“Considère donc ça simplement comme un gros chameau”
 

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04/11/2023

Lettera aperta a Slavoj Žižek, un filosofo che nega il diritto alla politica dei palestinesi

Collaboratore anonimo, Mondoweiss, 30 ottobre 2023
Tradotto da Giulietta Masinova, Tlaxcala

Questa lettera aperta è stata scritta da un critico culturale, autore e artista palestinese che ha scelto di pubblicarla in forma anonima per paura di rappresaglie da parte del regime israeliano, che dal 7 ottobre scorso ha sottoposto le voci palestinesi a una violenta campagna di arresti e repressione. 
 

Caro Slavoj Žižek,

Circa due settimane fa lei ha pubblicato un articolo in cui affermava che “la vera linea di demarcazione in Israele-Palestina” si colloca tra i “fondamentalisti” di entrambe le parti e tutti coloro che cercano realmente la “pace”, per cui lei invita a una posizione che non scelga tra una “linea dura” e l’altra. Nonostante l’equiparazione di principio tra le due parti, lei inizia e conclude il suo articolo con una condanna senza appello della condotta di Hamas, senza mai condannare esplicitamente l’altra fazione della “linea dura”, che ha perseguito la medesima condotta, lentamente e giorno per giorno, nel corso degli ultimi 75 anni. Inizio la mia risposta con una domanda fondamentale: in che veste parla?

Parla in veste di filosofo strettamente occidentale impegnato in un progetto occidentale, tristemente noto per la secolare e perdurante tradizione di colonialismo – con cui non si sono ancora fatti i conti dal punto di vista morale – e per la logora narrazione che contrappone civile e barbaro? Se è così, accetto la sua posizione e non ho altro da dirle. Ha scelto da che parte stare. Ma se si esprime in veste di filosofo, di portatore della verità, mi aspetto un minimo di pensiero critico soprattutto per quanto riguarda il canone politico su cui fonda il suo giudizio, la sua visione e il suo invito all’azione. Non mi aspetterei nulla di meno dalla star della “critica dell’ideologia”, che è senza dubbio esperta nel rilevare l’ampia e brutale autorità della manipolazione ideologica, soprattutto quando le prospettive geopolitiche occidentali sul Medio Oriente, espresse sia attraverso i media che attraverso le narrazioni storiche, hanno spesso dimostrato di essere alterate da tale manipolazione.


La sua principale intuizione sull’ideologia è che essa funziona in quanto tale; non ci crediamo ma la pratichiamo, come mostra la scena culminante di They Live [Essi vivono, John Carpenter, 1986], dove i titoli cubitali celano una plasmazione più profonda e disturbante del soggetto. Lo vediamo nei titoli urlati sui cartelloni fisici e virtuali dei media occidentali dopo il 7 ottobre e le sue presunte atrocità– stupri, neonati decapitati e altri massacri così indicibili da colpire molti lettori sul piano umano e personale.

Queste affermazioni appaiono profondamente inopportune se riferite a una fazione politica che conduce una guerra per la giustizia e la liberazione – e questo, naturalmente, se si è adeguatamente attrezzati e moralmente impegnati a riconoscere, anche in seguito a un’analisi distratta, che si tratta in effetti di una fazione di resistenza. Alcune di quelle affermazioni brutali, come il mito dei “neonati decapitati”, sono state confutate da molti, compresi gli israeliani e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nel frattempo altre affermazioni sono state almeno contestate, e molte sono state confutate dalle testimonianze di ostaggi israeliani liberati. Alcuni di essi hanno coraggiosamente dichiarato che i partecipanti del festival musicale, per esempio, non erano stati uccisi da Hamas ma erano stati vittima del fuoco incrociato, suggerendo che si trattasse di fuoco amico degli israeliani, poco attenti alla presenza di civili sul loro cammino. Con tali contraddizioni e per effetto della censura mediatica, la verità su quei fatti rimane sconosciuta.

Tuttavia, c’è una marcata insistenza perché una fazione della resistenza palestinese nata nell’evidente contesto dell’occupazione militare venga equiparata all’ISIS, malgrado le loro storie contrastanti e i loro diversi obiettivi e ideologie. Questo tentativo, che risale alla guerra del 2014 contro Gaza, è stato messo in atto da Netanyahu per la campagna elettorale del suo partito di destra, ed è stato già respinto da alcuni studiosi israeliani come una distorsione della realtà finalizzata a eludere i negoziati. Da un  punto di vista critico, la ripresa di questa affermazione nel clima politico attuale si presenta come un ulteriore abuso della crescente islamofobia in Occidente per assicurare a Israele un sostegno incondizionato.

Questa premessa solleva dubbi non solo sull’integrità dei media, ma anche sull’intero apparato politico occidentale, poiché si fonda su un rifiuto unilaterale delle fazioni di resistenza etichettandole come puro terrorismo in nome dell’Islam, insistendo al contempo sulla narrazione rivale di una “legittima difesa” politicamente giustificata. Se tali dubbi vanno presi in considerazione – e dovrebbero esserlo –, le posizioni politiche, le storie e i contesti hanno una grande importanza. Se lei liquida Hamas (e altri movimenti di resistenza) come terrorismo, non rischia di liquidare anche tutta la storia della lotta armata palestinese contro un’occupazione armata di tutto punto?


Žižek in conversazione con Hegel e Stalin

Lei inizia chiedendo una via d’uscita attraverso il contesto storico, ma la sua riflessione storica sembra escludere la parte in cui la resistenza palestinese si forma e si plasma a livello nazionale. Liquidare la resistenza come terrorismo significa decontestualizzarla politicamente e privare i palestinesi del diritto fondamentale all’organizzazione e all’aspirazione politiche. Ciò rende nichilista il soggetto palestinese e conduce a interpretazioni errate, come quando lei descrive l’Intifada di Gerusalemme nel 2015 – chiamata “Intifada dei coltelli” – come un’espressione violenta della disperazione. Un simile approccio sociologico alla politica impone un serio approfondimento.

Nei casi di attentati suicidi dei cosiddetti “lupi solitari” può esserci un piccolo numero di attentatori motivato dalla disperazione economica o personale, ma la maggior parte di essi dedica di fatto le proprie azioni al progetto generale di resistenza, solitamente sotto forma di testamento scritto. In molti casi, riflettendo sui precedenti post sui social media di questi individui, è solo dopo il martirio che le loro intenzioni politiche iniziano ad acquisire significato. Questi attentati locali riconoscono il poco tempo a disposizione per “agire”. Tengono conto della natura della polizia israeliana, dei soldati, delle forze di sicurezza e anche della popolazione pesantemente armata, soprattutto a Gerusalemme – queste forze sono sempre all’erta e pronte alla violenza, che si tratti di infliggerla o di subirla. In questi scontri di guerriglia, perfino gridare “Palestina libera” metterebbe in pericolo la “missione”. Si tratta di conoscenza basilare del contesto.

“La resistenza è un impegno continuo e fattibile”. Questa frase appare spesso sui muri graffitati delle città e dei villaggi palestinesi e sui muri virtuali dei social media. Essa incarna una filosofia coniata dal più famoso martire intellettuale della Palestina, Basil al-Araj [1], filosofia che si è trasformata in una teoria della resistenza nella cultura nazionale palestinese e che abbraccia la convinzione secondo cui un atto di resistenza sarà sempre ripagato dal raggiungimento degli obiettivi nazionali, durante la vita delle generazioni future se non della propria. Non c’è ricerca della morte “fine a se stessa”, non c’è “violenza” priva di un inno politico. È un investimento della vita individuale in una vita collettiva libera. Un dissolversi nella collettività.

Questo dogma pone l’enfasi sulla sacralità del ruolo collettivo dell’individuo, posizione cruciale nella risposta alla distruzione sistematica della capacità di auto-organizzazione dei palestinesi. Il sociologo norvegese Johan Galtung ha coniato il termine “sociocidio” per descrivere ciò che Israele pratica sui palestinesi, e che comporta la distruzione della loro capacità di auto-creazione e di ricreazione come comunità. Ciò permette di comprendere come la nozione religiosa di “jihad”, o “guerra santa”, sia divenuta rilevante e perfino imperativa per la causa nazionale palestinese.

La diffusa necessità di un legame più forte con la lotta per la liberazione, qualcosa di materialmente indistruttibile come la fede, ha dato origine al “jihad” come forma di lotta. La fede infonde agli individui la resilienza necessaria a sostenere un consenso collettivo, anche in condizioni di isolamento politico, e il jihad, nel suo significato linguistico di base, consiste nell’“esercitare il massimo della forza e dell’impegno” [2]. Se si esamina il contesto storico, Hamas e il Jihad islamico, le principali fazioni di resistenza islamica in Palestina, sono stati creati dopo il fallimento del nazionalismo arabo e la sconfitta del 1967. Per i palestinesi la religione è stata e continua a essere un impegno incrollabile nei confronti della loro causa, un patto sacro per la liberazione.

Ciò potrebbe sfuggire agli osservatori occidentali. Come sottolinea il giornalista Omar Al-Agha in un articolo per Al Jazeera, l’incapacità di Israele e dell’Occidente di prevedere le azioni di Hamas si spiega con la loro incapacità di comprendere appieno le intenzioni di un “combattente dogmatico” politico, elemento centrale della resistenza palestinese. Questa difficoltà, spiega Omar Al-Agha, deriva da un cambiamento storico del pensiero occidentale.

Tale evoluzione è caratterizzata dalla convinzione che la società occidentale incarni il culmine dell’evoluzione umana, astenendosi da considerazioni teologiche. Al-Agha distingue anche tra combattenti dogmatici e combattenti ideologici che l’osservatore occidentale conosce con il nome di “combattenti comunisti”. La principale differenza risiede nella componente della fede e nella convinzione che vi sia una ricompensa sotto forma di vita ultraterrena.

Complico ulteriormente la diagnosi esaminando la sintesi di questo dogma in una “struttura organizzata”, come un progetto di resistenza nazionale, vale a dire la formazione di un gruppo politico. Tale sintesi conduce a un’evoluzione della percezione della ricompensa da parte dell’individuo – la forma della ricompensa stessa non cambia per quanto riguarda l’aldilà, ma la fede nella ricompensa subisce una trasformazione. Dapprima fondata sul concetto di un aldilà personale ricompensato, tale fede evolve abbracciando una dimensione nazionale più ampia, una vita collettiva iniziata dalla morte del combattente. Questa “vita dopo la morte” diventa la ricompensa politico-terrena, l’occasione di una migliore esistenza collettiva.

Questa sociologia può anche essere individuata nella creazione del “tavolo comune delle fazioni della resistenza palestinesi”, dove le fazioni di sinistra e comuniste si uniscono alle fazioni islamiche sospendendo le differenze (anche tra islamisti) per risolverle politicamente dopo la liberazione. Inoltre, un’analisi antropologica del “pubblico” palestinese e arabo della resistenza rivela un ampio spettro di individui che comprende liberali, cristiani, atei, comunisti, persone LGBTQ+ e femministe, composizione che ricorda quella di una moltitudine politica “laica”. 

Queste e molte altre analisi smontano le narrazioni di “fondamentalismo” e “antisemitismo” brutalmente abbracciate dall’Occidente riguardo a qualsiasi tentativo di liberazione palestinese. Non è un segreto che il mondo occidentale sia diventato un ambiente ostile e perfino violento per la libertà di espressione sotto il falso pretesto dell’antisemitismo. Le violenze scatenate contro i manifestanti pro-palestinesi dagli apparati di Stato in Europa sono troppo simili a quelle delle forze israeliane contro i manifestanti palestinesi. Come dice lei, professor Žižek, la violenza rappresenta il fallimento dell’autorità paterna, e ciò solleva una questione: l’Occidente ha mai desiderato che i palestinesi cercassero un dialogo politico, o tutto il discorso sul “fondamentalismo” è un tentativo di cancellare le aspirazioni palestinesi autonome riducendole al puro odio e all’annientamento del popolo ebraico?

Anche alcune voci israeliane hanno visto nella liberazione incondizionata dei prigionieri e nel trattamento umano ricevuto dal personale di Hamas, come dichiarato alla stampa, un’indicazione che trattative di pace, o perfino trattative politiche con Hamas, siano possibili. Ma questo cosa significherebbe per lo “Stato di Israele”? E perché qualsiasi discussione sulla “pace” deve essere preceduta da una condanna esclusivamente di Hamas, e non dalla condanna incondizionata dell’esercizio della violenza? Dal momento che gli accordi internazionali legittimano la resistenza, perché la legittimità della resistenza politica palestinese deve essere presa di mira, persino dalle voci più critiche dell’Occidente?

Sono forse queste le vere linee di demarcazione in Israele-Palestina, professor Žižek: le narrazioni incentrate sull’Occidente che tengono attivamente al di fuori dello spazio politico le iniziative politiche palestinesi. Un cambiamento di approccio a questo riguardo è forse la chiave per un’eliminazione pratica della violenza su questo territorio. In ultima analisi tutti i palestinesi che conosco, persone che hanno sofferto troppo a lungo, si oppongono principalmente alla violenza contro ogni vita innocente.

Note

[1] Basil al-Araj. I Have Found My Answers: Thus Spoke the Martyr Basil al-Araj (2018).

[2] Edward Lane, An Arabic-English Lexicon, vol. 1 (London: Williams and Norgate, 1865), 473.



 

 

KARIM KATTAN
Au seuil de l’humanité : Gaza n’est pas une abstraction

Karim Kattan, The Baffler, 31/10/2023
Traduit par Fausto GiudiceTlaxcala

Il y a trois semaines, dans un monde sensiblement différent de celui d’aujourd’hui, je préparais une causerie. J’avais été invité à parler de mon travail à Innsbruck, en Autriche, lors d’une conférence sur la langue française à travers les frontières. Suite à l’attaque du Hamas le 7 octobre, j’ai reçu un message des organisateurs me demandant de leur communiquer le titre de mon discours et de « m’abstenir de mentionner la situation actuelle et de laisser la dimension politique en dehors de [mon] discours afin d’éviter tout remue-ménage ». J’ai répondu que je ne pouvais pas participer dans ces conditions, toute ma pratique et ma vie étant en jeu dans ce qui se passe dans mon pays. L’organisatrice a insisté pour m’appeler afin de m’expliquer que « la situation actuelle » - un euphémisme - lui semblait très confuse et compliquée, voire un champ de mines, et qu’ils voulaient donc simplement s’assurer que mes propos étaient appropriés. « Je sais, a-t-elle ajouté, que vous ne diriez rien d’horrible. Je veux juste m’en assurer ».


J’ai réfléchi à cette conversation dans les semaines qui ont suivi, à ce qu’elle révèle de la manière dont nous, Palestiniens, sommes considérés en tant qu’êtres vivants, respirant, écrivant, politiques. Le fait que je ne sois pas allé à un événement littéraire est une conséquence mineure et ridicule de ce qui se passe. Mais cela peut suggérer un cadre, une forme, pour ce que j’ai encore du mal à nommer de peur que cela ne devienne réalité, ce qui se passe actuellement à Gaza et en Cisjordanie.

 « Trouvons une solution positive », a suggéré l’organisatrice au téléphone. Mais le dilemme qu’elle avait créé était insoluble. Toutes les solutions possibles impliquaient mon silence. La seule solution positive disponible était de ne pas exister tel que je suis ; d’aller à Innsbruck et de prétendre que mon pays n’était pas bombardé, affamé et dévasté. Aller faire semblant que ma vie n’est pas définie, comme elle l’a toujours été, par l’apartheid et la colonisation. Même si j’avais voulu me plier à ses exigences, je n’aurais pas su comment m’y prendre : non seulement parce que je suis personnellement touché, comme l’est l’existence même de ma famille et de ma nation, mais aussi parce que le roman dont je devais parler se déroule en Palestine.

Quelques jours plus tard, j’ai appris que le Litprom avait annulé la cérémonie de remise du prix célébrant le roman d’Adania Shibli, Détail mineur, qui devait avoir lieu à la Foire du livre de Francfort. Si le monde littéraire a réagi par une condamnation rapide - et nous devons reconnaître la solidarité là où elle émerge - l’idée a été comprise par tous : La pensée, l’écriture et la vie des Palestiniens sont parfois tolérées, mais jamais bienvenues.

Depuis des années, nous savons que notre humanité, en tant que Palestiniens, est conditionnelle aux yeux du monde et que, même lorsqu’elle est accordée, elle n’est jamais pleinement reconnue. Ce privilège nous a été parfois accordé si nous étions polis, réservés, presque invisibles.

Au cours des semaines qui ont suivi cet appel téléphonique, nous avons progressé vers quelque chose que j’ai du mal à nommer. Cette chose est devenue de plus en plus évidente au cours du week-end, alors que l’Occident observait avec une satisfaction à peine voilée la coupure de Gaza avec le reste du monde et le début des incursions terrestres d’Israël. Les discussions permanentes et superficielles sur la nécessité d’un “couloir humanitaire” vident le mot “humanitaire” de sa composante humaine ; on en parle comme on parlerait de la survie d’ “animaux humains”.

La plupart des gouvernements occidentaux ont fait preuve d’une solidarité sans faille avec Israël. Gaza subit une punition collective sadique d’une ampleur sans précédent. Pourtant, le président Biden, le Premier ministre britannique Rishi Sunak et le président français Emmanuel Macron sont venus en avion avec des mots de soutien, de gratitude éternelle et des promesses de financement ; ils ont offert des poignées de main fermes et des accolades viriles, sans prononcer une seule phrase sur les massacres à Gaza. Le silence inquiétant des gouvernements occidentaux est un consentement vicieux aux exactions israéliennes. En France, où je vis et travaille, les choses ont été particulièrement glaçantes. Le 12 octobre, le ministre de lIntérieur, Gérald Darmanin, a ordonné à tous les préfets du pays d’interdire les manifestations dites pro-palestiniennes par crainte de troubles à l’ordre public. Bien que le Conseil d’État ait par la suite annulé cette interdiction générale, de nombreux préfets l’ont maintenue, souvent sous les prétextes les plus fallacieux. Nous pourrions analyser ici l’ironie des pays européens, bastions autoproclamés de la liberté d’expression, qui interdisent des manifestations, annulent des cérémonies de remise de prix et exigent de revoir les propos prévus d’un écrivain. Mais là n’est pas la question.

Ceux qui devraient être les artisans de la paix ont accueilli avec dédain les appels à une cessation immédiate des hostilités. Cela donne en effet le feu vert à Israël pour agir en toute impunité, exacerbant une crise humanitaire sans précédent née de dix-sept années de siège et de nombreux assauts militaires majeurs.

Cette insouciance gratuite et cette déshumanisation sont la raison pour laquelle nous ressentons un besoin impérieux de documenter et de décrire tout, petit ou grand, afin de nous assurer que les gens comprennent ce qui est en jeu : « Mais ceci était un enfant », voulons-nous dire, « et ceci un adulte ». Il ne s’agit pas d’une chose vouée à une mort atroce dans une ville dévastée, mais d’un enfant qui aurait grandi au bord de la mer, qui aurait été, peut-être, un bon nageur et un mauvais mathématicien, ou qui aurait grandi en aimant vraiment les voitures ou la cuisine. « Et ceci », voulons-nous dire, « était un immeuble résidentiel, ceci un restaurant au bord de la mer, ceci une maison avec un jardin, où quelqu’un jouait ou se battait dans la cuisine, et tout cela a disparu ». Ce sont des gens qui ont des noms, nous voulons le dire, des visages aussi, des vies, des amis qui les pleurent, s’ils ne sont pas eux-mêmes morts, et des villes, des villes, entières. De vraies villes et des villes qu’ils appellent leurs propres villes et qui sont maintenant des cimetières. À la télévision, les experts parlent des milliers de morts comme de dommages collatéraux justifiés, mais nous voulons dire qu’il s’agit de l’anéantissement joyeux d’un bord de mer, de familles, d’histoires, de villes.

Dans les médias, Gaza est une abstraction, un espace conçu pour la mort violente d’un peuple abstrait qui l’habite. Cette mort est le fait d’une force naturelle et impersonnelle, et non de l’une des armées les plus puissantes du monde, soutenue par l’État le plus puissant du monde, doté d’un gouvernement et d’un peuple qui élit ce gouvernement. Il s’agit d’un cadrage commode, qui détourne la culpabilité d’Israël. La destruction vient d’en haut, et ceux qui meurent sont censés mourir. Tout est comme il se doit. À cela, nous apportons une correction : Gaza n’est pas une abstraction. C’est un rivage, des plages, des rues, des marchés et des villes avec des noms de fleurs et de fruits, pas une abstraction, mais des lieux, des vies et des gens qui sont expédiés aux oubliettes à coups de bombes.

En tant que Palestiniens, nous nous trouvons au seuil de l’humanité. Nous sommes parfois invités, mais pas toujours. Je ne cesse de revenir à cet appel téléphonique, à une voix au téléphone, venant de la terre lointaine de l’humanité, où je suis un invité jusqu’à preuve du contraire. La voix au téléphone, gentille, conciliante, compréhensive, ne cessait de répéter : « S’il te plaît, Karim, trouvons une solution positive ». L’organisatrice n’a pas vraiment rejeté mon humanité. C’était simplement un fait très gênant pour elle que je sois un humain ; elle devait s’en accommoder et était très mal à l’aise. Elle a suggéré que nous puissions parler de choses telles que « l’exil, la mémoire, la transmission, les frontières », mais, s’il te plaît, sans mentionner la Palestine. Je me suis demandé comment je pouvais parler de l’exil sans mentionner la cause matérielle de cet exil, qui est une histoire d’occupation. Je me suis demandé en quoi consistait la “mémoire” dans ce contexte, si ce n’est la survie en dépit d’une campagne concertée et centenaire d’effacement de toutes nos histoires. Je me suis également demandé si elle s’imaginait qu’il était très amusant pour moi de parler de sujets déprimants. Croyez-moi, je préférerais parler de n’importe quoi d’autre si je le pouvais. Mais je ne peux pas.

Ce qu’elle exigeait de moi, c’était de rendre acceptable et inoffensive chaque complication de mon être politique et intime, de cesser d’être un handicap pour elle. Ce sont les contradictions que nous sommes censés, en tant que Palestiniens, résoudre en nous-mêmes : exister sans parler de notre raison d’être. D’une certaine manière, elle souhaitait, très poliment, que je puisse, très poliment, cesser d’exister. Qu’étais-je donc censé prononcer à Innsbruck, si ce n’est le consentement à ma propre disparition ? Et aujourd’hui, je comprends ce que j’ai ressenti pendant que nous parlions. L’ombre de choses que je ne veux pas nommer. Je n’étais ni en colère, ni triste, ni indigné : j’étais désespéré. J’ai continué à parler. Je ne pouvais pas raccrocher le téléphone. Je ne pouvais pas dire « Non, je ne viendrai pas » et raccrocher. J’avais besoin que cette voix au téléphone reconnaisse mon humanité. Pendant quelques minutes, j’ai été convaincue que si nous raccrochions, sans cette reconnaissance de sa part, sans cette reconnaissance de moi, je disparaîtrais.

Voici les faits : pas d’eau, pas de carburant, pas d’électricité. Oxfam a prévenu que le manque d’eau et l’effondrement des services d’assainissement entraîneraient des épidémies de choléra et de maladies infectieuses. Les hôpitaux, les maisons, les écoles, les mosquées et les églises sont bombardés sans discernement (un mot insensible que je répugne à utiliser, car que faut-il bombarder si ce n’est sans discernement ?) À l’heure où j’écris ces lignes, Gaza est plongée dans l’obscurité, toutes ses communications avec le monde extérieur sont coupées. Sur les images en direct et les photographies, les explosions illuminent la ligne d’horizon. Gaza est devenue un lieu conçu pour la mort. Et nous, Palestiniens et humanistes du monde entier, nous nous interrogeons : quelle sera l’horreur qui sera jugée suffisamment horrible pour franchir enfin le seuil de l’horreur universelle ?

Il semble qu’il n’y ait pas assez d’horreurs infligées aux Palestiniens pour inciter la communauté internationale à exiger, sans ambiguïté, la cessation des hostilités. La voix au téléphone, comme une grande partie du monde qui nous entoure, demandait la même chose : s’il vous plaît, laissez-nous trouver une solution positive. Si seulement vous pouviez disparaître, ou - plus facilement encore - si seulement vous n’aviez jamais existé, et si seulement vous pouviez nous épargner l’horreur, les déplacements, les bombardements, les meurtres, l’affamement d’un peuple que vous nous forcez à déchaîner sur vous. Le monde lui-même résonnait dans cette voix au téléphone qui me disait : il y a une solution, si seulement tu n’étais pas si têtu, il y a une solution, c’est de disparaître dans les contradictions qui t’habitent ; si seulement tu pouvais te désinvestir du monde, si seulement tu ne compliquais pas le monde avec ton existence, si seulement je n’avais pas à te parler, si seulement je n’avais pas à t’écouter, si seulement.

 

03/11/2023

FAUSTO GIUDICE
Petite histoire d'un mot qui répand la terreur

 Fausto Giudice, Basta!, 11/9/2010

« Un terrorista no es sólo alguien con un revólver o una bomba, sino también aquel que propaga ideas contrarias a la civilización occidental y cristiana
Un terroriste n’est pas seulement quelqu’un avec un revolver ou une bombe, mais aussi celui qui propage des idées contraires à la civilisation occidentale et chrétienne
»
Général Videla, chef de la junte militaire argentine, responsable de la disparition forcée de 30 000 “terroristes”, 1978
En ce 11 septembre, où tous les médias de la planète nous abreuvent d’images et de discours sur l’horrible attentat de 2001, il m’a semblé utile d’apporter une modeste contribution à l’analyse du phénomène qualifié de terrorisme, en commençant par l’histoire même de ce mot. Il n’est en effet pas inutile, pour comprendre une réalité complexe et surtout obscure, de déconstruire les mots utilisés pour la désigner et la décrire.

Dans un rapport d’étude publié en 1988, l’armée US constatait qu’il existait plus de 100 définitions du terrorisme. Et l’ONU elle-même n’est pas parvenue à ce jour à établir une définition universellement acceptable. Ce n’est pas étonnant : les combattants de liberté des uns sont les terroristes des autres. Les éphémères maîtres nazis de l’Europe occupée qualifiaient les résistants qui , de la Norvège au Danemark, leur tiraient dessus ou posaient des bombes pour faire dérailler leurs trains militaires, de terroristes. Idem pour les occupants sionistes de la Palestine, qui ont eux-mêmes été les premiers, dès 1936, à utiliser l’arme de l’attentat aveugle contre des civils pour parvenir à leurs fins.

Terroristes d’hier et d’avant-hier


Aujourd’hui, et depuis le 11 septembre 2001, terroriste est synonyme d’islamiste. Il n’en a pas toujours été ainsi : dans l’Europe des années 1970, terroriste désignait les clandestins des Brigades rouges italiennes, de la Fraction armée rouge, des Cellules révolutionnaires et du Mouvement du 2 Juin en Allemagne fédérale, de la Angry Brigade anglaise, d’Action directe en France, des Cellules communistes combattantes (Belgique), du Mouvement du 17 Novembre et Rigas Feraios (Grèce), sans oublier, bien sûr, l’ETA basque et l’IRA irlandaise. Ailleurs dans le monde, des Tupamaros uruguayens et des Weathermen usaméricains au FPLP palestinien, les « terroristes » étaient généralement des gens d’extrême-gauche, issus de diverses scissions du mouvement communiste international.
Le sens actuel du mot terroriste - combattant clandestin utilisant des méthodes de lutte armée non-conventionnelles pour déstabiliser l’ennemi – est relativement récent : il remonte à la fin du XIXème siècle.

GIDEON LEVY
Voici les enfants extraits des décombres après le bombardement du camp de réfugiés de Jabaliya à Gaza

Gideon Levy, Haaretz, 2/11/2023
Traduit par Fausto GiudiceTlaxcala

Un terroriste du Hamas a été sorti des décombres, porté dans les bras de son père. Son visage est couvert de poussière, son corps est agité de soubresauts, son regard est vide. On ne sait pas s’il est vivant ou mort. C’est un enfant de trois ou quatre ans, et son père, désespéré, l’a emmené d’urgence à l’hôpital indonésien de la bande de Gaza, qui débordait déjà de blessés et de morts.

Des Palestiniens cherchent des survivants sous les décombres de bâtiments détruits à la suite de frappes aériennes israéliennes dans le camp de réfugiés de Jabaliya, dans le nord de la bande de Gaza, mercredi. Photo : Abed Khaled /AP : Abed Khaled /AP

Une autre terroriste a été extraite de l’épave. Cette fois, elle est bien vivante, ses cheveux clairs et bouclés sont blancs de poussière ; elle a cinq ou six ans et est portée par son père. Elle regarde à droite et à gauche, comme pour demander d’où viendra l’aide.

Un homme vêtu d’un gilet en lambeaux griffonne ici et là, un drap blanc plié comme un linceul dans les mains, recouvrant le corps d’un nourrisson, qu’il agite en signe de désespoir. C’est le corps de son fils, un nouveau-né. Ce nourrisson n’avait pas encore eu la chance de rejoindre le quartier général militaire du Hamas dans le camp de réfugiés de Jabaliya. Il n’a vécu que quelques jours - l’éternité d’un papillon - et a été tué.

Des dizaines de jeunes ont continué à creuser dans les décombres à mains nues dans un effort désespéré pour extraire des personnes encore vivantes ou les corps de voisins, soulevant des morceaux de murs détruits pour dégager un enfant dont la main dépassant des ruines. Cet enfant était peut-être un terroriste de la force Nukhba du Hamas.

Tout autour se tiennent des centaines d’hommes, vêtus de haillons, qui se serrent désespérément les mains. Certains d’entre eux fondent en larmes. Un chauffe-eau solaire israélien portant un autocollant en hébreu gît dans les décombres, rappelant les jours passés. « Nous n’avons plus le temps de ressentir quoi que ce soit » déclare Mansour Shimal, un habitant du camp, à Al Jazeera.

Mardi après-midi, des avions de l’armée de l’air israélienne ont bombardé le bloc 6 du camp de réfugiés de Jabaliya. En Israël, on en a à peine parlé. Al Jazeera a rapporté que six bombes avaient été larguées sur le bloc 6, laissant un énorme cratère dans lequel une rangée d’immeubles d’habitation gris est tombée comme un château de cartes. Les pilotes ont dû annoncer qu’ils avaient atteint leur objectif. Les images étaient horribles.

Lorsque je me suis rendu dans le quartier Daraj de Gaza en juillet 2002, au lendemain de l’assassinat de Salah Shehadeh, j’ai vu une scène très dure. Mais elle était pastorale, comparée à ce que l’on a vu à Jabalya mardi. À Daraj, 14 civils avaient été tués, dont 11 enfants, soit environ un dixième du nombre de personnes tuées dans le bombardement de mardi à Jabaliya, selon les rapports palestiniens.

En Israël, les scènes de Jabaliya n’ont pas été montrées. Et pourtant, difficile à croire, elles ont bien eu lieu. Quelques chaînes étrangères les ont diffusées en boucle. En Israël, on a annoncé que le commandant du bataillon central du Hamas à Jabaliya, Ibrahim Biari, avait été tué lors d’une frappe de l’armée de l’air dans le camp de réfugiés le plus peuplé de Gaza et que des dizaines de terroristes avaient été tués. L’assassinat de Shehadeh avait été suivi d’un débat public incisif en Israël. Ce qui s’est passé mardi à Jabaliya a été à peine évoqué ici. Il s’est produit avant que les mauvaises nouvelles concernant les soldats israéliens tués ne soient annoncées, alors que le feu de camp de la guerre crépitait encore.

Selon les rapports, une centaine de personnes ont été tuées dans l’attentat de Jabaliya et quelque 400 ont été blessées. Les images de l’hôpital indonésien étaient tout aussi horribles. Des enfants brûlés jetés les uns à côté des autres, trois et quatre sur un lit sale ; la plupart d’entre eux ont été soignés à même le sol, faute de lits suffisants. Le mot “traitement” n’est pas le bon. En raison du manque de médicaments, des opérations chirurgicales vitales ont été effectuées non seulement à même le sol, mais aussi sans anesthésie. L’hôpital indonésien de Beit Lahia est devenu un véritable enfer.

Israël est en guerre, après que le Hamas a assassiné et kidnappé avec une barbarie et une brutalité qui ne peuvent être pardonnées. Mais les enfants qui ont été extraits des débris du bloc 6 et certains de leurs parents n’ont rien à voir avec les attaques contre Be’eri et Sderot.

Pendant que les terroristes sévissaient en Israël, les habitants de Jabaliya étaient blottis dans leurs baraques dans le camp le plus peuplé de Gaza, réfléchissant à la manière de passer une journée de plus dans ces conditions, qui ont été aggravées par le siège des 16 dernières années. Ils vont maintenant enterrer leurs enfants dans des fosses communes parce qu’à Jabaliya, il n’y a plus de place pour les enterrer individuellement.

 

GIDEON LEVY
Ecco i bambini estratti dopo il bombardamento del campo profughi di Jabalia a Gaza

Gideon LevyHaaretz, 2 novembre 2023
Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Palestinesi che cercano i sopravvissuti sotto le macerie degli edifici distrutti in seguito ai bombardamenti israeliani nel campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, 1 novembre 2023. Abed Khaled /AP

Un terrorista di Hamas è stato estratto dalle macerie, portato in braccio dal padre. Il suo volto è coperto di polvere, il suo corpo si muove ondeggiando come un sacco, il suo sguardo è vuoto. Non è chiaro se sia vivo o morto. È un bambino di tre o quattro anni e il padre, disperato, lo ha trasportato di corsa all’Ospedale Indonesiano della Striscia di Gaza, che era già pieno di feriti e di morti.

Un’altra terrorista è stata estratta dai rottami. Questa volta è chiaramente viva, i suoi capelli chiari e ricci sono bianchi di polvere; ha cinque o sei anni e viene portata in braccio dal padre. Guarda a destra e a sinistra, come se si chiedesse da dove arriveranno i soccorsi.

Un uomo con un gilet a brandelli ha tra le mani un lenzuolo bianco piegato come un sudario con cui copre il corpo di un bambino e lo scuote con disperazione. È il corpo di suo figlio, un neonato. Questo neonato non aveva ancora avuto la possibilità di arruolarsi al quartier generale militare di Hamas nel campo profughi di Jabalia. Aveva vissuto solo pochi giorni – l’eternità di una farfalla – ed è stato ucciso.

Decine di giovani hanno continuato a scavare tra le macerie a mani nude nel disperato tentativo di estrarre persone ancora vive o il corpo di qualche vicino, smuovendo pezzi di muro per liberare un bambino la cui mano spuntava dalle rovine. Forse questo bambino era un terrorista della forza Nukhba di Hamas.

Tutt’intorno ci sono centinaia di uomini, con vestiti stracciati, che si stringono le mani disperati. Alcuni di loro sono scoppiati in lacrime. Un riscaldatore solare israeliano con un adesivo in ebraico giace tra le macerie, a ricordo dei giorni passati. “Non abbiamo tempo per i sentimenti ora”, dice ad Al Jazeera Mansour Shimal, residente del campo.

Martedì pomeriggio, i jet dell’aviazione israeliana hanno bombardato il Blocco 6 del campo profughi di Jabalia. In Israele, la notizia è stata a malapena riportata. Al Jazeera ha riferito che sei bombe sono state sganciate sul Blocco 6, lasciando un enorme cratere, in cui una fila di appartamenti grigi è caduta come un castello di carte. I piloti avranno riferito di aver centrato l’obiettivo. La vista era orribile.

Quando mi sono recato nel quartiere Daraj di Gaza nel luglio 2002, il giorno dopo l’assassinio di Salah Shehadeh, ho visto una scena assai dura. Ma erano paesaggi pastorali rispetto a ciò che si è visto a Jabalia martedì. A Daraj sono stati uccisi 14 civili, di cui 11 bambini: circa un decimo del numero di persone uccise nel bombardamento di martedì a Jabalia, secondo i rapporti palestinesi.

In Israele non hanno mostrato le immagini di Jabalia. Eppure, difficile da credere, sono avvenute. Alcune reti estere le hanno trasmesse a ciclo continuo. In Israele hanno detto che il comandante del battaglione centrale di Hamas a Jabalia, Ibrahim Biari, è stato ucciso in un attacco dell’aviazione nel campo profughi più affollato di Gaza e che decine di terroristi sono stati uccisi. L’uccisione di Shehadeh fu seguita da un incisivo dibattito pubblico in Israele. Quello che è avvenuto martedì a Jabalia è stato a malapena raccontato. È accaduto prima che venissero diffuse le brutte notizie sui soldati israeliani uccisi, mentre il fuoco di guerra continuava a crepitare.

Secondo i rapporti, circa 100 persone sono state uccise nell’attentato di Jabalia e circa 400 sono rimaste ferite. Le immagini dell’Ospedale Indonesiano erano terribili. Bambini bruciati gettati uno accanto all’altro, tre o quattro su un letto sudicio; la maggior parte di loro è stata curata sul pavimento per mancanza di letti sufficienti. “Curare” è la parola sbagliata. A causa della mancanza di medicinali, gli interventi chirurgici salvavita sono stati eseguiti non solo sul pavimento, ma anche senza anestesia. L’Ospedale Indonesiano di Beit Lahia è ora un inferno.

Israele è in guerra, dopo che Hamas ha ucciso e rapito con una barbarie e una brutalità che non possono essere perdonate. Ma i bambini estratti dalle macerie del Blocco 6 e alcuni dei loro genitori non hanno nulla a che fare con gli attacchi a Be’eri e Sderot.

Mentre i terroristi imperversavano in Israele, gli abitanti di Jabalia erano rannicchiati nelle loro capanne nel campo più affollato di Gaza, pensando a come passare un altro giorno in queste condizioni, peggiorate dall’assedio della Striscia degli ultimi 16 anni. Ora seppelliranno i loro figli in fosse comuni perché a Jabalia non c’è più spazio per tombe individuali.

GIDEON LEVY
These Are the Children Extracted After the Bombardment of Gaza's Jabaliiya Refugee Camp

 Gideon Levy, Haaretz, 2/11/2023

A Hamas terrorist was taken out of the debris, carried in his father’s arms. His face is covered with dust, his body jerking like a sack, his stare blank. It’s not clear if he’s alive or dead. He is a toddler of three or four, and his desperate father rushed him to the Gaza Strip's Indonesian Hospital, which was already bursting with wounded and dead people.


Palestinians look for survivors under the rubble of destroyed buildings following Israeli airstrikes in Jabaliya refugee camp, northern Gaza Strip, on Wednesday. Photo: Abed Khaled /AP

Another terrorist was extracted from the wreckage. This time she’s clearly alive, her fair, curly hair is white with dust; she’s five or six, being carried by her father. She looks right and left, as though asking where help will come from.

A man in a tattered vest scribbles here and there, a white sheet folded like a shroud in his hands, covering an infant’s body, and he’s waving it in despair. It’s the body of his son, a newborn baby. This infant hadn’t yet had a chance to join Hamas’ military headquarters in the Jabaliya refugee camp. He had only lived a few days – a butterfly’s eternity – and was killed.

Dozens of youngsters continued digging in the rubble with their bare hands in a desperate effort to extract still-living people or the bodies of neighbors, raising destroyed walls from the hand of a child sticking out of the ruins. Perhaps this child was a terrorist in Hamas' Nukhba force.

All around stood hundreds of men, dressed in rags, clasping their hands together hopelessly. Some of them burst into tears. An Israeli solar heater with a Hebrew sticker lies in the rubble, a reminder of days gone by. “We have no time for feelings now,” says camp resident Mansour Shimal to Al Jazeera.

On Tuesday afternoon, Israel Air Force jets bombed Block 6 in the Jabaliya refugee camp. In Israel, it was barely reported. Al Jazeera reported that six bombs had been dropped on Block 6, leaving a huge crater, into which a row of gray apartment buildings fell like a house of cards. The pilots must have reported successful hits. The sights were horrific.

When I went to Gaza’s Daraj Quarter in July 2002, the day after Salah Shehadeh’s assassination, I saw harsh sights. But they were pastoral compared to what was seen in Jabaliya on Tuesday. In Daraj, 14 civilians were killed, 11 of them children – about a tenth of the number of people killed in the bombing on Tuesday in Jabaliya, according to Palestinian reports.

In Israel, they didn’t show the Jabaliya scenes. And yet, hard to believe, they did take place. A few foreign networks broadcast them in a loop. In Israel, they said the commander of Hamas’ central battalion in Jabaliya, Ibrahim Biari, was killed in an air force strike in the most crowded refugee camp in Gaza and that dozens of terrorists had been killed. Shehadeh’s killing was followed by a penetrating public debate in Israel.

What took place on Tuesday in Jabaliya was barely even heard about here. It happened before the bad news about the Israeli soldiers who were killed was released, while the wartime campfire was crackling away.

According to the reports, about 100 people were killed in the Jabaliya bombing and some 400 were wounded. The pictures from the Indonesian Hospital were horrifying, no less. Burnt children thrown one beside another, three and four on one filthy bed; most of them were treated on the floor for lack of enough beds. “Treatment” is the wrong word. Due to the lack of medicines, life-saving surgery was carried out not only on the floor, but without anaesthesia. The Indonesian Hospital in Beit Lahia is now a hell.

Israel is at war, after Hamas murdered and kidnapped with barbarism and brutality that cannot be forgiven. But the children who were extracted from the debris of Block 6 and some of their parents have nothing to do with the attacks on Be’eri and Sderot.

While the terrorists ran rampant in Israel, Jabaliya’s people were huddled in their huts in Gaza’s most crowded camp, thinking how to pass another day in these conditions, which were worsened by the siege of the last 16 years. Now they will bury their children in mass graves because in Jabaliya, there's no room left for individual ones.