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18/12/2023

GIDEON LEVY
Come se la violenza dei coloni non bastasse: Israele ora sta privando dell’acqua i palestinesi della Valle del Giordano

 Gideon Levy Alex Levac (foto), Haaretz, 16/12/2023
Tradotto da Alba Canelli, Tlaxcala

Dall’inizio della guerra, circa venti famiglie palestinesi sono state costrette ad abbandonare le loro case nella Valle del Giordano a causa della crescente violenza dei coloni. Nel frattempo, l’esercito nega alle comunità di pastori l’accesso all’acqua. I volontari israeliani cercano di proteggerli giorno e notte

Questo lunedì alle dodici e quarantacinque nella valle settentrionale del Giordano. Il tratto settentrionale della strada di Allon (strada 578) è deserto, come al solito, ma a lato della strada, tra gli insediamenti di Ro'i e Beka'ot, un piccolo convoglio di cisterne d'acqua, trainate da trattori e camion, è parcheggiato e aspetta. E aspetta. Sta aspettando che le pecore tornino a casa. I soldati delle Forze di Difesa Israeliane sarebbero dovuti venire qualche ora fa ad aprire il cancello di ferro, ma l'IDF non si è presentato e non ha nemmeno chiamato, come dice la canzone. Quando chiami il numero indicato dall'esercito sul cancello giallo, dall'altra parte rispondono, poi sei subito disconnesso. Un'attivista di Machsom Watch: Women for Human Rights, Tamar Berger, questa mattina ha provato tre volte e ogni volta, non appena si è identificata, l'altra parte ha riattaccato in modo dimostrativo. Gli autisti palestinesi hanno paura di chiamare.

Un accampamento beduino abbandonato dai suoi abitanti a causa della violenza dei coloni.

 

È il tempo del vento giallo, il tempo dei portatori d'acqua nel nord della Valle del Giordano, costretti ad aspettare ore e ore finché le forze dell'esercito che detengono la chiave arrivano e aprono la porta per far entrare chi porta l'acqua. In questa regione arida, Israele non consente ai residenti palestinesi di allacciarsi ad alcuna fornitura d’acqua: loro e le loro pecore devono fare affidamento sulla costosa acqua trasportata in cisterne, e gli autisti di camion e trattori dipendono totalmente da un soldato con la chiave.

Il soldato che ha la chiave avrebbe dovuto essere qui in mattinata. Gli autisti aspettano qui dalle 8 del mattino e tra pochi minuti saranno le 13. Dopo aver aperto il cancello, si dirigeranno verso Atuf e riempiranno i serbatoi d'acqua, per poi ritornare attraverso la strada sterrata verso i villaggi sul lato est della strada, dove dovranno nuovamente attendere un soldato con le munizioni. aprire loro la porta, affinché possano distribuire l'acqua agli uomini e agli animali che non hanno altra fonte di approvvigionamento.

Dall’inizio della guerra questa barriera è stata chiusa di prassi, dopo essere rimasta aperta per anni. Dopo l'attacco con un'autobomba qui due settimane fa, in cui due soldati sono rimasti leggermente feriti, i soldati con la chiave hanno tardato ad arrivare o non sono arrivati ​​affatto. Durante quest'ultimo periodo sono trascorse intere giornate senza che la porta venisse aperta e senza che i residenti avessero accesso all'acqua. I camionisti e i pastori devono essere puniti per un attacco terroristico (non mortale) compiuto da un abitante della città di Tamun, a ovest di qui, che è stato ucciso a colpi di arma da fuoco. Pertanto, i palestinesi vengono lasciati a bocca asciutta.

Il lato est della strada è ufficialmente senz'acqua. Per ordinanza è vietato bere e irrigare. Questo è ciò che ha deciso Israele, con il secondo scopo di rendere la vita dei pastori più difficile fino a renderla per loro insostenibile, espellendoli poi da questa zona. Anche i coloni terrorizzano i palestinesi con l’obiettivo di espellerli, in modo ancora più intenso all’ombra della guerra. Come all’altro capo dell’occupazione, sulle colline meridionali di Hebron, anche qui, nel punto più settentrionale, nella zona chiamata Umm Zuka, l’obiettivo principale è sbarazzarsi dei pastori – il gruppo più debole e impotente della popolazione – e impossessarsi della loro terra.

Nuove recinzioni sono già state erette lungo la strada, apparentemente dai coloni, attorno all'intera area, nel tentativo di completare il processo di bonifica. Ad oggi, una ventina di famiglie, ovvero quasi 200 persone, compresi i bambini, sono fuggite, portando via le loro pecore e lasciando dietro di sé, nella fuga, pezzi di vita e proprietà.

Un camion bloccato davanti a un posto di blocco improvvisato nella Valle del Giordano in attesa che l'esercito decida di sbloccare la barriera. Se i camion che trasportano l’acqua non possono passare, i pastori e i loro greggi non avranno nulla da bere


Ritorno alla barriera gialla. Dafna Banai, una veterana di Machsom Watch nella Valle del Giordano, che da anni aiuta i residenti con incrollabile dedizione, aspetta con i camionisti fin dal mattino. Lei e Berger sono stati arrestati dai soldati al posto di blocco di Beka'ot con la falsa motivazione che erano entrati nella zona A. "So chi siete e cosa state facendo", ha detto loro il comandante dell'esercito. Rafa Daragmeh, un camionista che aspetta dalle 9:30, dovrebbe fare quattro giri di consegna d'acqua al giorno, ma ormai è metà giornata, il suo serbatoio è pieno e non ne ha ancora completato nemmeno uno. Un giorno chiese a un soldato perché non sarebbero venuti. Il soldato ha risposto: "Chiedetelo a chi ha commesso l'attacco terroristico", che suona come una punizione collettiva, ma non è possibile, poiché la punizione collettiva è un crimine di guerra (e l'esercito più morale del mondo non commette crimini di guerra. N.d.T.).

Dall'altra parte del posto di blocco attende fin dal mattino anche un'autocisterna vuota. L'autista, Abdel Khader, del villaggio di Samara, è lì dalle 8 del mattino. Un altro camion è pieno di mangime per animali: difficilmente i soldati lo lasceranno passare. L'autista deve portare il carico in una comunità che vive a 200 metri a est della barriera. Due trappole per mosche sono appese accanto al posto di blocco, il tempo stringe.

Dopo l'una del pomeriggio, una Jeep Nissan civile con la luce gialla lampeggiante si è fermata. Le forze armate emergono determinate e fiduciose: quattro soldati, armati e protetti come se fossero a Gaza. Prendono subito posizione. Un soldato sale su un cubo di cemento e ci punta contro il fucile senza batter ciglio; il suo comandante, mascherato e con i guanti, ci chiede di “non interferire con i lavori” e ci minaccia di non far passare i camion se osiamo scattare foto. Forse si vergogna di quello che fa.

Un terzo soldato apre il bagagliaio della Nissan e tira fuori una chiave appesa a un lungo laccio delle scarpe. Questa è la chiave ambita, la chiave del regno. Il soldato va al cancello e lo apre. Ora è la fase del controllo di sicurezza. Forse l'acqua è avvelenata, forse è acqua pesante, forse è un ordigno esplosivo. Con gli arabi non si sa mai.

Per arrivare fin qui serve “coordinazione”. Un autista beduino israeliano del nord del paese dice di avere il coordinamento. Il suo camion trasporta materiali da costruzione. L'autista della cisterna ci dice che il carico è destinato ai coloni; l'autista beduino nega e dice che è per i pastori. Ma non c'è un solo pastore in queste regioni che abbia l'autorizzazione a costruire anche solo un muretto.

Un pastore tedesco si scalda al sole e osserva meravigliato gli avvenimenti. Un trattore passa senza incidenti; un camion, quello proveniente da ovest, è in ritardo e il suo autista è seduto a terra al posto di blocco in attesa. Ma il grottesco è appena cominciato. Il culmine viene raggiunto quando un minibus con targa israeliana arriva e scarica un gruppo di studenti haredi yeshivah, dotati di un amplificatore che suona musica chassidica e di un vassoio di sufganiot, le ciambelle di Hanukkah. Gli autisti palestinesi ancora in attesa non credono ai loro occhi: pensavano di aver già visto tutto ai checkpoint.

Dafna Banai, una veterana di Machsom Watch nella Valle del Giordano, vicino al posto di blocco questa settimana.

 

Gli studenti della Yeshiva, della città israeliana settentrionale di Migdal Ha'emek, eseguono una mitzvah distribuendo ciambelle inviate dal centro Chabad di Beit She'an ai soldati a questo checkpoint e ad altri, con grande stupore dei trasportatori d'acqua palestinesi che sono desiderosi di attraversare e consegnare il loro carico d'acqua.

Il soldato con il fucile puntato su di noi mastica pigramente la sua ciambella, tenendola con una mano, con l'altra sul grilletto. Tutti insieme adesso: “Maoz tzur yeshuati” – “O possente fortezza della mia salvezza”. Il camion del cibo per animali non arriva. Nessun coordinamento. Viene chiamato sul posto un agente che indossa una yarmulke e, da lontano, ci scatta una foto con il suo cellulare.

Il portavoce dell'IDF, in risposta ad una domanda di Haaretz sull'operazione irregolare del checkpoint: "A seguito di una serie di eventi legati alla sicurezza accaduti qui, il cancello è stato parzialmente bloccato. Il passaggio attraverso il varco è solo coordinato e viene autorizzato in base alla valutazione della situazione operativa del settore”.

Pochi chilometri a nord, ci sono vestigia di vita sul ciglio della strada. Due famiglie di pastori hanno vissuto qui per anni, ma i coloni provenienti dagli avamposti vicini hanno reso la loro vita un inferno finché non se ne sono andati due settimane fa, abbandonando i loro magri possedimenti. Un box, due frigoriferi, un letto di ferro arrugginito, due recinti per animali, alcuni libri per bambini e un disegno di calzini con didascalia la parola calzini in ebraico, probabilmente tratto da un libro scolastico.

Dafna Banai spiega che i coloni hanno recintato l’intera area della riserva naturale di Umm Zuka, circa 20.000 dunam (2.000 ettari), per liberarla dai pastori. È sempre lo stesso sistema, spiega Banai: prima si impedisce alle pecore di pascolare e si riducono i pascoli, poi si attaccano quasi ogni notte gli abitanti delle piccole comunità - a volte gli aggressori urinano sulle loro tende, a volte si mettono anche ad arare terra nel cuore della notte, al fine di creare “fatti sul terreno”. Tareq Daragmeh, che viveva qui con la sua famiglia, non ce la fece più e se ne andò, così come suo fratello, che viveva accanto a lui con la sua famiglia. Non siamo a Gaza, ma anche qui le persone sono costrette a lasciare le proprie case sotto minacce e attacchi violenti.

Ancora più a nord c'è una comunità di pastori ben sviluppata e vivace. Siamo El-Farsiya, nell'estremo nord della Valle del Giordano, quasi alla periferia di Beit She'an. Qui vivono tre famiglie di pastori e altre due non lontano. Sono rimaste due famiglie. Uno è tornato dopo che i volontari israeliani hanno iniziato a dormire qui ogni notte dopo l’inizio della guerra, proteggendo i residenti. Ci sono dai 30 ai 40 di questi bellissimi israeliani, la maggior parte dei quali relativamente anziani (60 anni o più), che condividono i turni per proteggere i palestinesi nella parte settentrionale della Valle del Giordano, che si estende dalla colonia di Hemdat a Mehola. “Ma per quanto tempo possiamo proteggerli 24 ore su 24?" chiede Banai, che ha organizzato questa forza di volontari.

Yossi Gutterman, uno dei volontari, questa settimana. “Non credo che lo scopo della violenza dei coloni sia causare danni in quanto tali: è logoramento, intimidazione, creazione di disperazione”, afferma.


Tre dei volontari scendono dalla collina. Amos Megged di Haifa, Roni King di Mazkeret Batya e il veterano del gruppo Yossi Gutterman di Rishon Letzion. Ce ne sono due o tre per turno di 24 ore. King è stato fino a poco tempo fa il veterinario del Dipartimento della Natura e dei Parchi; Megged, fratello minore dello scrittore Eyal Megged, è uno storico specializzato negli annali degli indiani del Messico; e Gutterman è un professore di psicologia in pensione. È dotato di una fotocamera corporea.

Oggi stanno tornando da un episodio di furto di pecore ai palestinesi e non ci sono ancora volontari per la notte a venire. Dall'inizio della guerra è diventato urgente dormire qui, spiega Gutterman. “La violenza dei coloni è diventata una questione quotidiana, data per scontata, e comprende invasioni notturne delle tendopoli, rottura di oggetti e distruzione di pannelli solari. Non penso che lo scopo sia causare danni in quanto tali: è logoramento, intimidazione, creazione di disperazione”.

Una famiglia se n'è andata, dicono i volontari, dopo che i coloni di Shadmot Mehola e i loro ospiti dello Shabbat di un collegio religioso nel Kibbutz Tirat Zvi hanno rotto il braccio del padre. “Due settimane fa”, racconta Gutterman, “mentre tre dei nostri amici erano qui, i coloni hanno svegliato l’intero campo tendato alle 2:30 del mattino con urla e torce elettriche, e hanno spaventato tutti. Hanno poi iniziato ad arare un pezzo di terreno privato che era stato recentemente dichiarato “terreno abbandonato”.

Meno di due settimane fa, due volontari sono stati aggrediti qui. Uno è stato colpito con una mazza e spruzzato di peperoncino negli occhi, l'altro è stato colpito con una pietra in testa. “Qui è in corso una campagna di pulizia etnica”, ha detto Gutterman.

Dopo una telefonata, i tre uomini si sono precipitati alla loro macchina e si sono diretti a nord verso Shdemot Mehola. Un pastore racconta loro che i coloni gli hanno appena rubato dozzine di capre. Sul posto si sono recati la polizia e l'esercito e, con l'aiuto dei tre volontari, sono state ritrovate e restituite al proprietario 37 capre. Non tutte le capre sono state rubate.

Nel frattempo, gli autisti dei trattori e dei camion finiscono di fare il pieno d'acqua e tornano di corsa per varcare lo stesso cancello, che sarebbe dovuto rimanere aperto per un'ora. Quando sono arrivati ​​alle 14:30, hanno scoperto che la barriera era chiusa e che i soldati se n'erano andati. Attesero il loro ritorno per quattro ore, fino alle 18,30. Senza dubbio “per la valutazione della situazione operativa del settore”.


GIDEON LEVY
En Israël, 20 000 habitants de Gaza sont responsables de leur propre mort : je n’ai jamais eu aussi honte d’être Israélien

Gideon Levy, Haaretz, 17/12/2023

Traduit par Fausto Giudice, Tlaxcala

Le journaliste Ben Caspit incarne le centre israélien. Il vit à Hod Hasharon et anime une émission de radio avec le journaliste Yinon Magal [élu député sur la liste Foyer Juif de Naftali Bennett en 2015, il démissionna rapidement suite à des accusations de harcèlement sexuel, NdT], qui se situe à l’extrême droite. Caspit, lui, est censé ne pas l’être. C’est un journaliste qui a de bonnes relations, qui est très respecté et qui a du succès.

Au cours du week-end, le directeur exécutif du groupe anti-occupation Breaking the Silence a écrit sur X : « Ne détournez pas le regard. Une correspondante de CNN est entrée dans le sud de la bande de Gaza et a ouvert une “fenêtre sur l’enfer” de Gaza ».

Voici la réponse de Caspit, qui se considère un homme modéré et honnête: « Pourquoi devrions-nous regarder ? Honnêtement, ils ont mérité leur enfer; je n’ai pas une once de sympathie ». Caspit, comme d’habitude, est le porte-parole du courant dominant d’Israël.

Hôpital Al-Najjar à Rafah, dans le sud de la bande de Gaza, dimanche. Photo de l’hôpital Al-Najjar :  Said Khatib/AFP

Huit mille enfants sont responsables de leur propre mort ; 20 000 personnes sont responsables d’avoir été tuées ; 2 millions de personnes ont causé leur propre déracinement. C’est ainsi qu’un riche parle toujours des pauvres, une personne prospère des moins fortunés, une personne en bonne santé des handicapés, les forts des faibles, les Ashkénazes des Juifs Mizrahi : ils sont responsables de leur statut de victime.

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Le journaliste israélien Ben Caspit :  Tomer Appelbaum

Dans l’Israël de l’après-7 octobre, on peut accuser 10 000 enfants et bébés d’être responsables de leur propre mort sans qu’Israël ait le moindre soupçon de responsabilité ou de culpabilité. Dans l’Israël de l’après-7 octobre, on peut se sentir irréprochable uniquement parce que le Hamas a commencé à commettre des atrocités en premier.

Un pays est en ruines et tous ses habitants sont en enfer, et le générateur de cet enfer ne porte aucune culpabilité, pas même un tout petit peu, pas même avec la culpabilité du Hamas. L’incarnation du centre israélien n’a même pas une once de sympathie pour les enfants amputés montrés dans le courageux et horrible reportage de Clarissa Ward dans un hôpital de Rafah.

Qu’ils se fassent amputer, que les enfants meurent, que tous les habitants de Gaza expirent, qu’ils suffoquent en enfer, ce n’est pas notre affaire. Ils sont responsables de leur désastre, eux seuls. Caspit est sur la bonne  voie : la victime est responsable de son statut de victime.

Abstraction faite de la question de la culpabilité et de la responsabilité - elles incombent toutes au Hamas, et pas du tout à Israël, dont les soldats et les pilotes se déchaînent à Gaza - nous n’avons rien à voir là-dedans, l’essentiel est que nous ne nous sentions pas coupables de quoi que ce soit.

Si l’on met cela de côté pour un moment, il faut être incroyablement obtus, cruel et même barbare pour ne pas ressentir au moins un peu d’empathie pour les enfants qui meurent par terre dans les hôpitaux, pour un père qui pleure sur le corps de son enfant, pour un nourrisson couvert de la poussière de sa maison bombardée, qui cherche en vain quelqu’un dans le monde, pour les personnes qui vivent depuis deux mois dans la terreur, le désespoir et sans plus rien dans leur vie, pour les affamés, les malades, les handicapés et les dépossédés de la bande de Gaza.

Même l’empathie est interdite aux yeux de Caspit et de ses semblables, de peur qu’une pensée dangereuse et interdite ne s’insinue : que ce sont des êtres humains qui vivent à Gaza. C’est une chose à laquelle les Israéliens ne peuvent pas faire face.


Une femme palestinienne sur le site d’une frappe israélienne sur une maison à Khan Younès, dans le sud de la bande de Gaza, samedi. Photo : BASSAM MASOUD/Reuters

On franchit là une ligne dangereuse, ce qui pourrait entraîner des pensées étrangères aux Israéliens, concernant jusqu’où il est permis d’aller pour une cause juste, ce qui est permis et, surtout, ce qui est interdit en toutes circonstances.

Il y a des choses qui sont interdites en toutes circonstances. L’assassinat de 8 000 enfants en deux mois, par exemple. Caspit et les siens ne veulent qu’acclamer l’armée héroïque sans voir son travail.

La compassion humaine est interdite, nous sommes israéliens. Lorsqu’un tremblement de terre se produit n’importe où dans le monde, nous envoyons de l’aide et nous sommes fiers de nous, mais les massacres à Gaza ne nous concernent pas. C’est ainsi que fonctionne la morale israélienne. Elle doit permettre à Caspit, et pas seulement à Magal, de se sentir bien dans sa peau à propos de Gaza.

Lors d’une conférence internationale qui s’est tenue le week-end dernier à Istanbul, j’ai déclaré, entre autres, que je n’avais jamais eu autant honte d’être Israélien qu’en regardant les images de Gaza. Ces propos ont été publiés sur un site web israélien de divertissement très populaire. Au cours du week-end, j’ai reçu des centaines (voire des milliers) d’appels et de SMS injurieux. C’est souvent par les égouts que l’on apprend à connaître une société. Tous unis, nous vaincrons, tel est le slogan actuel.

Cependant, la distance entre les eaux de cloaque qui se déversent sur moi et les paroles ostensiblement respectables de Caspit est plus petite qu’on ne l’imagine. Il n’y a aucune différence entre la haine pour les Arabes et leur déshumanisation, telles qu’elles s’expriment dans le langage vulgaire et inarticulé de mes interlocuteurs, et les paroles bien formulées de Caspit.

L’Israël d’en bas et l’Israël d’en haut ont perdu toute figure humaine. C’est une raison suffisante pour avoir honte d’être israélien.

ROBERTO CICCARELLI
Le siècle bref de Toni Negri

Toni Negri est mort à Paris dans la nuit du 15 au 16 décembre. Il avait eu 90 ans le 1er  août dernier. Celui que les médias italiens s'acharnent à appeler « il cattivo maestro degli anni di piombo », le « mauvais maître des années de plomb », avait su survivre à la répression féroce déchaînée contre l’Autonomie ouvrière organisée, non sans tâter de quelques années prison. Pour qui l’a connu, il restera dans nos mémoires comme une figure élégante, intelligente, chaleureuse, bref un vrai prince de la Renaissance égaré dans une Italie du XXème siècle livrée au Tout-Profit et à la Combinazione. Il croisera peut-être, entre la Troisième et la Septième Sphère du Paradis de Dante d’autres hérétiques, comme l’autre grand Antonio (Gramsci) ou Pierpaolo (Pasolini).-FG


 Roberto Ciccarelli, il manifesto, 5/8/2023
Traduit par
Fausto Giudice, Tlaxcala

Rencontre. L’opéraïsme, les années 70, le 7 avril, Rossanda, la reconnaissance mondiale : les 90 ans d’un philosophe communiste

 
Il a eu 90 ans le 1er aout. Photo Judith Revel

Toni Negri, tu as quatre-vingt-dix ans. Comment vis-tu ton temps aujourd’hui ?
 Je me souviens que Gilles Deleuze souffrait d’une maladie similaire à la mienne. À l’époque, il n’y avait pas l’assistance et la technologie dont nous bénéficions aujourd’hui. La dernière fois que je l’ai vu, il se déplaçait dans un fauteuil roulant avec des bouteilles d’oxygène. C’était vraiment difficile. C’est également le cas pour moi aujourd’hui. Je pense que chaque jour qui passe à cet âge est un jour de moins. Tu n’as pas la force d’en faire un jour magique. C’est comme lorsque tu mangez un bon fruit et qu’il te laisse un goût merveilleux dans la bouche. Ce fruit, c’est probablement la vie. C’est une de ses grandes vertus.

Quatre-vingt-dix ans, c’est un siècle bref.
 Il peut y avoir divers siècles courts. Il y a la période classique définie par Hobsbawm qui va de 1917 à 1989. Il y a eu le siècle américain, beaucoup plus court. Il va des accords monétaires et de la définition de la gouvernance mondiale à Bretton Woods jusqu’aux attentats de septembre 2001 contre les tours jumelles. Quant à moi, mon long siècle a commencé avec la victoire bolchevique, peu avant ma naissance, et s’est poursuivi avec les luttes ouvrières et tous les conflits politiques et sociaux auxquels j’ai participé.

Ce siècle bref s’est achevé sur une défaite colossale.
 Certes. Mais on pensait que l’histoire était finie et que l’ère de la mondialisation apaisée avait commencé. Rien n’est plus faux, comme nous le constatons chaque jour depuis plus de trente ans. Nous sommes dans une ère de transition, mais en réalité nous l’avons toujours été. Bien que sous les radars, nous sommes dans un temps nouveau marqué par une résurgence mondiale des luttes face à laquelle la riposte est dure. Les luttes des travailleurs ont commencé à croiser de plus en plus les luttes féministes, antiracistes, pour la défense des migrants et la liberté de circulation, ou les luttes écologistes.

Philosophe, tu accèdes très jeune à une chaire à Padoue. Tu participes aux Quaderni Rossi, la revue de l’opéraïsme italien. Tu enquêtes, tu fais du travail de terrain dans les usines, en commençant par la pétrochimie à Marghera. Tu as d’abord fait partie de Potere Operaio, puis d’Autonomia Operaia. Tu as vécu le long 68 italien, à commencer par l’impétueux 69 ouvrier du Corso Traiano à Turin. Quel a été le moment politique culminant de cette histoire ?
 Les années 1970, lorsque le capitalisme a anticipé avec force une stratégie pour son avenir. Par le biais de la mondialisation, il a précarisé le travail industriel ainsi que l’ensemble du processus d’accumulation de la valeur. Dans cette transition, de nouveaux pôles productifs ont été allumés : le travail intellectuel, le travail affectif, le travail social qui construit la coopération. À la base de la nouvelle accumulation de valeur, il y a bien sûr aussi l’air, l’eau, le vivant et tous les biens communs que le capital a continué d’exploiter pour contrer la baisse du taux de profit qu’il connaissait depuis les années 1960.

Pourquoi la stratégie capitaliste l’a-t-elle emporté depuis le milieu des années 1970 ?
 Parce qu’il y a eu un manque de réaction de la part de la gauche. En effet, pendant longtemps, l’ignorance de ces processus a été totale. À partir de la fin des années 1970, on a assisté à la suppression de toute force intellectuelle ou politique, ponctuelle ou mouvementiste, qui tentait de montrer l’importance de cette transformation, et qui visait à la réorganisation du mouvement ouvrier autour de nouvelles formes de socialisation et d’organisation politique et culturelle. Ce fut une tragédie. C’est là que la continuité du siècle bref apparaît dans le temps que nous vivons. Il y a eu une volonté de la gauche de bloquer le cadre politique sur ce qu’elle possédait.

Marco Pannella (Parti Radical), Rossana Rossanda, Toni Negri et Jaroslav Novak (Potere Operaio)

Et que possédait cette gauche ?
Une image puissante mais déjà alors inadéquate. Elle a mythifié la figure de l’ouvrier industriel sans se rendre compte qu’il voulait autre chose. Il ne voulait pas s’installer dans l’usine d’Agnelli, mais détruire son organisation ; il voulait construire des voitures et les offrir aux autres sans asservir personne. À Marghera, il ne voulait pas mourir d’un cancer ou détruire la planète. C’est au fond ce que Marx a écrit dans la Critique du programme de Gotha : contre l’émancipation par le travail marchandisé de la social-démocratie et pour la libération de la force de travail du travail marchandisé. Je suis convaincu que la direction prise par l’Internationale communiste - de manière évidente et tragique avec le stalinisme, puis de manière de plus en plus contradictoire et impétueuse - a détruit le désir qui avait mobilisé des masses gigantesques. Tout au long de l’histoire du mouvement communiste, c’est autour de ça que s’est menée la bataille.

Qu’est-ce qui s’affrontait sur ce champ de bataille ?
 D’une part, il y avait l’idée de libération. En Italie, elle était éclairée par la résistance contre le nazifascisme. L’idée de libération a été projetée dans la Constitution elle-même, telle que nous, les jeunes d’alors, l’avons interprétée à l’époque. Et à cet égard, je ne sous-estimerais pas l’évolution sociale de l’Église catholique qui a culminé avec le Concile Vatican II. D’autre part, il y avait le réalisme hérité de la social-démocratie par le parti communiste italien, celui d’Amendola et des togliattiens de diverses origines. Tout a commencé à s’effondrer dans les années 70, lorsque l’occasion s’est présentée d’inventer une nouvelle façon de vivre, une nouvelle façon d’être communiste.

Tu continues à te qualifier de communiste. Qu’est-ce que cela signifie aujourd’hui ?
 Ce que cela signifiait pour moi quand j’étais jeune : connaître un avenir dans lequel nous aurions le pouvoir d’être libres, de travailler moins, de nous aimer les uns les autres. Nous étions convaincus que les concepts bourgeois tels que la liberté, l’égalité et la fraternité pouvaient se concrétiser dans les mots d’ordre de la coopération, de la solidarité, de la démocratie radicale et de l’amour. Nous l’avons pensé et agi, et c’est ce qu’a pensé la majorité qui a voté à gauche et l’a faite exister. Mais le monde était et reste insupportable, il entretient un rapport contradictoire avec les vertus essentielles du vivre ensemble. Mais ces vertus ne se perdent pas, elles s’acquièrent par la pratique collective et s’accompagnent de la transformation de l’idée de productivité, qui ne consiste pas à produire plus de biens en moins de temps, ni à mener des guerres toujours plus dévastatrices. Il s’agit au contraire de nourrir tout le monde, de moderniser, de rendre heureux. Le communisme est une passion collective joyeuse, éthique et politique qui lutte contre la trinité de la propriété, des frontières et du capital.

La rafle du 7 avril 1979, premier moment de la répression du mouvement de l’autonomie ouvrière, a marqué un tournant. Pour d’autres raisons, à mon avis, c’est aussi un tournant pour l’histoire du journal il manifesto grâce à une vibrante campagne de soutien qui a duré des années, un cas de journalisme unique mené avec des militants du mouvement, un groupe d’intellectuels courageux, le parti radical. Huit ans plus tard, le 9 juin 1987, lorsque le château de cartes des accusations changeantes et infondées a été démoli, Rossana Rossanda a écrit qu’il s’agissait d’une “réparation tardive et partielle de beaucoup de choses irréparables”. Qu’est-ce que cela signifie pour toi aujourd’hui ?
 C’est avant tout le signe d’une amitié qui ne s’est jamais démentie. Rossana était pour nous une personne d’une incroyable générosité. Même si, à un moment donné, elle s’est arrêtée elle aussi : elle ne parvenait pas à imputer au PCI ce qu’il était devenu.

Qu’était-il devenu ?
 Un oppresseur. Il a massacré ceux qui dénonçaient le pétrin dans lequel il s’était fourré. Dans ces années-là, nous avons été nombreux à le lui dire. Il y avait une autre voie, celle d’écouter la classe ouvrière, le mouvement étudiant, les femmes, toutes les nouvelles formes dans lesquelles s’organisaient les passions sociales, politiques et démocratiques. Nous avons proposé une alternative de manière honnête, propre et massive. Nous faisions
partie d’un énorme mouvement qui investissait les grandes usines, les écoles, les générations. La fermeture de la part du PCI a conduit à l’émergence de l’extrémisme terroriste. Nous avons payé pour tout cela, et lourdement. À moi seul, j’ai passé au total quatorze ans en exil et onze ans et demi en prison. Il manifesto a toujours défendu notre innocence. Il était complètement idiot que moi ou d’autres membres de l’Autonomia soyons considérés comme les kidnappeurs d’Aldo Moro ou les assassins de camarades. Cependant, dans la campagne innocentiste, qui était courageuse et importante, un aspect substantiel a été laissé de côté.

Un défilé de Potere Operaio (Negri en tête)  

Lequel ?
 Nous étions politiquement responsables d’un mouvement beaucoup plus large contre le compromis historique entre le PCI et la DC. Contre nous, il y a eu une réponse policière de la part de la droite, et ça, ça se comprend. Ce que l’on ne veut pas comprendre, c’est la couverture que le PCI a donnée à cette réponse. Au fond, ils avaient peur que l’horizon politique de la classe change. Si l’on ne comprend pas ce nœud historique, comment peut-on se plaindre de l’inexistence d’une gauche en Italie aujourd’hui ?

Le 7 avril et le “théorème de Calogero*” ont été perçus comme un pas vers la conversion d’une partie non négligeable de la gauche au justicialisme et à la procuration donnée par les politiciens au pouvoir judiciaire. Comment était-il possible de se laisser prendre à un tel piège ?
Lorsque le PCI a substitué la centralité de la lutte morale à la lutte économique et politique, et ce par l’intermédiaire de juges qui gravitaient autour de lui, il a terminé sa course. Croyait-on vraiment utiliser le justicialisme pour construire le socialisme ? Le justicialisme est l’une des choses les plus chères à la bourgeoisie. C’est une illusion dévastatrice et tragique qui les empêche de voir l’utilisation de classe de la loi, de la prison ou de la police contre les subalternes. Au cours de ces années, les jeunes magistrats ont également changé. Avant, ils étaient très différents. On les appelait les “magistrats d’assaut”. Je me souviens des premiers numéros du magazine Democrazia e Diritto, pour lequel je travaillais également. Ils me remplissaient de joie parce que nous parlions de justice de masse. Ensuite, l’idée de justice a été déclinée très différemment, ramenée aux concepts de légalité et de légitimité. Et dans la magistrature, il n’y avait plus de position politique, mais seulement des déploiements entre les courants. Aujourd’hui, donc, nous avons une Constitution réduite à un paquet de normes qui ne correspondent même plus à la réalité du pays.

En prison, tu as poursuivi le combat politique. En 1983, tu as écrit un document en prison, publié par il manifesto, intitulé Do You remember revolution  [“Te souviens-tu de la révolution”]. Il y était question de l’originalité du 1968 italien, des mouvements des années 1970 qui ne pouvaient être réduits aux “années de plomb”. Comment as-tu vécu ces années ?
 Ce document disait des choses importantes avec une certaine timidité. Je pense qu’il a dit plus ou moins les choses que je viens de rappeler. C’était une période difficile. Nous étions en taule, nous devions sortir d’une manière ou d’une autre. Je t’avoue que dans cette immense souffrance, il valait mieux pour moi étudier Spinoza que de penser à la morosité absurde dans laquelle nous avions été enfermés. J’ai écrit un gros livre sur Spinoza et c’était une sorte d’acte héroïque. Je ne pouvais pas avoir plus de cinq livres dans ma cellule. Et je changeais constamment de prison spéciale : Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Chaque fois dans une nouvelle cellule avec de nouvelles personnes. J’attendais des jours et je recommençais. Le seul livre que j’avais avec moi était l’Éthique de Spinoza. J’ai eu la chance de terminer mon texte avant l’émeute de Trani en 1981, lorsque les forces spéciales ont tout détruit. Je suis heureux que cela ait provoqué un bouleversement dans l’histoire de la philosophie.

En 1983, tu as été élu au parlement et tu es sorti de prison pour quelques mois. Que penses-tu du moment où l’on a voté ton retour en prison et où tu as décidé de t’exiler en France ?
 J’en souffre encore beaucoup. Si je dois porter un jugement détaché, historique, je pense que j’ai eu raison de partir. En France, j’ai été utile pour établir des relations entre les générations et j’ai étudié. J’ai eu l’occasion de travailler avec Félix Guattari et j’ai pu entrer dans le débat de l’époque. Il
m’a beaucoup aidé à comprendre la vie des sans papiers. Moi aussi, j’ai enseigné alors que je n’avais pas de carte d’identité. Mes camarades de l’Université de Paris 8 m’ont aidé. Mais d’une autre manière, je me dis que j’ai eu tort. Cela me choque profondément d’avoir laissé mes camarades en prison, ceux avec qui j’ai vécu les plus belles années de ma vie et les émeutes en quatre ans de détention provisoire. Les avoir quittés me fait encore mal. Cette prison a dévasté la vie de chers camarades, et souvent de leurs familles. J’ai 90 ans et je suis sauvé. Cela ne me rend pas plus serein face à ce drame.

Même Rossanda t’a critiqué...
Oui, elle m’a demandé de me comporter comme Socrate. J’ai répondu que je risquais de finir comme le philosophe. Viu les rapports qui régnaient en prison, j’aurais pu mourir. Pannella m’a matériellement sorti de prison et m’a ensuite rejeté toute la responsabilité parce que je ne voulais pas y retourner. Beaucoup de gens m’ont trompé. Rossana m’avait déjà mis en garde, et elle avait peut-être raison.

L’a-t-elle fait une autre fois ?
 Oui, lorsqu’elle m’a dit de ne pas revenir de Paris en Italie en 1997, après 14 ans d’exil. Je l’ai vue pour la dernière fois avant son départ dans un café près du musée de Cluny, le musée national du Moyen Âge. Elle m’a dit qu’elle voulait m’attacher avec une chaîne pour m’empêcher de prendre cet avion.

Pourquoi as-tu décidé de retourner en Italie ?
 J’étais convaincu que j’allais lutter pour l’amnistie de tous les camarades des années 1970. À l’époque, il y avait le bicaméralisme, cela semblait possible. J’ai passé six ans en prison, jusqu’en 2003. Rossana avait peut-être raison.

Quels souvenirs as-tu d’elle aujourd’hui ?
 Je me souviens de la dernière fois que je l’ai vue à Paris. C’était une amie très gentille qui s’inquiétait de mes voyages en Chine, craignant que je ne sois blessé. C’était une personne merveilleuse, à l’époque et depuis toujours.

Anna Negri, ta fille, a écrit “Con un piede impigliato nella storia” [Avec un pied coincé dans l’histoire] (DeriveApprodi) qui raconte cette histoire du point de vue de vos affects, et d’une autre génération.
 J’ai trois enfants merveilleux, Anna, Francesco et Nina, qui ont souffert de manière indicible de ce qui s’est passé. J’ai regardé la série de Bellocchio sur Moro et je n’en reviens toujours pas qu’on m’ait rendu responsable de cette incroyable tragédie. Je pense à mes deux premiers enfants, qui allaient à l’école. Certains les voyaient comme les enfants d’un monstre. Ces garçons, d’une manière ou d’une autre, ont vécu des événements énormes. Ils ont
quitté l’Italie et sont revenus, ils ont traversé eux-mêmes
ce long hiver. Le moins qu’ils puissent faire est d’éprouver une certaine colère envers les parents qui les ont mis dans cette situation. Et j’ai une certaine responsabilité dans cette histoire. Nous sommes redevenus amis. C’est pour moi un cadeau d’une immense beauté.

À la fin des années 1990, coïncidant avec les nouveaux mouvements mondiaux et anti-guerre, tu as acquis une solide position de reconnaissance avec Michael Hardt, en commençant par le livre “Empire”. Comment définirais-tu la relation entre la philosophie et le militantisme aujourd’hui, à une époque où l’on assiste à un retour au spécialisme et aux idées réactionnaires et élitistes ?
 Il m’est difficile de répondre à cette question. Quand on me dit que j’ai fait “un’opera” [une œuvre, mais aussi un opéra] je réponds : “Lyrique ?” Tu te rends compte ? Je suis obligé de rire. Parce que je suis plus militant que philosophe. Cela
peut faire rire certains, mais moi, je m’y vois comme Papageno*...

Il ne fait pourtant aucun doute que tu as écrit de nombreux livres...

J’ai eu la chance d’être quelque part entre la philosophie et le militantisme. Dans les meilleures périodes de ma vie, je suis passé en permanence de l’une à l’autre. Cela m’a permis de cultiver un rapport critique à la théorie capitaliste du pouvoir. Pivotant sur Marx, je suis passé de Hobbes à Habermas, en passant par Kant, Rousseau et Hegel. Des gens suffisamment sérieux pour devoir être combattus. En revanche, la ligne Machiavel-Spinoza-Marx constituait une véritable alternative. Je le répète : l’histoire de la philosophie n’est pas pour moi une sorte de texte sacré qui aurait mêlé tout le savoir occidental, de Platon à Heidegger, à la civilisation bourgeoise et transmis des concepts fonctionnels au pouvoir. La philosophie fait partie de notre culture, mais elle doit être utilisée pour ce dont elle a besoin, à savoir transformer le monde et le rendre plus juste. Deleuze a parlé de Spinoza et a repris l’iconographie qui le représente comme Masaniello. J’aimerais que ce soit le cas pour moi. Même à 90 ans, j’ai toujours ce rapport à la philosophie. Vivre le militantisme est moins facile, mais j’arrive à écrire et à écouter, dans une situation d’exil.

L’exil, encore aujourd’hui ?
 Un peu, oui. Mais c’est un exil différent. Cela dépend du fait que les deux mondes dans lesquels je vis, l’Italie et la France, ont des dynamiques de mouvement très différentes. En France, l’opéraïsme n’a pas eu beaucoup d’adeptes, même s’il est redécouvert aujourd’hui. Le mouvement de gauche en France a toujours été porté par le trotskisme ou l’anarchisme. Dans les années 1990, avec la revue Futur antérieur, avec mon ami et camarade Jean-Marie Vincent, nous avons trouvé une médiation entre le gauchisme et l’opéraïsme : cela a marché pendant une dizaine d’années. Mais nous l’avons fait avec beaucoup de prudence. Nous avons laissé le jugement sur la politique française à nos camarades français. Le seul éditorial important écrit par des Italiens dans la revue a été celui sur la grande grève des cheminots de 1995, qui ressemblait tellement aux luttes italiennes.

Pourquoi l’opéraïsme connaît-il aujourd’hui une résonance mondiale ?
 Parce qu’il répond à un besoin de résistance et de résurgence des luttes, comme dans d’autres cultures critiques avec lesquelles il dialogue : féminisme, écologie politique, critique post-coloniale par exemple. Et puis parce qu’il n’est la propriété de rien ni de personne. Il ne l’a jamais été, pas plus qu’il n’a été un chapitre de l’histoire du PCI, comme certains s’en font l’illusion. Il s’agit plutôt d’une idée précise de la lutte des classes et d’une critique de la souveraineté qui coagule le pouvoir autour du pôle maître, propriétaire et capitaliste. Mais le pouvoir est toujours divisé, il est toujours ouvert, même lorsqu’il ne semble pas y avoir d’alternative. Toute la théorie du pouvoir comme extension de la domination et de l’autorité faite par l’école de Francfort et ses évolutions récentes est fausse, même si elle reste malheureusement hégémonique. L’opéraïsme balaie d’un revers de main cette lecture brutale. C’est un style de travail et de pensée. Il prend l’histoire par le bas, faite de grandes masses en mouvement, il cherche la singularité dans une dialectique ouverte et productive.

Tes références constantes à François d’Assise m’ont toujours impressionné. D’où vient cet intérêt pour le saint et pourquoi l’as-tu pris comme exemple de ta joie d’être communiste ?
 Dès mon plus jeune âge, on s’est moqué de moi parce que j’utilisais le mot “amour”. On me prenait pour un poète ou pour un illuminé. Au contraire, j’ai toujours pensé que l’amour était une passion fondamentale qui maintient l’humanité debout. Il peut devenir une arme pour vivre. Je viens d’une famille qui a connu la misère pendant la guerre et qui m’a appris une affection avec laquelle je vis encore aujourd’hui. François est au fond un bourgeois qui vit à une époque où il saisit la possibilité de transformer la bourgeoisie elle-même, et de faire un monde où les gens s’aiment et aiment le vivant. L’appel à lui, pour moi, est comme l’appel aux Ciompi*** de Machiavel. François, c’est l’amour contre la propriété : exactement ce que nous aurions pu faire dans les années 70, en inversant cette évolution et en créant une nouvelle façon de produire. François n’a jamais été suffisamment pris en compte, pas plus que l’importance que le franciscanisme a eue dans l’histoire de l’Italie. Je le mentionne parce que je veux que des mots comme amour et joie entrent dans le langage politique.
[Lire
Ce communiste de Saint François]

NdT

*Pietro Calogero, substitut du procureur à Padoue, responsable de l’enquête conduisant au coup de filet du 7 avril, aurait déclaré : » « Puisqu’on ne peut pas attraper le poisson [les Brigades rouges], il faut assécher la mer [le mouvement subversif] », appliquant ainsi les principes de la guerre contre-insurrectionnelle appliqués par les militaires français “maoïstes” en Algérie, tirant les leçons de leur défaite au Vietnam (d’où était originaire sa mère). Calogero, alias Kalogero, est devenu célèbre en raison du théorème qui lui est attribué et qui établit un lien entre les responsabilités de certains professeurs d’université prêchant la subversion (appelés “professorini”, petits profs) et les actions terroristes. Le magistrat a indiqué dans ses ordres d’arrestation des crimes tels que la “formation de et la participation de bandes armées” et “l’insurrection armée contre les pouvoirs de l’État”, ainsi que des attentats, des meurtres, des blessures et des enlèvements, affirmant que les publications de l’Autonomia Operaia et d’autres documents, ainsi que les témoignages, avaient fourni des “indications suffisantes de culpabilité”. Les dirigeants du Parti communiste italien apportèrent un soutien inconditionnel à ce chevalier blanc de la contre-subversion.

** Papageno est un personnage masculin de La Flûte enchantée de Mozart, dont le rôle est écrit pour une voix de baryton. C’est un oiseleur au service de La Reine de la Nuit, « gai, léger, chantant, habillé d’un pittoresque vêtement de plumes », et « l’un des personnages les plus populaires de tout le répertoire lyrique ».

***Les Ciompi, les “batteurs” de laine, étaient la catégorie la plus pauvre des travailleurs de l’industrie textile de la république de Florence. Leur révolte (“tumulto”) de juin à août 1378 leur permit d’obtenir en juillet la création de guildes spécifiques et Michele di Lando, simple ouvrier cardeur, fut promu gonfalonnier de justice de la république de Florence. Mais l’exercice du pouvoir n’est pas sans problèmes et le mois d’août voit le retour à l’ordre antérieur. Cette révolte a fait l’objet de développements dans L’Histoire de Florence de Machiavel, qui la présente du point de vue des classes supérieures.