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30/10/2023

“Quello che sta facendo Hamas è copiare il sistema vietnamita”
Un’intervista a Ilich Ramírez Sánchez, alias Comandante Carlos, del 2009

Fausto Giudice, Basta!Yekfi, 5 gennaio 2009
Tradotto da Giulietta Masinova, Tlaxcala

 


 

Dal carcere di massima sicurezza di Poissy, nell’Île de France, dove sta scontando il quattordicesimo anno di ergastolo cui è stato condannato dalla giustizia francese dopo essere stato rapito dai servizi francesi nel Sudan nel 1994, Carlos, combattente attivo della resistenza palestinese per oltre due decenni, segue con attenzione l’evoluzione della situazione a Gaza. Ho avuto modo di intervistarlo il 1° gennaio, cioè due giorni prima dell’inizio dell’offensiva terrestre israeliana. Per me Carlos è un personaggio storico, e non spetta a me giudicarlo: lo ha già fatto la giustizia francese, con metodi a dir poco discutibili. -FG

Ben scavato, vecchia talpa!
William Shakespeare, Amleto, citato da Karl Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte


Sai che Ahmed Saadat è stato condannato a trent’anni di carcere?
Sì.

Qual è stata la tua prima reazione?

È stato un abuso di potere. Come prima cosa è il risultato della situazione in cui si è messo il Fronte popolare di liberazione della Palestina abbandonando la lotta armata internazionale. Ahmed Saadat fa parte della resistenza interna, non lo conosco, ma da quello che ho sentito dire è una persona magnifica, e soprattutto un rivoluzionario, così mi hanno detto, ed è per questo che la repressione contro di lui è stata così dura, mentre altri membri del FPLP sono tranquilli, viaggiano, fanno quello che vogliono, e vivono in Palestina, no? Quindi dev’esserci una buona ragione. In ogni caso questo signore si trovava lì, in primo luogo era stato Arafat a imprigionarlo e in secondo luogo era sorvegliato dai britannici e dagli americani. Quando questi si sono ritirati sono arrivati gli israeliani che l’hanno arrestato nella prigione palestinese di Gerico in cui si trovava. Insomma, una totale mancanza di rispetto della parola data da parte dei governi britannico ed usamericano, e dagli israeliani non ci si può aspettare una qualsiasi forma di rispetto, non possiedono il senso dell’onore né della parola data, sono criminali fascisti.

La mia prima reazione è stata fare un parallelismo con il tuo caso.

Sì, ci sono aspetti simili. Ma è diverso, nel mio caso è stata semplicemente una questione di soldi, si sono rivolti a un Capo di Stato, a un funzionario di quel Paese [il Sudan, NdR], e gli hanno dato dei soldi, non è stata una questione politica, solo di soldi. Ci hanno venduti tutti, me, Osama bin Laden.

XXX Ahmed Saadat, durante il processo davanti al tribunale militare israeliano di Ofer nel dicembre 2008. È stato rieletto segretario generale del PFLP nel 2022.

E non pensi che sia successa la stessa cosa con la Muqata’a [il quartier generale di Arafat a Ramallah, NdT]?

No, no, no. I piccoli accordi che stringono non vengono mai rispettati. Quella gente capisce solo il linguaggio della forza, e basta. E il Fronte popolare si è obiettivamente ritirato dalla lotta armata, sotto l’influenza dei compagni sovietici e su consiglio del Partito comunista francese – anche di altri partiti comunisti ma soprattutto del PCF – ha abbandonato la lotta internazionale. E la lotta internazionale era la sola ad avere importanza per un’organizzazione come il FPLP, che godeva di un grande sostegno di massa: non aveva le capacità che aveva per esempio Fatah, in termini numerici, ma in termini qualitativi sì, ce l’aveva.

Potevamo quindi colpire duramente, all’interno e all’esterno, e quindi… Ne parlavo con Arafat anni fa, e lui ha riconosciuto che non poteva fare più nulla all’interno e gli unici che potevano fare qualcosa erano il FPLP e i suoi alleati. [La cattura di Ahmed Saadat] è stata il risultato di una buona operazione, l’esecuzione di quel criminale che era il ministro del Turismo, un generale in pensione che aveva fatto uccidere dei compagni. Adesso ti dico perché l’hanno giustiziato: molti anni fa questi compagni avevano preso degli ostaggi su un autobus e poi si erano arresi, ed erano stati giustiziati per ordine diretto di quel generale. Aveva dato lui l’ordine di uccidere quei ragazzi. Ecco perché è stato giustiziato a Gerusalemme vent’anni dopo. È successo molto tempo fa. 

Ahmed Jibril (1938-2021)

Ti ricordo che il FPLP è stato il primo a dare il via alla lotta armata, nessun altro. La prima operazione armata in nome della resistenza palestinese è stata condotta da Ahmed Jibril, del Comando generale del FPLP. Sono stati loro i primi, sotto un altro nome, ben prima di Fatah. E c’è un’altra cosa: la politica di abbandono dei prigionieri. Il FPLP non ha solo abbandonato la lotta armata, ha anche abbandonato i prigionieri, rinunciando a liberarli con la forza. È stato il FPLP-CG di Ahmed Jibril a scambiare ostaggi con prigionieri, e in questo modo ha potuto liberare migliaia di persone. Ora Hezbollah segue la stessa linea. Ma purtroppo il FPLP, per essere invitato ai congressi dei partiti comunisti in Europa occidentale, in epoca sovietica, ha abbandonato la lotta armata.

Quindi adesso possono permettersi di colpire il Fronte popolare, di commettere azioni illegali contro Ahmed Saadat e nessuno fa niente contro gli israeliani. I principali responsabili sono gli stessi dirigenti del FPLP.

Wadi Haddad (1927-1978)

Spiegami una cosa: hanno abbandonato la lotta armata a causa della scomparsa dell’URSS?

No, no, no, no. È successo prima. C’era Ponomarëv, che dava sempre consigli soprattutto a Abu Ali Mustafa.  Abu Ali Mustafa era una persona magnifica, un dirigente – io l’ho conosciuto bene – un uomo rispettabile, ma non aveva la profondità di Wadi Haddad, che era un uomo di grande genio strategico e aveva una grande abilità nelle situazioni tattiche, sapeva proiettarsi. Avevamo buoni consiglieri arabi, io ne ho conosciuti  – non parlerò di loro, perché alcuni sono ancora vivi –, non erano necessariamente palestinesi, c’erano militari di carriera, brave persone, e c’erano uomini di grande qualità che gestivano i commando, tra i quali c’ero anch’io. Capisci? E quando queste posizioni sono state abbandonate, bè’… Wadi Haddad era uno di destra, ma la sua linea strategica era giusta: bisogna colpire il nemico in modo che non si senta sicuro da nessuna parte. Nessun dirigente, nessun responsabile [sionista, NdR] deve sentirsi sicuro in nessuna parte del mondo. Devono avere paura ovunque si trovino. Abbandonando quella strategia si è persa l’arma principale di cui disponeva la resistenza palestinese.

I tunnel di Cu Chi, nel Vietnam del Sud, si estendevano per 250 km dalla periferia di Saigon al confine con la Cambogia. Incubo dell'esercito americano, sono diventati l'attrazione turistica sotterranea numero 1 al mondo, secondo la...CNN

Guardiamo alla situazione di Gaza oggi. Ho parlato con un militante di Hezbollah, e lui mi ha detto che la situazione non è così grave per Hamas, che non è stato colpito militarmente e può contare su forze ancora intatte. Ma io non capisco cosa possano fare, perché non hanno lo spazio minimo che almeno aveva Hezbollah nel Sud del Libano, no?

Io credo che quello che sta facendo Hamas sia copiare il sistema vietnamita. Hamas non ha inventato niente. Quello che ha fatto è stato sviluppare la questione vietnamita, con i mezzi che gli hanno dato i fratelli, i compagni iraniani. Quindi quando loro [gli israeliani, NdR] hanno invaso l’ultima volta [il Libano, NdR], hanno ricevuto un colpo durissimo perché non erano preparati a questo tipo di combattimenti sotterranei nel Sud del Libano, bombardavano qua, attaccavano là, ma gli altri sbucavano dall’altra parte e li colpivano, li colpivano. È questo che sta accadendo a Gaza. E sono sicuro che si siano preparati. In realtà in questo caso c’è stata una provocazione dei palestinesi contro gli israeliani. In che senso? Li stanno colpendo, o meglio sfidando, con armi leggere.

Perché bisogna sapere che una compagnia di guardie di frontiera israeliane ha più armi di tutta la resistenza palestinese a Gaza. E perché questa provocazione permanente? […] Non è una decisione arbitraria. Non sono pazzi. I Fratelli musulmani sono gente molto seria. A parte la questione ideologica… La Fratellanza musulmana, fondata negli anni Venti da Hassan El Banna al Cairo, è un’organizzazione non ideologicamente ma strutturalmente leninista. Dal punto di vista di classe i Fratelli musulmani sono un’organizzazione piccolo-borghese che rappresenta gli interessi del suk, non sono rivoluzionari, sono riformisti, ma con una struttura leninista.

Questo ha permesso loro di sopravvivere alla peggiore repressione che si possa immaginare. Nel mondo arabo nessuno è stato represso più dei Fratelli musulmani, neanche i comunisti. Nessuno è stato più represso, né i palestinesi né nessun altro. Queste persone sono sopravvissute, sono cresciute e si sono perpetuate, e sono state la base, come il FPLP, da cui sono uscite tante altre organizzazioni e tanti altri movimenti in tutto il mondo, che si sono sviluppati nella lotta armata con questa base d’esperienza palestinese; tutti i jihadisti che lottano oggi, anche in Afghanistan, traggono la loro origine dai Fratelli musulmani. Il fatto che non siano d’accordo con Al Qaeda, con il tipo di strategia e di tattiche cosiddette “terroriste” di Al Qaeda, non significa che non ci siano legami storici: il dottor Al Zawahiri è un dirigente di spicco dei Fratelli musulmani, Yasser Arafat era un responsabile dei Fratelli musulmani, nella loro direzione al Cairo all’inizio degli anni Cinquanta. Questo bisogna riconoscerlo. La lotta dei Fratelli musulmani in Siria è stata terribile, terribile: non solo c’è stata una brutale repressione da parte del regime siriano che è riuscito quasi a sterminarli, ma sono stati assassinati centinaia e centinaia di fratelli siriani. Queste persone sanno ciò che fanno. Credo che il loro obiettivo sia quello di provocare un intervento terrestre degli israeliani, perché a Gaza, a parte l’arteria principale, sul lato della spiaggia, della zona costiera, non ci sono altri ingressi, vale a dire che c’è una linea diritta, la strada principale…

… È un viale...

Sì, sì, è un viale. Non puoi entrarci con un carro armato, a meno di distruggere tutte le case, capisci. E a quel punto li massacreranno.
È una lezione dell’esperienza vietnamita. La tecnica dei sotterranei viene dai tedeschi dell’Est. Per esempio è così che i palestinesi sono sopravvissuti all’attacco delle forze libanesi a Tell Al-Za’tar nel 1976, ricordi?

Sì.
A Shatila le forze libanesi non hanno scoperto i sotterranei e i combattenti del FPLP di Shatila sono sopravvissuti al massacro.

Ah sì?

Erano a Shatila, sottoterra. A Sabra non c’erano sotterranei e sono stati uccisi. È un’esperienza vietnamita che è stata trasmessa dai tedeschi dell’Est. Sono convinto che al fianco di Hamas ci sia il Jihad islamico, il Fronte popolare, ma anche la gente di Fatah, perché la maggioranza della gente di Fatah non è composta né da agenti della CIA, né da corrotti o ladri. La maggior parte di Fatah è fatta di palestinesi puri. Hamas ha vinto le elezioni. Chi l’ha votato? La gente di Fatah! I cristiani, hanno votato Hamas! La maggioranza non era gente di Hamas, era gente che voleva un governo non corrotto. Quindi tutti i combattenti di Gaza, la brava gente – perché c’è stata una piccola guerra civile che ha spazzato via i corrotti – compresi i membri delle tribù, che ovviamente sono armati, tutte queste persone combatteranno anche loro. [Gli israeliani] stanno cercando di spezzare la popolazione civile, ma la gente è abituata a soffrire, purtroppo, e in ogni caso dove potrebbe andare? L’importante è che questo avrà ripercussioni internazionali, non per Israele, perché Israele con tutti noi ci si pulisce il culo, è un Paese fondato sulla menzogna, sulla falsificazione storica…

Vista di un tunnel scavato da Hezbollah nei pressi del moshav Zar'it, nel nord di Israele, vicino al confine libanese, il 10 giugno 2019. Foto .Ilia Yefimovich / picture alliance via Getty Images

C’è un grande interrogativo: la persecuzione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale è una delle pagine più buie della storia contemporanea, non si conosce ancora il numero delle vittime, ma centinaia di migliaia di persone sono scomparse, non si sa ancora esattamente come perché non permettono di fare ricerche, di fare la lista dei nomi delle vittime delle persecuzioni naziste. E i sionisti che stanno in Israele sono complici di quella persecuzione […], sono razzisti nei confronti degli altri ebrei; gli ebrei provenienti dall’Iran e dal Marocco sono malvisti dai bianchi, dagli aschenaziti che non hanno neanche una goccia di sangue semita […]

Il solo modo di agire è quello di Saddam. Non bisogna dimenticare che era Saddam a mantenere i palestinesi di Gaza, soprattutto di Gaza. L’aggressione contro l’Iraq è legata a Gaza. Saddam manteneva Gaza, i soldi di Gaza venivano da lì. E in fin dei conti lo stesso vale per l’Iran. Durante la prima Intifada i primi soldi arrivati in Palestina furono quelli che l’Iran inviò all’organizzazione di Abu Nidal. E anche Saddam ha dato molti soldi alla resistenza.

In ogni caso i palestinesi adesso riceveranno sicuramente un duro colpo, ma non verranno distrutti. E in fin dei conti si tratta di una questione internazionale. Se migliaia di persone scendono in piazza a Parigi e a Londra, la gente dirà: è un problema grave, è un crimine contro l’umanità, questi sono crimini di guerra costanti, quotidiani, senza sosta, davanti alle telecamere dei canali di tutto il mondo, della CNN e di Al Jazeera…

Quindi colpiranno i responsabili della resistenza palestinese a Gaza, soprattutto la gente di Hamas ma non soltanto. Però dovranno entrare a Gaza, per combattimenti corpo a corpo, e a quel punto gli israeliani si troveranno in una posizione di debolezza, accadrà la stessa cosa che è successa nel Sud del Libano, ma ovviamente ci saranno migliaia di vittime civili palestinesi. Vedremo. La cosa positiva per i palestinesi e per la resistenza araba è che i popoli arabi sono solidali. E il governo traditore egiziano apparirà per quello che è. Perché chiude la frontiera? Perché?

Sai che hanno chiamato Dahlan al Cairo, no?

Ma sappiamo chi è Mohamed Dahlan, no? Mohamed Dahlan è l’uomo degli Stati Uniti e della CIA. Apertamente, non ne fa mistero.

gaza strip tunnel

Un membro del Jihad islamico attraversa un tunnel nella Striscia di Gaza nel 2022. Foto Mahmud Hams / AFP via Getty Images

 

 

02/10/2023

PANAGIOTIS GRIGORIOU
Gli occupanti... occupati!
L’odissea dell’esercito di occupazione italiano in Grecia

Panagiotis Grigoriou, Greek City, 30/9/2023

Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala


Panagiotis Grigoriou (Atene, 1966) è un etnologo e storico greco, redattore del sitio web Greek Crisis e del suo successore Greek City e direttore della società di turismo alternativo Grèce Autrement.


 Si potrebbe pensare che le nostre “storielle”, ricordate durante le riunioni di famiglia, a volte illustrino solo il lato aneddotico degli eventi, l’insieme di fatti storici che siamo un po’ troppo veloci a liquidare come secondari. A casa nostra, nostro zio Chrístos, che non c’è più, amava raccontarci i suoi aneddoti degli anni ‘40, la guerra greco-italiana, l’occupazione, la Resistenza, e poi tutta l’illogica guerra civile greca dal 1944 al 1949, fino all’ultimo dettaglio della storia che era sua all’inizio. È stato persino felice di raccontarci la presenza dei soldati italiani in Grecia, la cui storia tortuosa si trova talvolta, ancora oggi, tra memoria e oblio.


Va ricordato che il 28 ottobre 1940 l’Italia diede inizio alla guerra greco-italiana invadendo la Grecia dall’Albania. Inizialmente Mussolini aveva lanciato l’invasione della Grecia in modo piuttosto frettoloso, poi, vista la preparazione militare della Grecia, non prevista dagli italiani, e la capacità dell’esercito ellenico di operare in un terreno montuoso, l’offensiva italiana iniziale fu contenuta e l’invasione si impantanò rapidamente.

Tuttavia, va ricordato che nell’ottobre 1940, con la benedizione di Londra, molti leader politici e istituzionali di Atene erano disfattisti prima del tempo, ritenendo che la regione dell’Epiro, nel nord-est della Grecia, potesse essere abbandonata a favore dei piani di Mussolini.

L’ambasciatore britannico in Grecia dell’epoca, Sir Michael Palairet, nel suo telegramma da Atene del 28 settembre 1940, documento reso noto diversi decenni più tardi negli archivi del Foreign Office, informava il suo governo “che il Capo di Stato Maggiore Generale, Generale Papágos, era pronto, se ritenuto necessario, a cedere l’Epiro agli italiani”.


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16/09/2023

GREGORIO CARBONI MAESTRI
Lettera aperta all’ANPI su una mostra glorificando il Battaglione Azov

Gregorio Carboni Maestri, settembre 2023

Stimati associati, compagni e amici dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ANPI,

In questi giorni di significativi anniversari—l’ottantesimo dell8 settembre 1943, che segnò l’inizio simbolico della Rivoluzione partigiana in Italia e della liberazione del Dombass dall’occupazione nazifascista—è con profondo sgomento che sono venuto a conoscenza del tacito sostegno da parte dell’ANPI della Provincia di Milano a una mostra dal titolo "Occhi di Mariopoli – Uno sguardo negli occhi dei difensori di Mariopoli".[1] Questa esposizione, allestita in Via Dante e nel Museo del Risorgimento, è patrocinata dal Comune di Milano e dalla Zona 1 e riguarda il battaglione Azov, noto per le sue posizioni nazifasciste, antisemite e ultranazionaliste.[2] È stato organizzato e promosso con l’aiuto delle associazioni Azov One e dalla Kvyatkovskyy Family Foundation, entrambe affiliate al suddetto battaglione, come parte della loro campagna per "ripulire" la reputazione di questa unità controversa.


 Nella mostra oggetto di discussione, è stato fatto un tentativo deliberato di nascondere il logo del Battaglione, che era invece visibile nell’edizione della mostra presentata a Leopoli. Questo atto consapevole da parte degli organizzatori evidenzia ulteriormente la problematicità della mostra. Come ha chiaramente espresso l’ANPI di Porta Genova (Milano), le immagini esposte mettono in primo piano le forze militari anziché documentare le sofferenze delle popolazioni oppresse dalla guerra. Inoltre, queste immagini fanno uso di simbolismi che evocano regimi e periodi storici oscuri.

È fondamentale evidenziare che il battaglione Azov trae le sue radici dalle milizie neofasciste affiliate a Pravy Sektor  [Settore destro], che sono state successivamente incorporate legalmente nelle forze armate ucraine.[3] Il simbolo che identifica questo battaglione è l’amo per lupi, un emblema che fu inizialmente associato al Partito Nazista prima della sua adozione della svastica. Tale simbolo è stato successivamente incorporato nell’insieme di simboli runici utilizzati dalle S.S. ed è stato anche adottato da otto divisioni della Wehrmacht, inclusa la 2ª Divisione Panzer S.S. "Das Reich". Va notato che anche il Partito Social Nazionalista Ucraino - Svoboda ha fatto uso di questo simbolo distintivo.[4]

L’immagine emblema della mostra, una fotografia in bianco e nero, è un ritratto di Denys Prokopenko, un comandante del battaglione Azov noto per le sue ideologie suprematiste bianche.[5] Prokopenko ha intrapreso la sua carriera militare inizialmente nel "Club dei ragazzi bianchi", un gruppo ultras neonazista, per poi unirsi alla divisione Borodach. Quest’ultima è distintiva per l’utilizzo del simbolo nazista del "Testa di morto" e tibia incrociate. Prokopenko rappresenta solo uno dei tanti membri controversi di questa unità paramilitare, i cui seguaci sfoggiano tatuaggi che fanno riferimento a simbologie razziste, suprematiste, omofobe, antisemite e nazifasciste.[6]

Il battaglione Azov è stato coinvolto in atti spaventosi di crudeltà e illegalità, inclusi stermini, deportazioni e la soppressione completa di libertà e dignità umana. Hanno persino praticato crocifissioni e morti sul rogo.[7] Contrariamente alla narrativa veicolata dalla mostra in questione, i membri del battaglione Azov non sono dunque eroi ma piuttosto assassini crudeli e vigliacchi. La loro prigione segreta, conosciuta come "La Biblioteca" era situata nell’aeroporto di Mariopoli sotto la gestione dell’SBU, un luogo di tortura e assassinio per miliziani delle repubbliche popolari del Donbas, comunisti, antifascisti e antimaidanisti.[8] Un luogo che evocava tristi somiglianze con lo Stadio nazionale di Santiago del Cile.[9] In un contesto simile, sarebbe stato accettabile ospitare una mostra su Pinochet e i suoi esecutori in Via Dante o al Museo del Risorgimento nel 1973? Per illustrare l’ampio disagio suscitato e le contraddizioni esplose con questa mostra, va notato che il quotidiano La Stampa di Torino ha modificato in modo significativo il titolo di un suo articolo a essa relativo. Il titolo originale, "[…] la mostra in centro sui neonazisti del Battaglione Azov," è stato successivamente cambiato in "[…] la mostra sulla resistenza ucraina a Mariupol," smorzando così il carattere controverso dell’evento.[10]

L’esposizione ha suscitato un diffuso dissenso da diverse componenti sociali, tra cui il pubblico generale, gruppi associativi e formazioni politiche. Un numero significativo di persone ha inviato email di protesta all’ente comunale, e nei giorni più recenti sono state pianificate manifestazioni a cui hanno partecipato centinaia di individui, tutte con l’obiettivo di esprimere opposizione all’esibizione e richiederne la chiusura.

10/09/2023

LUIS CASADO
Allende e io
Ricordi d’infanzia

Luis Casado, 10/9/2023
Tradotto da
Fausto Giudice, Tlaxcala

Non ho mai saputo come mio padre riuscisse a darci così tanto con il suo modesto stipendio di operaio panettiere.

La lettura e i viaggi erano al primo posto di quel tanto. Per decenni mio padre ha collezionato le riviste sportive Estadio (Santiago), El Gráfico (Buenos Aires) e altre, e ogni settimana ci comprava chili di fumetti, racconti e libri vari. Mia madre leggeva romanzi e El Fausto, un settimanale per signore che riportava racconti romantici a puntate. Ecco da dove viene il mio amore per i libri, dall’incoraggiamento di un padre che non aveva finito il terzo anno di scuola elementare, ma che amava leggere. 

 

I viaggi avevano sempre la stessa meta: l’arcipelago di Chiloé, più precisamente Achao, sull’isola di Quinchao. Arrivarci a quei tempi - gli anni Cinquanta - era un’avventura indimenticabile.

Da San Fernando a Puerto Montt si viaggiava su un vecchio treno trainato da una locomotiva trasandata, manovrata dai tiznados [i fuligginosi], i lavoratori dell’Impresa di Ferrovie dello Stato, così chiamati perché i loro volti portavano il segno indelebile del carbone.

Il treno si muoveva con una piacevole e dolce lentezza. Ci volevano non meno di 14 ore per coprire i 700 km, senza contare le numerose fermate nei capoluoghi di provincia. Se si apriva un finestrino si rischiava di ricevere una scoria di carbone negli occhi. Di tanto in tanto, un uomo in giacca bianca e molto formale passava e ti offriva qualcosa da bere e da mangiare: il servizio era impeccabile, ma troppo caro per le nostre magre borse.

A Puerto Montt si passava la mezza notte in una locanda, fino alle prime ore del mattino successivo, quando il vaporetto salpava per l’isola di Quinchao.

Ad Achao non c’era (e ancora non c’è) né porto né molo di attracco: si sbarcava in mezzo all’oceano scendendo una stretta scala, situata sui fianchi del piroscafo, fino alle barche a remi che venivano a prenderti e sulle quali si saltava, rischiando di precipitare nelle gelide acque del Pacifico meridionale insieme a valigie, borse e fascine varie.

Quando si arrivava alla spiaggia di Achao ci si toglieva le scarpe, si arrotolavano i pantaloni e ci si tuffava in acqua. Così si arrivava, camminando, a destinazione. C’era Luis Soto Romero, mio nonno, sindaco del paese, che esercitava la sua pratica. Mio padre, scherzando, lo aveva soprannominato il Cacique.

Mio nonno era stato praticante nell’esercito. Ad Achao, da civile, era infermiere, ostetrico, chirurgo in chirurgia minore, autorità pubblica, portavoce, giudice di pace... insomma, un cacique.

Mio nonno era un socialista, uno di quelli di allora, da non confondere con quelli di oggi: mio nonno non ha mai avuto alcun canonicato, né ha mai creato alcuna fondazione. Vi sorprenderebbe sapere che era amico e compagno di un certo Salvador Allende?

Proprio così. Salvador Allende.

 

05/09/2023

HILO GLAZER
Nelle Prealpi italiane, degli israeliani fondano una comunità di espatriati. Iniziative simili stanno nascendo altrove

 Nota del traduttore

Una battuta circolava qualche anno fa nei bar di Tel Aviv: “Un ebreo israeliano ottimista impara l'arabo, un ebreo israeliano pessimista impara l'inglese, un ebreo israeliano realista impara a nuotare”. Sembra che quello che i Palestinesi o gli arabi non sono riusciti a fare (semmai ne abbiano avuto davvero l'intenzione), Netanyahu e i suoi accoliti di governo lo stanno provocando: un'ondata di fuggi fuggi si è scatenata fra gli ebrei israeliani. Infatti, centinaia e migliaia di israeliani di varie condizioni socioeconomiche e di ogni età stanno dandosi da fare per trovare un'alternativa di vita allo Stato ebraico. Ed è in questo modo che è nato un nuovo business, che si potrebbe chiamare relocation industry (industria del trasferimento). L'articolo di Hilo Glazer racconta del Progetto Baita, lanciato in provincia di Vercelli, nella Valsesia, e di altri progetti, fra i quali ambiziosi progetti di creazione di "città israeliane" in Europa, da Cipro e Grecia al Portogallo, ed altrove. Uno di loro parla addirittura di creare una “comunità di insediamento”, che ricorda i cosiddetti insediamenti (colonie) in Cisgiordania. Possiamo legittimamente chiederci se questi progetti possano costituire un superamento definitivo del sionismo e del tribalismo, oppure se creeranno semplicemente “piccoli Israele” sparsi come coriandoli per il mondo.-FG

Hilo Glazer, Haaretz, 2/9/2023
Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

 Sulla scia del golpe giudiziario [la riforma progettata dal governo Netanyahu], le discussioni israeliane sul trasferimento all’estero non si fermano più ai gruppi sui social media. In una valle lussureggiante dell’Italia nord-occidentale, le idee di emigrazione collettiva si stanno attuando sul campo e iniziative simili stanno prendendo forma anche altrove.

“Mentre il numero di ore di luce nella democrazia del loro Paese continua a diminuire, sempre più israeliani arrivano nella valle montana alla ricerca di un nuovo inizio. Tra loro ci sono giovani con neonati nel marsupio, altri con bambini in età scolare, e ci sono persone brizzolate o pelate come me. Un insegnante, un imprenditore tecnologico, uno psicologo, un toelettatore di cani, un allenatore di basket. Alcuni dicono che stanno solo esplorando, si vergognano ancora di ammettere che stanno prendendo seriamente in considerazione l’opzione. Altri sembrano intenzionati e motivati: si informano su come ottenere il permesso di soggiorno, su quanto costa una casa, su come aprire un conto bancario e trasferire i fondi previdenziali finché è ancora possibile. Alla base di tutto questo c’è uno strato di dolore, il dolore dei bravi israeliani che credevano di potersi riposare sugli allori dopo 2.000 anni, ma che ora stanno riprendendo in mano il bastone del viandante”.

L’autore è Lavi Segal, la zona montuosa che descrive si trova nella Valsesia, nella regione Piemonte dell’Italia nord-occidentale, ai piedi delle Alpi. Segal, proprietario di un’azienda turistica della Galilea, condivide le sue esperienze con i membri di un gruppo Facebook chiamato Baita, che offre informazioni agli israeliani che cercano di immigrare e creare una propria comunità in Valsesia, molti dei cui abitanti originari sono partiti negli ultimi decenni. Il nome del gruppo è un amalgama di Bait (che in ebraico significa “casa”) e Ita - abbreviazione di Italia. Baita in italiano si traduce anche come “capanna in montagna”. E non si tratta di montagne qualsiasi: la Valsesia è conosciuta come “la valle più verde d’Italia”. Segal afferma che quello che sta presentando è un caso di pubblicità veritiera.

“Con tutto il rispetto per i discorsi sulla ‘bella Terra d’Israele’”, dice ad Haaretz in un’intervista telefonica, “Israele è forse bella se paragonata alla Siria o all’Arabia Saudita [sic] [ma] l’Europa e le Alpi sono un altro mondo. Il paesaggio è mozzafiato, il clima è meraviglioso e tutti i noti problemi di Israele - guerre, sporcizia, sovraffollamento, costo della vita - semplicemente non esistono qui”.

Segal vive in Valsesia da due mesi con la moglie Nirit, entrambi sessantenni. “Stiamo facendo un viaggio di familiarizzazione e di esplorazione”, spiega. “Abbiamo affittato una casa qui e ogni tanto parliamo con le agenzie immobiliari della possibilità di acquistarne una. Al momento non stiamo parlando di uno sradicamento definitivo, anche se potrebbe accadere se la vita in Israele diventasse intollerabile. Per il momento stiamo cercando un posto in cui possiamo dividere il nostro tempo tra Israele e l’estero. Israele ci è molto caro: Quando siamo lì partecipiamo attivamente alle manifestazioni” contro i piani del governo per la revisione del sistema giudiziario.

Nirit, che organizza ritiri artistici, ha due idee: “Questo posto è un sogno quando si tratta di creare arte, ma sono molto legata a Israele e, come molte persone del mio ambiente, lo sento soprattutto oggi. Sono preoccupata per le implicazioni dellondata migratoria sul movimento di protesta”.

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16/08/2023

“Dobbiamo fare ordine in casa”: Esther Cuesta, candidata per l’Europa, l’Asia e l’Oceania all’Assemblea nazionale ecuadoriana

María Piedad Ossaba e Fausto Giudice, 15/8/2023

Versión original española  Version française English version

Esther Cuesta Santana (Guayaquil, 1975) è candidata di Revolución Ciudadana [Rivoluzione Civica] all’Assemblea nazionale per l’Europa, l’Asia e l’Oceania nelle elezioni ecuadoriane del 20 agosto 2023. Esther è stata deputata dal 2017 al 2021 e dal 2021 fino allo scioglimento del Congresso il 17 maggio 2023, ed è stata anche Console generale dell’Ecuador a Genova (Italia). Ecco un’intervista che abbiamo realizzato con lei, incentrata sulla sua sfera d’azione principale, l’emigrazione ecuadoriana nel mondo (circa tre millioni).

Ci parli della Legge sulla Mobilità Umana e di come si promuove la diaspora ecuadoriana. Qual è il lavoro attualmente svolto dai consolati ecuadoriani all’estero?

La legge sulla mobilità umana è entrata in vigore durante il periodo della Rivoluzione Civica. Il 6 febbraio 2017, la Legge Organica sulla Mobilità Umana è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 938 con l’obiettivo di regolare l’esercizio dei diritti, degli obblighi, delle istituzioni e dei meccanismi relativi alle persone in mobilità umana, compresi gli emigranti, gli immigrati, le persone in transito, i rimpatriati ecuadoriani, le persone che necessitano di protezione internazionale, le vittime della tratta di esseri umani e del traffico di migranti, nonché le loro famiglie. La legge sviluppa i principi della cittadinanza universale, del diritto di migrare e dell’integrazione latinoamericana.

Nonostante la legge preveda il riconoscimento di garanzie e la tutela dei diritti, negli ultimi sei anni i governi Moreno e Lasso hanno distrutto le politiche di tutela dei diritti delle persone in situazione di mobilità umana. Hanno triplicato il costo dei servizi consolari, chiuso consolati e ambasciate, abolito servizi come la consulenza legale gratuita e tagliato il budget e il personale dei consolati che dovrebbero occuparsi dei nostri connazionali migranti. Oggi ottenere un passaporto in Ecuador e all’estero è un’odissea, e siamo tornati ai tempi dei tramitadores [passacarte privati] che ti fanno pagare fino a 400 dollari per un passaporto!

Il Gruppo Parlamentare per i Diritti delle Persone con Mobilità Umana dell’Assemblea Nazionale, che ho avuto l’onore di presiedere, ha valutato la Legge Organica sulla Mobilità Umana per verificarne l’applicazione e individuare i limiti e la portata di questo strumento giuridico per l’effettivo esercizio dei diritti umani degli ecuadoriani all’estero, dei rimpatriati ecuadoriani, degli immigrati e dei rifugiati che necessitano di protezione internazionale, delle vittime della tratta di esseri umani o dell’immigrazione clandestina. In altre parole, si tratta di verificare se il governo e le istituzioni pubbliche hanno applicato la legge.

In questa valutazione, abbiamo riscontrato che lo Stato non riesce a garantire i diritti delle persone in situazione di mobilità umana.

Ma con Luisa González [candidata di Rivoluzione Civica alla presidenza] avremo di nuovo un Ministero degli Affari Esteri al servizio dei migranti, con consolati altamente efficienti al servizio dei nostri connazionali. Consolati con orari di apertura flessibili che si adattano alle esigenze dei migranti, compreso il sabato. Avremo di nuovo consolati mobili per essere ancora più vicini alle nostre comunità nelle diverse regioni, per avvicinare il governo ai cittadini.

06/08/2023

ROMARIC GODIN
Karl Korsch, scongelare il marxismo

Romaric Godin, Mediapart, 3/8/2023
Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

Cento anni fa, “Marxismo e filosofia”, il libro di un professore di diritto tedesco, fece scalpore a sinistra. Segnò l’inizio di un singolare percorso intellettuale in opposizione alle ideologie marxiste di ogni tipo, chiedendo di valorizzare le lotte sul campo, e che rimane più che mai attuale. 

Illustrazione Simon Toupet

Poco meno di cento anni fa, il 16 ottobre 1923, un trentasettenne professore di diritto dell’Università di Jena, Karl Korsch, veniva nominato Ministro della Giustizia del Land (Stato) di Turingia. Si trattò di un evento nella politica tedesca, in quanto egli era membro del Partito Comunista di Germania, il KPD, e si unì, insieme ad altri due compagni, a un governo guidato da un socialdemocratico dell’SPD, August Frölich.

Quest’ultimo aveva deciso di formare un gabinetto unitario di sinistra, seguendo le orme del suo omologo della vicina Sassonia, Ernst Ziegler, che aveva incluso due comunisti nel suo governo. Negli ultimi quattro anni, tuttavia, il KPD, che aveva aderito alla IIIa Internazionale bolscevica, e l’ SPD, che aveva guidato molti governi nella Repubblica di Weimar, sono sembrati inconciliabili.

Ma nel 1923 il Paese sembrava essere nel caos. L’iperinflazione e l’invasione francese e belga della Ruhr avevano distrutto l’economia tedesca. Il governo federale del liberale Gustav Stresemann intraprese una politica di severa austerità, che portò a tentazioni separatiste in Baviera e in Renania e a putsch di estrema destra, come quello tentato dai nazisti a Monaco l’8 novembre.

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