate o pelate come me. Un
insegnante, un imprenditore tecnologico, uno psicologo, un toelettatore di
cani, un allenatore di basket. Alcuni dicono che stanno solo esplorando, si
vergognano ancora di ammettere che stanno prendendo seriamente in
considerazione l’opzione. Altri sembrano intenzionati e motivati: si informano
su come ottenere il permesso di soggiorno, su quanto costa una casa, su come
aprire un conto bancario e trasferire i fondi previdenziali finché è ancora
possibile. Alla base di tutto questo c’è uno strato di dolore, il dolore dei
bravi israeliani che credevano di potersi riposare sugli allori dopo 2.000
anni, ma che ora stanno riprendendo in mano il bastone del viandante”.
L’autore è Lavi Segal, la zona montuosa che descrive si trova nella
Valsesia, nella regione Piemonte dell’Italia nord-occidentale, ai piedi delle
Alpi. Segal, proprietario di un’azienda turistica della Galilea, condivide le
sue esperienze con i membri di un gruppo Facebook chiamato Baita, che offre informazioni
agli israeliani che cercano di immigrare e creare una propria comunità in
Valsesia, molti dei cui abitanti originari sono partiti negli ultimi decenni.
Il nome del gruppo è un amalgama di Bait (che in ebraico significa “casa”) e
Ita - abbreviazione di Italia. Baita in italiano si traduce anche come “capanna
in montagna”. E non si tratta di montagne qualsiasi: la Valsesia è conosciuta
come “la valle più verde d’Italia”. Segal afferma che quello che sta
presentando è un caso di pubblicità veritiera.
“Con tutto il rispetto per i discorsi sulla ‘bella Terra d’Israele’”, dice
ad Haaretz in un’intervista telefonica, “Israele è forse bella se
paragonata alla Siria o all’Arabia Saudita [sic] [ma] l’Europa e le Alpi sono
un altro mondo. Il paesaggio è mozzafiato, il clima è meraviglioso e tutti i
noti problemi di Israele - guerre, sporcizia, sovraffollamento, costo della
vita - semplicemente non esistono qui”.
Segal vive in Valsesia da due mesi con la moglie Nirit, entrambi
sessantenni. “Stiamo facendo un viaggio di familiarizzazione e di esplorazione”,
spiega. “Abbiamo affittato una casa qui e ogni tanto parliamo con le agenzie
immobiliari della possibilità di acquistarne una. Al momento non stiamo
parlando di uno sradicamento definitivo, anche se potrebbe accadere se la vita
in Israele diventasse intollerabile. Per il momento stiamo cercando un posto in
cui possiamo dividere il nostro tempo tra Israele e l’estero. Israele ci è
molto caro: Quando siamo lì partecipiamo attivamente alle manifestazioni” contro i piani del governo per la revisione del sistema giudiziario.
Nirit, che organizza ritiri artistici, ha due idee: “Questo posto è un
sogno quando si tratta di creare arte, ma sono molto legata a Israele e, come
molte persone del mio ambiente, lo sento soprattutto oggi. Sono preoccupata per
le implicazioni dell’ondata migratoria sul movimento di protesta”.