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21/12/2023

A. RUGGERI/M.VIETA
Javier Milei ha colto il malcontento di una nuova classe operaia informale

Andrés Ruggeri e Marcelo Vieta, Jacobin, 14/12/2023
Tradotto da Fausto Giudice, Tlaxcala

Pubblicato su Jacobin Italia

Originale: Javier Milei Has Tapped Into the Discontent of a New, Informal Working Class
 Español:
Milei captó el descontento de la clase trabajadora informal
Français:
Javier Milei a su capter le mécontentement d’une nouvelle classe ouvrière informelle


Marcelo Vieta è professore associato nel programma di Educazione degli adulti e sviluppo comunitario dell’Università di Toronto. È autore di Workers’ Self-Management in Argentina e coautore di Cooperatives at Work. Bibliografia. @VietaMarcelo


Andrés Ruggeri (Buenos Aires, 1967) è antropologo sociale (UBA) e dal 2002 dirige il programma Facultad Abierta, un’équipe della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’UBA che sostiene, consiglia e ricerca le imprese di proprietà dei lavoratori. Dal programma ha coordinato quattro indagini nazionali sulle imprese recuperate e diversi progetti universitari di volontariato e di estensione, oltre alla creazione nel 2004 del Centro di Documentazione delle imprese recuperate che opera nella Cooperativa Chilavert Artes Gráficas. È autore e coautore di diversi libri specializzati sull’argomento e ha tenuto conferenze e corsi in diversi Paesi dell’America Latina, dell’Europa e dell’Asia. Dal 2007 coordina l’organizzazione dell’incontro internazionale ¿La Economía de los Trabajadores? che ha già avuto due edizioni in Argentina, una in Messico e un’altra in Brasile, oltre a un incontro europeo in Francia. È anche autore del libro Del Plata a La Habana. América en bicicleta, in cui racconta il suo viaggio del 1998 attraverso l’America Latina in solidarietà con la Rivoluzione cubana. Successivamente, ha fatto il giro del mondo in tandem attraversando 22 paesi del Terzo mondo con la sua compagna Karina Luchetti. Insegna anche un seminario di specializzazione in Antropologia e Storia (UBA) ed è direttore della rivista Autogestión Para otra economía.  Articoli in diverse lingue. @RuggeriAndres1


La cosa più sorprendente dell’elezione di Javier Milei, ultraliberista di estrema destra, è stata la sua capacità di conquistare gran parte del voto della classe operaia. La capacità di parlare alle ansie del crescente settore precario del paese dovrebbe essere un campanello d’allarme per la sinistra

Il «fenomeno Milei» in Argentina ha preso piede quando il politico di estrema destra ha ottenuto una vittoria inaspettata alle primarie presidenziali di agosto. Ora che indossa la fascia presidenziale, Javier Milei è il primo anarco-capitalista e ultraliberista autoproclamato a guidare una grande economia nazionale.

Il Presidente dell’Argentina Javier Milei arriva per una funzione interreligiosa nella Cattedrale Metropolitana dopo la cerimonia di insediamento presidenziale il 10 dicembre 2023 a Buenos Aires, Argentina. (Marcos Brindicci / Getty Images)

Economista di formazione, Milei si è fatto conoscere come personaggio televisivo e dei social media incline alle imprecazioni e ai toni misogini. Il suo ingresso ufficiale nella politica argentina è avvenuto poco dopo, nel 2021, quando ha ottenuto un seggio al Congresso nazionale. Praticante di lunga data del sesso tantrico, devoto ai guru del neoliberismo Friedrich von Hayek e Milton Friedman e proprietario di diversi mastini inglesi clonati che chiama i suoi «figli a quattro zampe», Milei ha proclamato poche ore dopo aver battuto il suo avversario peronista che «tutto ciò che può essere nelle mani del settore privato sarà nelle mani del settore privato».

Milei ha in mente tutte le 137 aziende pubbliche argentine, come la compagnia energetica statale Yacimientos Petrolíferos Fiscales (Ypf), la vasta rete di media pubblici del paese (Radio Nacional, TV Pública e l’agenzia di stampa Télam), il servizio postale e la compagnia aerea nazionale Aerolineas Argentinas. Ha anche lasciato intendere che smantellerà il sistema sanitario pubblico argentino e privatizzerà gran parte dei sistemi di istruzione primaria e universitaria, compreso l’istituto di ricerca sull’istruzione superiore finanziato con fondi pubblici. Milei ha anche corteggiato i capitali statunitensi per condurre un’estrazione non regolamentata delle ingenti riserve di litio e di gas di scisto del paese. Forse la cosa più sfacciata è che ha promesso di eliminare la Banca centrale argentina, di dollarizzare l’economia (seguendo gli esempi di Ecuador, El Salvador e Zimbabwe), di liberalizzare i mercati e di eliminare i rigidi controlli sui cambi del paese.

Scioccante, certo, ma queste proposte neoliberiste non sono nuove in Argentina. José Martinez de Hoz, ministro dell’economia della sanguinosa dittatura di Jorge Videla alla fine degli anni Settanta, e Domingo Cavallo, ministro dell’economia di Carlos Menem nei neoliberisti anni Novanta, hanno dato vita a politiche economiche altrettanto regressive. In effetti, Roberto Dromi, ministro dei lavori pubblici di Menem, proclamò quasi alla lettera lo stesso messaggio più di trent’anni fa: «Nulla di ciò che è di proprietà dello Stato rimarrà nelle mani dello Stato».

Il «piano motosega» di Milei (Plan motosierra, la sua versione del «prosciugare la palude» di Trump) sarà probabilmente contestato nelle due camere del Congresso del paese, dove la sua coalizione La Libertà Avanza è in minoranza. Tuttavia, le minacce di misure di austerità possono essere eseguite dal potere presidenziale di legiferare per decreto e molte di esse verranno senza dubbio attuate. A lungo termine, i risultati saranno devastanti per l’Argentina.

Anche se, ancora una volta, non sono senza precedenti. Negli anni Novanta, l’amministrazione Menem ha supervisionato la massiccia vendita di beni pubblici, l’ancoraggio del peso al dollaro (di fatto, un programma di dollarizzazione) e le liberalizzazioni del mercato, il tutto all’insegna del controllo dell’inflazione e dell’austerità. Queste misure hanno portato a una disoccupazione massiccia (ufficialmente oltre il 20%), a tassi record di precarietà e indigenza (oltre la metà della popolazione), alla delocalizzazione di gran parte della capacità produttiva argentina, alla presa di controllo sull’economia nazionale da parte delle multinazionali e a disordini sociali estremi.

La vittoria di Milei suggerisce che, se non altro, il ricordo di questi anni si è affievolito per gran parte dell’elettorato argentino, sommerso da un tasso di inflazione superiore al 185% per il 2023 e da un forte aumento dell’insicurezza, fomentato dalle notizie quotidiane e dai social media.

I prossimi mesi mostreranno fino a che punto il nuovo governo Milei sarà in grado di portare avanti la sua agenda neoliberale e se il suo governo manterrà il consenso durante l’attuazione delle misure annunciate. La risposta dei settori popolari storicamente militanti in Argentina potrebbe essere decisiva. Quel che è certo è che, per l’opposizione politica e per la maggior parte dei lavoratori, la strada da percorrere sarà dura.


Marcelo Spotti

 «Non ce l’aspettavamo!»

Forse la vera novità dell’agenda ultraliberista di Milei è la sua schietta onestà. I nuovi ministri e portavoce del governo hanno già avvertito gli argentini di prepararsi a giorni austeri. Milei ha anche dichiarato che risponderà a qualsiasi forma di protesta sociale con misure repressive estreme, rievocando i giorni più bui della dittatura civico-militare.

Una delle grandi sorprese della vittoria di novembre è stata quella di aver goduto del sostegno dei settori della classe operaia argentina tradizionalmente orientati a sinistra: Il 50,8% degli elettori salariati, il 47,4% dei pensionati, il 50,9% degli elettori del settore informale, il 52,3% dei lavoratori del commercio e quasi il 30% della tradizionale base peronista hanno votato per Milei. Oltre al 25-30% di elettori che costituiscono la base di destra di Milei, circa il 53% dei votanti sotto i trent’anni, e ai voti trasferiti dalla destra tradizionale e dall’alta borghesia che sostenevano la coalizione Juntos por el Cambio di Mauricio Macri e Patricia Bullrich, che messi insieme hanno garantito una comoda vittoria a Milei.

Eppure, nonostante il clamoroso successo di Milei alle primarie di agosto e al ballottaggio di novembre – per non parlare della sua lunga visibilità mediatica – la frase che circola nella sfera politica e intellettuale argentina è «non ce l’aspettavamo!». Questa è stata la posizione ufficiale del governo di sinistra peronista uscente di Alberto Fernández e del candidato in corsa Sergio Massa. La campagna elettorale di Massa, che ha perso, ha cercato di sminuire Milei a uno spettacolo politico marginale da cartoni animati, senza successo.

Ignorata dall’establishment politico e mediatico, la coalizione di estrema destra di Milei segna l’inasprimento di cambiamenti socioeconomici che hanno ricevuto poca attenzione. A un’analisi più attenta, l’inflazione ostinata e acuta senza una risposta efficace da parte del governo, le sfide persistenti lasciate dalla pandemia, la crescente influenza dei social media e la forte polarizzazione del discorso politico hanno reso l’ascesa di una personalità come Milei – la versione argentina di Jair Bolsonaro o Donald Trump – un fenomeno prevedibile.

L’elefante che nessuno ha visto

Ci si chiede allora perché il «piano motosega» di Milei abbia risuonato tra i poveri e i lavoratori argentini, che saranno i più colpiti dalle sue politiche. Una spiegazione è che Milei arriva sulla cresta dell’onda neoliberale che, per decenni, ha eroso lo stato sociale e la base industriale tradizionalmente forte dell’Argentina (come dimostra il fatto che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, il paese ha goduto di lunghi periodi di piena occupazione). L’ondata neoliberista ha portato con sé l’abbraccio totale di una razionalità economica che un tempo sembrava estranea al senso comune argentino.

Durante l’amministrazione neoliberale di Mauricio Macri, dal 2015 al 2019, è diventato un luogo comune parlare degli «elefanti che ci sono passati accanto», riferendosi alle politiche socioeconomiche regressive attuate dal macrismo. Queste politiche comprendevano un massiccio debito finanziato dal Fondo Monetario Internazionale, un’alta inflazione e la fuga di capitali, che i media del paese hanno per lo più ignorato o nascosto. Tuttavia, c’era un altro elefante nella stanza che molti non hanno riconosciuto: la forte crescita del settore lavorativo informale e precario, che esisteva al di fuori di qualsiasi organizzazione sindacale o programma sociale governativo. Il settore informale, in crescita e di dimensioni considerevoli, è stato assente dal dibattito pubblico argentino per un decennio, considerato da economisti e leader politici come un fenomeno passeggero, senza rappresentazione e senza voce politica. Era solo questione di tempo prima che una figura come Milei iniziasse a usare un linguaggio in sintonia con questo nuovo settore della classe operaia.

Costituito da lavoratori dell’economia sommersa, freelance, precarizzati e dei servizi, questo settore è cresciuto in modo esponenziale durante la pandemia. Molti argentini hanno sofferto durante i rigidi periodi di lockdown che si sono protratti per gran parte del 2020 e fino al 2021, ma la pandemia ha colpito in modo particolarmente duro questo nuovo gruppo di lavoratori informali e senza contratto, che hanno continuato a lavorare per tutto il tempo senza le tutele sociali previste per gli altri settori.

Conosciuto ufficialmente come Aislamiento Social, Preventivo y Obligatorio (Isolamento Sociale, Preventivo e Obbligatorio, o Aspo), il mandato di lockdown nazionale ha messo in evidenza le contraddizioni e le complessità legate alla necessità di scegliere tra la cura della salute pubblica e la cura dell’economia. Il governo di Alberto Fernández è salito al potere nel dicembre 2019, pochi mesi prima che la pandemia costringesse la nuova amministrazione ad approvare un pacchetto di misure come l’Atp (Assistenza al Lavoro e alla Produzione) – sussidi salariali per i lavoratori formali per evitare licenziamenti e chiusure di aziende – e l’Ife (Reddito Familiare di Emergenza), una garanzia di reddito rivolta ai lavoratori più precari e disoccupati.

Il governo, tuttavia, ha calcolato male il numero di beneficiari dell’Ife, visto che undici milioni di persone hanno fatto domanda per fondi destinati solo a tre o quattro milioni. Pur comportando un notevole onere per il bilancio nazionale, il governo Fernández alla fine ha concesso l’Ife a dieci milioni di persone. All’epoca si pensò che il governo Fernández avesse commesso una svista, nel peggiore dei casi, dando credito alle accuse di incompetenza amministrativa. In realtà, il nuovo governo non si era reso conto di quanto la struttura del tessuto sociale e della forza lavoro argentina si fosse radicalmente trasformata e deteriorata durante gli anni neoliberali del macrismo.

Le politiche successive del governo Fernández, riprese nella campagna elettorale di Sergio Massa, hanno continuato a ignorare i nuovi lavoratori informali. Negli ultimi quattro anni, la politica sociale ha preso di mira i due gruppi più grandi e visibili di lavoratori argentini: i lavoratori dipendenti e i segmenti di quella che in Argentina è conosciuta come «economia popolare», legata al movimento sociale sindacale di organizzazioni come l’Utep (Unione dei Lavoratori dell’Economia Popolare), che sono formalmente autorizzate a ricevere e ridistribuire sussidi governativi e piani di lavoro per il welfare ai lavoratori informali. Oltre all’errore di calcolo dell’Ife, le esclusioni dell’amministrazione Fernández hanno dimostrato l’esistenza di ampi settori della classe operaia non inclusi in nessuno dei due gruppi.

Questo gruppo di esclusi è costituito da un’ampia gamma di lavoratori non registrati, o in nero, che non godono di alcuna prestazione previdenziale, e dai cosiddetti monotributistas, una categoria eterogenea che raggruppa, tra gli altri, i lavoratori autonomi, i lavoratori delle microimprese, i piccoli imprenditori che non generano entrate sufficienti per rientrare nel sistema fiscale nazionale, vari professionisti e i precari statali. In quest’ultima categoria rientrano anche i lavoratori domestici, i lavoratori delle piattaforme associate alle app di consegna come Uber e Rappi, i commercianti autonomi, i venditori ambulanti, i giovani che fluttuano tra lavori a breve termine e mal pagati e i liberi professionisti. A questi si aggiunge un numero minore di lavoratori di cooperative che, non essendo mai stati considerati come titolari di un rapporto di lavoro distinto, rientrano anch’essi nel sistema fiscale monotributario.

Se analizziamo ulteriormente questo gruppo, scopriamo che, lungi dall’essere una minoranza, costituisce una porzione considerevole della popolazione attiva argentina, è in gran parte giovane e, a parte i lavoratori domestici, è prevalentemente di sesso maschile. Molti di questi lavoratori si sono sentiti ignorati dalla maggior parte delle politiche pubbliche argentine. Ad esempio, durante la pandemia, quando molti di loro non hanno potuto lavorare o hanno dovuto lavorare in condizioni non sicure, non hanno ricevuto l’Atp e sono stati ampiamente esclusi dall’Ife. In quanto monotributistas o lavoratori in nero, continuano a essere esclusi dalla maggior parte degli ammortizzatori sociali argentini.

Sensibili a una campagna mediatica che denigrava la gestione della pandemia da parte del governo, socialmente inibiti dalle misure di lockdown e cronicamente sottopagati, vivevano in condizioni mature per far crescere il loro risentimento. Per la stragrande maggioranza di questi lavoratori, durante la pandemia lo Stato non solo era assente, ma li aveva dimenticati, anche se loro erano considerati «essenziali» e consegnavano cibo e beni consumati dai “garantiti” reclusi per la pandemia.

Come in quasi tutti gli aspetti della vita sociale, la pandemia ha esacerbato e accelerato le tendenze esistenti che stavano già emergendo in modo più lento e stentato. L’elefante dei lavoratori informali è sfuggito a tutti, sia al governo che all’opposizione. È stato ignorato finché il fenomeno Milei non ha attirato la sua attenzione. E Milei ha ricambiato il favore riconoscendo la sua disperazione e capitalizzando i suoi sentimenti.

Un proletariato diviso contro sé stesso

Le trasformazioni nella struttura sociale emergono gradualmente e richiedono tempo per essere viste finché, un giorno, sembrano esplodere. Non è la prima volta che un’esplosione del genere si verifica in Argentina. Negli anni Quaranta, l’intensità del sostegno della classe operaia a Juan Domingo Perón sorprese le classi dirigenti, l’intellighenzia, la sinistra e lo stesso Perón. Il trionfo di Raul Alfonsín nel 1983 per il ritorno della democrazia è stato un altro di questi momenti. Anche la rivolta di massa che ha scosso l’Argentina il 19 e 20 dicembre 2001 è apparsa come un uragano improvviso, inarrestabile e senza una chiara destinazione. L’Argentina si trova ora in un momento simile: il malcontento di massa è palpabile, così come il bisogno sentito di speranza e di un salvatore. Ma perché Milei rappresenta un salvatore per così tanti argentini? Perché l’utopia dell’estrema destra sta seducendo gran parte della classe operaia?

L’attrattiva di Milei per questi settori disincantati e arrabbiati della classe operaia risiede in un discorso che combina soluzioni radicali (anche se da pensiero magico), un nemico facile e un futuro immaginario: una narrativa sgangherata che promette una nuova vita sbarazzandosi dello Stato e della «casta politica» che per troppo tempo ha ignorato i lavoratori e i poveri e li ha lasciati a sé stessi. Il discorso di Milei sulla «rottura» si basa su un’ideologia di neoliberismo estremo il cui fine ultimo, parafrasando David Harvey, è la ricostituzione del potere di classe. Laddove prima i cattivi di questa ideologia erano lo Stato sociale e il comunismo, i nuovi bersagli sono a portata di mano. Per il macrismo, si tratta del populismo del kirchnerismo, il movimento associato al peronismo di sinistra di Néstor e Cristína Fernández de Kirchner. Per Milei, come per Bolsonaro, si tratta di un vago socialismo e comunismo che mette nello stesso cesto i centristi e la sinistra più radicalizzata.

Ciò che rende unico questo nuovo neoliberismo di estrema destra è che la sua ideologia è troppo rozza per le classi ricche, che vogliono il dominio ma anche la prevedibilità per i loro interessi commerciali. Il messaggio di Milei non è un discorso adatto alla classe imprenditoriale, anche se Milei stesso lo ritiene tale e anche se alla fine molti interessi imprenditoriali e commerciali si sono tappati il naso e hanno votato per Milei. In realtà, Milei articola un discorso nichilista per il nuovo proletariato contro sé stesso e i propri interessi.

Il retroscena di questo nichilismo è l’impotenza del governo di Alberto Fernández a soddisfare anche solo nominalmente le elevate aspettative sociali che lo avevano portato al potere nel 2019. L’inefficacia dell’amministrazione uscente può essere legata a diversi fattori: gli obiettivi non raggiunti di un «governo tranquillo» (gobierno tranquilo); la permanente faziosità che l’ha immobilizzata, creando un’opposizione interna spesso più dura di quella ufficiale; e le fallite aspirazioni a mediare accordi con l’opposizione e con i principali settori economici. Nel complesso, l’amministrazione Fernández è stata caratterizzata da una mancanza di acume teorico e politico che si è manifestata quando non è riuscita a rispondere ai problemi strutturali della nuova configurazione sociale dell’Argentina.

Naturalmente, questo non è un problema esclusivo dell’Argentina. I paralleli tra Milei e Trump, Bolsonaro, l’estrema destra europea e altri esponenti dell’estrema destra latinoamericana, come il cileno José Kast e il colombiano Rodolfo Hernández – due figure che hanno sfiorato il governo nelle recenti elezioni – dimostrano che l’Argentina non è l’eccezione ma la nuova regola.

Non c’è futuro?

L’abilità di Milei nel cogliere la frustrazione di un’ampia parte della società argentina non assolve il governo uscente e il progetto politico associato al kirchnerismo. Come in altri paesi in cui l’autoritarismo ha preso piede, la sinistra non è stata in grado di comunicare un progetto alternativo convincente a un’ampia fascia della classe operaia di cui sostiene di essere portavoce. Troppo spesso noi di sinistra – in Argentina e nel mondo – non siamo riusciti a offrire nulla di più di un ritorno ai «bei tempi», ignorando che per i più emarginati quel periodo non è mai stato così bello. Che si tratti di progressismo tiepido o di sinistra radicale, siamo stati così impegnati a difendere le vittorie del passato che raramente abbiamo offerto proposte chiare e complete per futuri alternativi.

A quanto pare, la sinistra argentina non può che offrire ancora la stessa cosa, che è proprio ciò che Milei e i suoi seguaci hanno efficacemente inquadrato come la causa di tutti i mali. Non c’è un progetto, né tanto meno un discorso alternativo, per coloro che si trovano nella parte perdente dell’attuale realtà socioeconomica. Persino l’«economia popolare» e le prospettive, un tempo speranzose, del sindacalismo dei movimenti sociali appaiono troppo conservatrici per i settori informali dimenticati di Milei, e la rivendicazione di programmi di lavoro suona troppo simile alla fatica da cui vogliono fuggire i lavoratori autonomi e informali i freelance, i lavoratori domestici e quelli delle piattaforme.

Se non riusciamo ad articolare un progetto per migliorare il reddito, le condizioni di vita e le capacità produttive di tutti i lavoratori e le lavoratrici, le soluzioni attualmente offerte dalle organizzazioni che rappresentano la classe operaia argentina non saranno mai sufficienti. Se la sinistra non riesce a costruire e a comunicare efficacemente un progetto di trasformazione che dia speranza alle crescenti file del proletariato emergente, il meglio che possiamo fare è aspettare il fallimento di quest’ultima ondata di autoritarismo di ultradestra, che senza dubbio avrà un costo sociale, economico, politico e culturale intollerabile.

20/12/2023

LUIS E. SABINI FERNÁNDEZ
Gaza : un silence radio tellement assourdissant qu’il s’est brisé


 

Luis E. Sabini Fernández, 19/12/2023
Traduit par Fausto Giudice, Tlaxcala

« Depuis plus de deux mois, les forces israéliennes bombardent sans relâche la bande de Gaza, commettant le plus grand massacre télévisé de personnes désarmées de l’histoire du monde. Les dirigeants israéliens ont généralement utilisé un langage génocidaire explicite pour décrire leurs plans, certains suggérant même l’utilisation d’armes nucléaires pour anéantir complètement la population de Gaza, qui compte plus de deux millions d’habitants. Des dizaines de milliers de bâtiments ont été démolis, notamment des maisons, des hôpitaux, des écoles, des universités et tous les bâtiments liés à une société et à ses activités, qui, lorsqu’ils sont utilisés comme cibles d’artillerie dans des conflits militaires, ont toujours été considérés [jusqu’à présent] comme des crimes de guerre. Même lorsque le procureur général de la Cour pénale internationale s’est récemment rendu en Israël », et l’on aurait pu supposer que cette visite était liée à l’attaque surprise du 7 octobre et à la réaction sans précédent des commandants israéliens qui ont assassiné à gauche et à droite, nous avons pu constater, avec inquiétude, que leur objectif, rappelle Unz, « était de fabriquer des accusations et des actes d’accusation contre le Hamas et d’autres groupes palestiniens pour la mort de civils israéliens au début du mois d’octobre ».  [1]

Et pourtant, ce scandale éthique, politique, médiatique (et militaire, évidemment) est à peine discuté, car la grande majorité des médias d’incommunication de masse n’abordent guère le sujet, et s’ils le font, ils le réduisent à une confrontation à armes égales entre le Hamas et Israël. 


Nous pourrions même la formuler comme une loi sur les médias : plus un média se révèle établi et “honorable”, moins il s’intéressera à ce qu’Unz considère comme “le plus grand massacre télévisé d’une population désarmée dans l’histoire du monde”.

Parce que si la mort d’Israéliens a de l’importance sur la scène internationale, la mort de Palestiniens n’en a pas.

À cet égard, je comprends qu’il est approprié de dire quelque chose au sujet de l’action entreprise par les Palestiniens qui a déclenché/justifié/favorisé l’action militaire en réponse à l’opération de prise d’otages menée par le Hamas.

Au-delà de ma sympathie limitée pour les mouvements fondés sur des croyances divines, le Hamas « rejette le droit d’Israël à avoir dépossédé les Palestiniens de leur patrie en 1948 et de les avoir emprisonnés dans des ghettos surpeuplés comme Gaza ». Des paroles impeccables de Jonathan Cook (extrait de son article que je cite en note 3). Il convient de rappeler que même les Nations unies reconnaissent un droit de résistance à l’oppression coloniale et à la dépossession qui en découle. Et l’action du Hamas fait partie de cette lutte. En ce qui concerne la réalité de cette journée clé du 7 octobre, plusieurs enquêtes ont déjà noté qu’en plus de l’envahissement du quartier général régional israélien et de l’assassinat de militaires plus ou moins surpris qui s’en est suivi, le sang a coulé en raison de la réaction excessive de l’armée israélienne (de nombreux Israéliens ont été tués par des "tirs amis").


Bien qu’il y ait beaucoup d’occultation et que la partialité des médias soit abyssale, l’homme est incorrigible et il y a des exceptions. Je retranscris maintenant les paroles de René Pérez Joglar, le rappeur portoricain connu sous le nom de Residente de Calle 13 : « Depuis octobre, j’ai décidé de reporter la sortie de mon album face à tout le génocide macabre qui détruit lentement la Palestine. Je ne me sens pas bien, ça me fait trop mal et je me demande quand nous nous sommes déshumanisés au point de voir des têtes d’enfants exploser devant nous et de ne rien dire ».

Residente pose d’autres questions : « Pourquoi ne pas tout arrêter comme pour la pandémie, tout arrêter et se concentrer sur ce qui se passe à Gaza au lieu de mettre en ligne un article modélisant des vêtements [...] ou une soirée [...], s’arrêter un instant, chercher des informations sur la Palestine et dénoncer le génocide qu’Israël est en train de commettre avec le soutien des USA ». La citation de Residente date du 12 décembre.

 

En effet, nous vivons, comme dans la fable du roi nu qui se sentait si bien habillé, dans une situation schizoïde où de plus en plus de gens trouvent le comportement israélien méprisable, mais face à l’épée de Damoclès qui pèse sur eux s’ils osent critiquer quoi que ce soit de juif et s’exposent à l’accusation d’antisémitisme, ils choisissent tout simplement d’éviter le sujet.

Mais il s’agit bien de ce que décrit Unz : un massacre télévisé à une échelle jamais vue auparavant. Il y a eu, bien sûr, des massacres bien plus importants, mais le fait que nous les "regardions" en même temps, qu’ils se déroulent en toute impunité au vu et au su de tous et en particulier des références morales du monde, du Conseil de sécurité, de l’Assemblée de l’ONU, de nos gouvernants en général, élus par le vote des populations, de la Cour pénale internationale, dont on a déjà vu ce qu’elle a fait à Israël (sans envisager d’enquêter sur le massacre aveugle et massif de villageois palestiniens, hommes, femmes, enfants, vieillards, bébés). Dans cette opération, à laquelle Israël a initialement attribué 1 400 Israéliens tués, il a fallu écarter les militaires israéliens tués pendant l’opération, qui sont estimés entre 300 et 400, et ensuite, la traînée de morts laissée par la contre-attaque israélienne, dont on sait déjà qu’elle a éliminé des centaines d’êtres humains à partir d’hélicoptères, où un nombre énorme d’Israéliens ont perdu la vie (ceux qui ont tenté de quitter la rave party en voiture, par exemple, et surtout les Israéliens qui ont tenté de quitter la rave party en voiture), par exemple, et surtout les Israéliens qui étaient pris en otage par des Palestiniens et qui ont été tués avec leurs ravisseurs lors de la prétendue opération de sauvetage, l’armée israélienne ayant ainsi brutalement mis un terme à toute négociation. Les dernières estimations font état de dizaines de victimes civiles israéliennes.  

La prise d’assaut du quartier général israélien pour Gaza aux premières heures du 7 octobre, qui gardait le camp de concentration, et immédiatement après l’opération de prise d’otages ont rendu furieux les commandants militaires (si l’on admet qu’ils ont été pris par surprise, car la thèse selon laquelle Israël "a laissé faire le Hamas" pour justifier une terrible riposte est également répandue). D’une manière ou d’une autre, l’“armée brancaleone” (en armement, mais très efficace) a atteint une grande partie de ses objectifs : payer les militaires de la même monnaie que celle dont les Israéliens se servent impunément depuis des décennies,[2] et "récolter" des otages pour en faire de futures monnaies d’échange.

Tout cela est épouvantable, mais semble être une évolution soi-disant logique des mesures prises contre Gaza au moins depuis 2005, car rappelons-nous les paroles du boucher Ariel Sharon lorsqu’il a dû retirer les colonies sionistes de Gaza : « Nous partons, mais nous allons leur rendre la vie impossible ».

 

Quelque six heures après l’attaque par les Palestiniens, l’armée renforce avec encore plus de violence la dénégation qu’elle a entrepris depuis 17 ans maintenant ; non seulement des libertés les plus élémentaires, comme le droit de circuler, l’accès aux soins de santé ou à l’eau potable, mais maintenant le massacre aveugle et généralisé sous le prétexte de rechercher et de se venger des auteurs de l’opération. Mais, comme le rappelle à juste titre Cook, « Israël n’a jamais caché qu’il punit les habitants de Gaza parce qu’ils sont gouvernés par le Hamas, qui rejette le droit d’Israël à avoir dépossédé les Palestiniens de leur patrie en 1948 et de les avoir emprisonnés dans des ghettos surpeuplés comme celui de Gaza ». [3]

Comme l’explique Cook à juste titre, cette politique israélienne subvertit tous les efforts déployés après la Seconde Guerre mondiale pour empêcher les atteintes au droit le plus fondamental à la vie, comme le bombardement de Dresde en 1945, qui n’avait aucun but militaire, mais servait simplement à montrer qui commandait, et l’utilisation de bombes atomiques pour anéantir la vie de centaines de milliers de Japonais à Nagasaki et à Hiroshima (avec une mort immédiate et différée par contamination).

Cherchant à établir une base pour le droit international, les Conventions de Genève ont interdit les “punitions collectives”. Cook résume ainsi la situation : « Ce qu’Israël fait à Gaza est la définition même de la punition collective. C’est un crime de guerre : 24 heures sur 24, 7 jours sur 7, 52 semaines par an, pendant 16 [maintenant 17] ans (ibid.) ».

Pour compléter l’observation précise de Cook, je pense que, dans le même temps, la politique de massacre de la population civile, maintenant à un rythme industriel, répond à la politique déjà employée de vidage de la population, qui était la Nakba de 1948 et de “s’en tirer à bon compte”, pour garder “bibliquement” cette terre (Gaza n’était pas juive selon la Bible ; les références bibliques ne sont guère plus qu’une feuille de vigne).

Sur le site internet auquel participent le désormais nonagénaire Noam Chomsky et de nombreux intellectuels attachés à la vérité, ils titrent l’un de leurs derniers billets : « Une usine de meurtres de masse », en référence aux bombardements hautement calculés – y compris avec des outils d’intelligence artificielle - des villes et des routes de Gaza.[4]

Pour répugnante et monstrueuse qu’elle soit, cette expérience n’en est pas moins inédite. Parce que jusqu’à présent, ces politiques génocidaires étaient menées dans la discrétion, avec peu d’accès à ces événements, et en l’occurrence, depuis le 7 octobre, grâce à la ténacité des journalistes sur le terrain, presque tous palestiniens, mais aussi parce que les écrans technologiques actuels rendent visible en permanence l’information qui circule, si ce n’est sans restriction, avec beaucoup de dynamisme (malgré les digues de confinement des maîtres de l’info), nous sommes de plus en plus nombreux à “être au parfum”.

Et nous espérons que nous serons de plus en plus nombreux à remettre en cause les journalistes oiseux qui parlent de choses “importantes” ou insignifiantes en évitant autant que possible le mauvais sentiment d’être taxés d’antisémitisme.

Comme le dit avec pédagogie Andrew Anglin : « La définition officielle de l’“antisémitisme” avant le 7 octobre 2023 était “haïr les Juifs sans raison” ; la définition après cette date est “dire que les Juifs devraient arrêter de tuer des bébés”.[5]

Ce qu’Israël commence à récolter pourrait être le début de la fin de son impunité. Chutzpah comprise.

Notes

[1]  Ron Unz, "Eliminating the Entire Palestinian People", unz.review, 11 déc. 2023.

[2] Le nombre de soldats israéliens tués au cours de l'opération n'a pas de précédent.

[3]  Jonathan Cook, “Guerre Israël-Palestine : tout autant qu’Israël, l’Occident a le sang de Gaza sur les mains, 13 octobre 2023.

[4] Une fabrique d’assassinats masse » : Au cœur du bombardement « calculé » d’Israël sur Gaza de https://www.france-palestine.org/Une-fabrique-d-assassinats-de-masse-Au-coeur-du-bombardement-calcule-d-Israel

 

-"La mort des trois otages israéliens qui arboraient un drapeau blanc est due à une erreur lamentable.
-"Nos soldats les ont pris pour trois civils palestiniens arborant un drapeau blanc."