20/01/2022

SUZANNE O’SULLIVAN
Il mistero dei bambini “addormentati” della Svezia
Una neurologa indaga sulla “sindrome della rassegnazione” nei figli dei richiedenti asilo

Suzanne O’SullivanThe Sunday Times, 28/3/2021
Tradotto da Silvana Fioresi, Tlaxcala
 

Estratto dal libro The Sleeping Beauties: And Other Stories of Mystery Illness [“Le belle addormentate e altre storie di malattie misteriose”, non ancora tradotto in italiano], pubblicato in aprile 2021 presso Picador Editore.

Nel paese scandinavo, centinaia di giovani rifugiati sono caduti in uno stato di apatia generalizzata in questi ultimi vent’anni. Senza che nessuno riesca a capire perché. In loco, una conosciuta neurologa irlandese ha portato avanti l’inchiesta. 

Appena passata la soglia, mi sono subito sentita un’oppressione. Nola è sdraiata sopra a un letto, alla mia destra. Deve avere una decina d’anni. È la sua camera. Sapevo cosa mi aspettava, lo credevo, ma in realtà non ero pronta. Cinque persone e un cane sono appena entrati nella stanza, senza provocare nella ragazzina alcun minimo segno di reazione. Rimane perfettamente immobile, con gli occhi chiusi, si potrebbe dire tranquilla.

“È così da più di un anno e mezzo”, precisa la dottoressa Olssen, chinata su Nola per carezzarle dolcemente la guancia.

 

Djeneta, a destra, una rifugiata rom immobile a letto, senza reazioni da due anni e mezzo, e sua sorella, Ibadeta, da più di sei mesi, a Horndal, in Svezia, il 2 marzo 2017. Foto MAGNUS WENNMAN*

Sono a Horndal, in Svezia, un piccolo comune a 160 km a nord di Stoccolma. La dottoressa Olssen si occupa di Nola fin dall’inizio della sua malattia, conosce bene la sua famiglia. Tira le tende per lasciare entrare la luce e si volta verso i genitori di Nola: “Le bambine devono poter rendersi conto che è giorno. Hanno bisogno di sentire il sole sulla pelle”.

“Sanno che è giorno, risponde la madre, sulla difensiva. Le mettiamo sempre sedute fuori, di mattina. Le abbiamo rimesse a letto adesso perché sapevamo che venivate”.

Il petto che si gonfia è il suo unico segno di vita

Nola non è la sola ad occupare questa camera. Sua sorella Helan, più grande di lei di circa un anno, è anche lei sdraiata nel letto al piano inferiore del letto a castello, alla mia sinistra. Da dove mi trovo io, vedo solo la pianta dei suoi piedi. Il letto in alto, quello di suo fratello, è vuoto. Lui, non è malato: l’ho intravisto all’angolo di una porta, mentre andavo in camera. Se sono qui, è perché sono neurologa, specialista delle malattie cerebrali, e perché conosco bene il potere dello spirito sul corpo.

Mentre mi avvicino al letto di Nola, getto uno sguardo in direzione di Helan – a mia grande sorpresa la vedo socchiudere gli occhi, per guardarmi, un secondo, per poi richiuderli.

“È sveglia”, ho detto alla dottoressa Olssen.

“Si’, Helan è solo al primo stadio della malattia”.

Stesa sulle lenzuola del suo letto e pronta per il mio arrivo, Nola, invece, non manifesta nessun segno di coscienza. Indossa un vestito rosa e dei collant a quadri neri e bianchi. Ha i capelli spessi e brillanti, ma un colorito pallido. Il rosa delle sue labbra è spento, leggermente slavato. Le sue mani sono appoggiate una sull’altra sul suo ventre. Ha l’aria serena, come la principessa che ha dato un morso alla mela avvelenata. Unico segno incontestabile della sua malattia, la flebo tramite sonda nasogastrica il cui tubicino, inserito nel naso, è incollato alla guancia grazie a un cerotto. Unico segno di vita, il suo petto che sale e scende, piano piano.

Un processo lento di chiusura in sé stessa

Mi inginocchio vicino al suo letto per presentarmi a lei. Anche se non mi sente, so per certo che non capirà quello che dico: Nola conosce solo qualche parola d’inglese, e io, per quanto mi riguarda, non parlo né lo svedese né il curdo, la sua lingua materna – spero tuttavia di rassicurarla grazie al tono della mia voce.

Oltre a Nola e a Helan, diverse centinaia di casi di bambini “addormentati” sono stati individuati in Svezia da vent’anni a questa parte. Secondo quanto si dice, il fenomeno sarebbe comparso negli anni ‘90, ma il numero di bambini interessati è aumentato col cambio del secolo. Solo tra il 2003 e il 2005 sono stati contati 424 casi. Da allora ne sono apparsi altre diverse centinaia. Se il fenomeno riguarda maschi e femmine, queste ultime sono leggermente più numerose.

Gli inizi della malattia sono in genere insidiosi. I bambini sviluppano dell’ansietà e dei sintomi depressivi, e il loro comportamento cambia: all’inizio smettono di giocare con gli altri, prima di abbandonare completamente il gioco. Si chiudono progressivamente in sé stessi, al punto che, molto in fretta, non possono più andare a scuola. Parlano sempre meno, fino a non pronunciare più neanche una parola. Poi arriva l’immobilità. A termine, smettono di interagire in un qualunque modo con il mondo.

Analisi mediche totalmente normali

I primi bambini colpiti sono stati ricoverati in ospedale. Su di loro sono stati svolti dei profondi esami clinici: tutti i pazienti avevano delle analisi perfettamente normali, soprattutto gli elettroencefalogrammi che contraddicevano il loro stato apparentemente incosciente. Anche su bambini che non rispondevano più a nessuno stimolo, l’elettroencefalografia mostrava ancora gli stessi cicli veglia/sonno che su individui in buona salute. In fin dei conti, il ricovero non portava loro alcun vantaggio, i bambini furono rimandati a casa e affidati ai loro genitori.  I pazienti interessati avevano dai 7 ai 19 anni; nel migliore dei casi la malattia durava solo qualche mese, ma molti restavano per anni in questo stato di sonno – tra l’altro alcuni non ne sono mai usciti.

Fin dalla sua prima comparsa, il fenomeno era senza precedenti, e sembrava che nessun termine fosse adatto per descriverlo. Il coma implica una perdita di coscienza profonda, invece alcuni bambini sembravano ancora avere coscienza del loro ambiente circostante. Gli esami mostravano che il loro cervello rispondeva agli stimoli esterni. La parola “sonno” non conveniva meglio: descrive uno stato naturale, invece il sonno di questi bambini, più prossimo alla letargia, non lo era. Alcuni medici svedesi optarono infine per il termine di “apatia”, e nel giro di diversi anni la patologia ha avuto un’appellazione medica ufficiale: Uppgivenhetssyndrom, dal verbo giva upp, rinunciare, o “sindrome della rassegnazione”, in italiano.

Una spiegazione neurologica?

La dottoressa Olssen ha rialzato il vestito di Nola fino al ventre, senza che la ragazzina battesse ciglio. Ha un pannolino sotto i collant. La dottoressa le palpa lo stomaco e l’ausculta con lo stetoscopio, prima di ascoltarle il cuore e i polmoni. “Il suo ritmo cardiaco è a 92, è molto”.

Questa otorinolaringoiatra in pensione si sforza per cercare di aiutare i bambini e sostenere le famiglie. Conta sulle mie competenze di neurologa per trovare una spiegazione a questo male fino ad ora inesplicabile, per interpretare i segni clinici e fare in modo di dare una legittimità alle sofferenze di queste ragazzine e convincere qualcuno a venir loro in aiuto. Perché la medicina moderna è così: se la malattia impressiona, non è il caso di un male senza alcuna manifestazione patologica.

Ho preso le gambe di Nola per palparle i muscoli, le muovo le membra per valutarne la mobilità e il tono. All’auscultazione, i muscoli sembrano in buona salute, per nulla atrofizzati. I riflessi sono normali. A parte la sua assenza di reazione, non c’è niente di anormale.

“Nola è stata la prima ad ammalarsi, spiega la dottoressa Olssen. In Helan, i sintomi sono apparsi al terzo rifiuto di richiesta di asilo, quando la sua famiglia ha ricevuto l’ordine di lasciare la Svezia”.

Una vita di traumi

Se la dottoressa Olssen ci tiene a capire le turbe cerebrali all’origine dell’apatia delle ragazzine, tutti (famiglia, corpo medico, poteri pubblici) in realtà sanno perché Nola e Helan sono malate. E tutti sanno benissimo quello che servirebbe per farle stare meglio.

Perché la sindrome della rassegnazione non colpisce per caso. Tocca esclusivamente i figli dei richiedenti asilo. Sono giovani che hanno subito dei traumi ben prima di ammalarsi. Alcuni, tra l’altro, presentavano leggeri antecedenti prima di arrivare in Svezia, ma per la maggior parte hanno cominciato a rinchiudersi in sé stessi solo quando la loro famiglia ha iniziato la lunghissima procedura della richiesta di asilo.

La famiglia di Nola proviene dalla minoranza yazidi, presente in Iraq, in Siria e in Turchia. Questo popolo, stimato a meno di 700 000 persone nel mondo, è il bersaglio di persecuzioni da secoli. Solo nel XIX e nel XX secolo gli yazidi hanno subito 72 genocidi; nel XXI secolo, numerosi sanguinosi attentati li hanno presi di mira in Iraq e in Siria.

 

Gli Yazidi e altri gruppi etnici perseguitati sono colpiti in modo sproporzionato dalla sindrome. Foto RODI SAID/REUTERS

Prima del loro arrivo in Svezia, Nola e la sua famiglia abitavano in Siria in un villaggio poverissimo: una vita segnata dalla paura e dalla violenza, fino ad essere costretti a fuggire. Arrivati alla frontiera svedese, non avevano niente per provare la loro identità, e da dove venivano. Le autorità hanno stimato l’età dei bambini: 2 anni e mezzo per Nola, 3 anni e mezzo per Helan, 1 anno per il fratellino. Senza alcuna nozione di svedese, incapaci di decifrare l’alfabeto latino, non avevano alcun mezzo per farsi capire, né per fare verificare le loro origini e la loro identità.

Una procedura di richiesta di asilo lenta

All’epoca, la Svezia praticava una politica di apertura ai rifugiati, e la famiglia di Nola beneficiò di un permesso di soggiorno temporaneo. La procedura per la richiesta di asilo è lenta. Nola e Helan sono scolarizzate prima di lanciare la procedura ufficialmente. Passano diversi anni, la richiesta di asilo della famiglia è presa in considerazione, poi rifiutata, ma possono fare un ricorso, e anche due. Poi è scoppiata la guerra in Siria e la loro terra natale è diventata ancora più pericolosa per loro. In questo momento Nola manifesta i primi segni di chiusura.  

Oggi è in Svezia che i bambini hanno passato la maggior parte della loro vita. Ignoro quello che Nola e Helan sanno del luogo in cui sono nate, ma anche se questo argomento non è mai stato affrontato in modo esplicito, loro hanno risentito certamente la paura associata a un eventuale ritorno.

Osservo Helan. Come Nola, come la loro madre, possiede lunghi capelli neri, spessi. È ammalata solo da qualche mese – risale al rifiuto della terza richiesta di asilo della famiglia, la terza e l’ultima.

“Come in un sogno dal quale non vogliono svegliarsi”

Sam, il marito della dottoressa Olssen, conosce bene, come sua moglie, le famiglie dei bambini colpiti dalla sindrome della rassegnazione. Ha un volto dolce e una barba bianca, la nazionalità americana, e una formazione come psicologo. Quando un’autorizzazione di soggiorno è rilasciata, mi ha raccontato il giorno prima, i bambini si risvegliano, ma non di certo da un momento all’altro: il recupero è altrettanto progressivo e laborioso di quanto lo era stata la caduta nell’apatia. Ci possono volere dei mesi, o anche più, e questo dipende anche dal tempo di durata della malattia per ognuno di loro.   

 

Una bambina yazida colpita dalla sindrome della rassegnazione nell’appartamento familiare a Horndal, in Svezia. Foto MAGNUS WENNMAN

Anche se non si nota nessun risveglio miracoloso, i bambini, una volta ristabiliti, crescono bene nella loro nuova vita. Aliya, una piccola che hanno seguito gli Olssen, apparteneva a una minoranza perseguitata che era scappata da una ex repubblica sovietica. Nonostante una vita scolastica fino a quel momento caotica, e un ingresso tardivo nel sistema scolastico svedese, è diventata una bravissima allieva e oggi studia legge.

“Vi ha raccontato quello che aveva sentito quando soffriva della sindrome della rassegnazione?”, chiedevo. “Si sentiva come in un sogno dal quale non voleva svegliarsi”. Questa descrizione mi piace – il destino di questi bambini fa meno paura.

Una routine per accorgersi del tempo che passa

In camera, la mamma si è seduta a bordo del letto di Nola e le passa una spazzola lungo le braccia e le gambe – un esercizio semplice di stimolazione sensoriale che esegue ogni giorno.

Sempre ogni giorno, qualcuno della famiglia lava le bambine e le veste. È per instaurare una routine perché continuino a sentire il tempo che passa, mattino, pomeriggio, sera. Le cambiano la posizione nel letto per evitare le piaghe, le umidificano le labbra. Hanno provato a dar loro una cannuccia per farle bere, Helan se ne serve, ma Nola non se n’è neanche resa conto. Usciamo dalla stanza, e le due ragazzine sono nella stessa posizione di quando siamo arrivati.

Quando gli esami condotti sui primi bambini malati non hanno prodotto nessun risultato, evidentemente alcuni li hanno accusati di fare apposta. Però, essendo dei piccoli di soli 7 anni che cessano totalmente di reagire, anche durante i loro ricoveri in ospedale, nessun bambino sarebbe capace di simulare una tale apatia.  

Non ci stupiscono, quindi, i tanti sforzi spiegati per capire i meccanismi psicologici che sottintendono la sindrome della rassegnazione. Diverse teorie, incomplete, tentano di spiegare il funzionamento di questo disturbo. Alcuni medici hanno notato presso questi bambini un ritmo cardiaco e una temperatura corporea alti, che fanno pensare a una reazione allo stress indotta dagli ormoni o dal sistema nervoso autonomo [che controlla alcuni processi come la respirazione senza sforzo cosciente da parte della persona] e che potrebbe in parte spiegare questo disturbo.

Delle spiegazioni biologiche non tanto soddisfacenti

Il problema, con le osservazioni fatte e le teorie avanzate, è che né gli ormoni dello stress, né il sistema nervoso autonomo, né un cattivo sviluppo cerebrale possono spiegare la durata e l’intensità anormali delle manifestazioni fisiologiche di questa malattia, né la sua sorprendente ripartizione geografica. Ci sono delle famiglie di rifugiati ovunque nel mondo, ma sono rari gli individui che reagiscono alla loro sorte come fanno questi bambini in Svezia. Lo stress è frequente, ma non la sindrome della rassegnazione.

Se si sono ammalati una volta arrivati in Svezia, i bambini colpiti da questa sindrome avevano già subito dei traumi prima. Possiamo quindi dedurne che questi traumi precedenti giocano un ruolo importante nella malattia. Forse una forma di stress post-traumatico? A meno che le prove attraversate abbiano colpito i genitori nella loro capacità di   crescere i loro figli al punto che il loro sviluppo emozionale ne sia perturbato?

Resta il fatto che né le spiegazioni psicologiche né le constatazioni biologiche sono sufficienti anche se prese insieme. L’ipotesi psicologica mette eccessivamente l’accento sullo stress e più globalmente lo stato mentale del paziente, senza tenere abbastanza in considerazione il contesto generale. Senza contare che sfocia inevitabilmente sulla ricerca dei colpevoli, e sul fatto di mettere in causa il bambino e la sua famiglia.

Perché questa sindrome è così localizzata?

In quanto neurologa, dovrei poter apportare un chiarimento particolare ai meccanismi cerebrali all’origine di un disturbo. Ma di fronte a Nola e Helan, in questa camera, penso che le disfunzioni neurologiche responsabili dell’apatia di queste bambine giovanissime sono solo una conseguenza, e la parte meno decisiva della storia. È tutta la loro vita, per quanto corta possa essere, che ha portato Nola e Helan in questa camera svedese, costrette a letto, dietro a tende chiuse mentre il sole fuori brilla.  

A lungo, la sindrome della rassegnazione era confinata ai figli dei richiedenti asilo in Svezia [è stata osservata anche in un centro di ritenzione australiano sull’isola di Nauru], e, inoltre, non a tutti: i bambini venuti da ex paesi dell’URSS e dei Balcani erano più toccati di altri. Oggi gli Yazidi e gli Uiguri, che sono oggetto di persecuzioni più intense in questi ultimi anni, sono particolarmente toccati, anche loro. Le altre nazionalità e altri gruppi etnici sono per così dire risparmiati.

Perché la sindrome della rassegnazione non appare ovunque nel mondo? Perché non tocca individui di diverse età e origini? Nessuna società è risparmiata dai traumi e dalle difficoltà, e tutti gli esseri umani hanno un funzionamento cerebrale identico. La selettività della malattia mostra proprio che non può essere considerata come un disturbo puramente biologico, causato dagli ormoni e dai neurotrasmettitori, ma neppure che non bisogna considerarlo come un male puramente psicologico, e quindi legato alla personalità dell’individuo. Ora che conosco la storia di Nola e di Helan, mi sembra evidente che bisogna scavare nella dimensione culturale della patologia. La sindrome della rassegnazione potrebbe essere un fenomeno socioculturale.

La disperazione come molla di innesco

Se la malattia ha cause culturali e sociali, queste non si devono comunque cercare nel paese d’origine, ma piuttosto in un percorso e in una serie di circostanze. Le fragilità nei bambini, indotte dalla loro vita precedente, giocano certo un ruolo importante, ma come anche il loro percorso per raggiungere la Svezia, e la loro vita in questo paese. Le stesse Nola e Helan hanno passato la maggior parte della loro esistenza in Svezia.

La Svezia è stata innanzitutto un paese accogliente per la famiglia delle due bambine. Questi esiliati si sono visti accordare prima di tutto un permesso di soggiorno e un alloggio, per il tempo che serviva per l’esame della loro richiesta di asilo. L’istruzione del dossier è stata lunga, diversi anni. Senza essere stati accusati di niente, i parenti delle ragazzine hanno avuto la sensazione di essere meno ascoltati piuttosto che di subire degli interrogatori. Il sistema dell’asilo cerca più quello che potrebbe impedire una richiesta di quello che potrebbe sostenerla. La presenza di bambini è generalmente richiesta durante i colloqui.

Molti ritengono che la sindrome della rassegnazione abbia come molla d’innesco la disperazione, e il recupero della speranza come rimedio, possiamo quindi pensare che la lunghezza della procedura di asilo non sia estranea allo sviluppo della malattia. Eccitazione e sconforto si sono alternati durante tutta, o quasi, la vita di Nola e Helan – e questo ha per forza delle conseguenze fisiologiche.

Dare più importanza al contesto sociale

C’è molto da imparare dal percorso e dalla situazione dei bambini colpiti dalla sindrome di rassegnazione. Il contesto sociale è un fattore troppo spesso trascurato nella ricerca delle cause di una malattia, a profitto di analisi fisiologiche e biologiche. Piccole epidemie di disturbi psicosomatici sorgono ovunque nel mondo tutti gli anni, ma solo perché toccano dei gruppi isolati non vengono fatti dei legami tra loro, e non si traggono preziose conclusioni.

Oggi ormai è passato più di un anno da quando sono andata a trovare Nola e Helan. Nessuna delle due è guarita. La loro richiesta di asilo non è stata accettata, e loro sono sempre inferme a letto. È in quanto neurologa che sono andata a vederle, ma più penso a loro, più imparo qualcosa di nuovo sul loro male, e meno credo che sia ambito della neurologia, e neppure della medicina.

 

*Al di là della foto

La foto, vincitrice del premio World Press Photo 2018,  intitolata Sindrome della rassegnazione, di Magnus Wennman, mostra Djeneta, a destra, una rifugiata rom costretta a letto e senza reazioni da due anni e mezzo, e sua sorella, Ibadeta, da più di sei mesi, a Horndal, in Svezia, il 2 marzo 2017.

L'immagine ha ispirato la neurologa Suzanne O'Sullivan a incontrare le bambine, poi Nola e Helan, che appaiono nel suo nuovo libro, The Sleeping Beauties. “Sono rimasta scioccata quando ho realizzato che un problema puramente sociale si era in un certo modo cristallizzato in questa condizione biologica estrema”, racconta O'Sullivan. “Queste ragazze mi hanno incitata a cercare di capire come una tale cosa fosse possibile”.

 

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