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26/10/2025

Non è più possibile essere palestinese in Cisgiordania

Gideon Levy, Haaretz, 26/10/2025
Tradotto da
Tlaxcala

 Mentre Trump promette ai paesi arabi che l’annessione israeliana “non avverrà”, volta le spalle alla distruzione, allo spossessamento, alla povertà, alla violenza dei coloni e agli abusi militari in Cisgiordania, permettendo che il tormento continui: non c’è tregua.

 

Palestinesi accanto a una strada distrutta dopo un’operazione militare israeliana nella città cisgiordana di Tubas, la settimana scorsa.
Foto Majdi Mohammed / AP

In Cisgiordania nessuno ha sentito parlare del cessate il fuoco a Gaza: né l’esercito, né i coloni, né l’Amministrazione Civile e, naturalmente, neppure i tre milioni di palestinesi che vivono sotto la loro tirannia. Non percepiscono minimamente la fine della guerra.

Da Jenin a Hebron, non si intravede alcun cessate il fuoco. Da due anni regna in Cisgiordania un clima di terrore, protetto dalla guerra nella Striscia, che funge da dubbio pretesto e da cortina fumogena, e non c’è alcun segno che stia per finire.

Tutti i decreti draconiani imposti ai palestinesi il 7 ottobre restano in vigore; alcuni sono stati persino inaspriti. La violenza dei coloni continua, così come il coinvolgimento dell’esercito e della polizia nei disordini. A Gaza si uccide e si sfolla meno gente, ma in Cisgiordania tutto prosegue come se non esistesse alcun cessate il fuoco.

L’amministrazione Trump, così attiva e risoluta a Gaza, chiude gli occhi sulla Cisgiordania e si illude sulla situazione che vi regna. Impedire l’annessione le basta. “Non accadrà perché ho dato la mia parola ai paesi arabi”, ha dichiarato il presidente Donald Trump la settimana scorsa, mentre alle sue spalle Israele fa di tutto in Cisgiordania per distruggere, spossessare, abusare e impedire ogni possibilità di vita.

 

Coloni israeliani lanciano pietre contro abitanti palestinesi durante un attacco al villaggio cisgiordano di Turmus Ayya, a giugno.
Foto Ilia Yefimovich / dpa

A volte sembra che il capo del Comando Centrale delle FDI, Avi Bluth, fedele e obbediente al suo superiore — il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che è anche ministro nel Ministero della Difesa — stia conducendo un esperimento umano, insieme ai coloni e alla polizia: vediamo fino a che punto possiamo tormentarli prima che esplodano.

La speranza che la loro brama di abuso si attenuasse con la fine delle battaglie a Gaza è svanita. La guerra nella Striscia non era che un pretesto. Quando i media evitano la Cisgiordania e la maggior parte degli israeliani — e degli usamericani — non si interessa davvero di ciò che vi accade, il tormento può continuare.

Il 7 ottobre è stato davvero un’opportunità storica per i coloni e i loro collaboratori di fare ciò che non avevano osato fare per anni.



La famiglia Zaer Al Amour, nelle colline meridionali di Hebron — una regione spesso soggetta alla violenza dei coloni e dell’esercito — fa la guardia a turno dalla sera al mattino per proteggere le proprie terre.
Foto Wisam Hashlamoun / Anadolu via AFP

Non è più possibile essere palestinese in Cisgiordania. Non è stata distrutta come Gaza, non sono morte decine di migliaia di persone, ma la vita lì è diventata impossibile. È difficile immaginare che la morsa di ferro israeliana possa durare ancora a lungo senza un’esplosione di violenza — giustificata, questa volta.

Tra 150.000 e 200.000 palestinesi della Cisgiordania che lavoravano in Israele sono disoccupati da due anni. Due anni senza un solo shekel di reddito. Anche gli stipendi di decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità Palestinese sono stati drasticamente ridotti a causa del trattenimento da parte di Israele delle entrate fiscali che riscuote per conto dell’Autorità.

La povertà e la miseria sono ovunque. Così come i posti di blocco e i checkpoint; mai ce ne sono stati così tanti, e per un periodo così prolungato. Ora se ne contano centinaia.

Ogni insediamento ha cancelli di ferro chiusi, o che si aprono e chiudono a turno. È impossibile sapere cosa sia aperto e cosa no — e, cosa più importante, quando. Tutto è arbitrario. Tutto avviene sotto la pressione dei coloni, che hanno trasformato l’esercito israeliano nel loro servo sottomesso. Così va quando Smotrich è il ministro della Cisgiordania.

 

Una casa incendiata durante le rivolte del 2023 nel villaggio di Huwara. Smotrich parlava già nel 2021 di un “Piano decisivo”.
Foto Amir Levi

Circa 120 nuovi avamposti di colonizzazione, quasi tutti violenti, sono stati creati dal maledetto 7 ottobre, coprendo decine di migliaia di ettari, tutti con il sostegno dello Stato. Non passa settimana senza nuovi avamposti; altrettanto inedita è l’ampiezza della pulizia etnica che perseguono: Hagar Shezaf ha riferito venerdì che, durante la guerra di Gaza, gli abitanti di 80 villaggi palestinesi in Cisgiordania sono fuggiti per salvarsi la vita, temendo i coloni che si erano impadroniti delle loro terre.

Il volto della Cisgiordania cambia ogni giorno. Lo vedo con i miei occhi stupiti. Trump può vantarsi di aver fermato l’annessione, ma questa è ormai più radicata che mai.

Dal centro di comando che l’esercito usamericano ha istituito a Kiryat Gat si può forse vedere Gaza, ma non si vede Kiryat Arba, la colonia vicina a Hebron.

La Cisgiordania grida per un intervento internazionale urgente, non meno della Striscia. Soldati — usamericani, europei, emiratini o persino turchi — qualcuno deve proteggere i suoi abitanti indifesi. Qualcuno deve liberarli dalle grinfie dell’esercito israeliano e dei coloni.

Immaginate un soldato straniero a un checkpoint che ferma i teppisti coloni diretti a un pogrom. Un sogno.

Il n’est plus possible d’être Palestinien en Cisjordanie

Gideon Levy, Haaretz, 26/10/2025
Traduit par
Tlaxcala


Tandis que Trump donne sa parole aux pays arabes que l’annexion israélienne « n’aura pas lieu », il tourne le dos à la destruction, à la dépossession, à la pauvreté, à la violence des colons et aux abus militaires en Cisjordanie, permettant au tourment de se poursuivre : il n’y a pas de cessez-le-feu.

Des Palestiniens se tiennent à côté d’une route détruite après une opération militaire israélienne dans la ville cisjordanienne de Tubas, la semaine dernière.
Photo Majdi Mohammed / AP

En Cisjordanie, personne n’a entendu parler du cessez-le-feu à Gaza : ni l’armée, ni les colons, ni l’Administration civile, et bien sûr pas les trois millions de Palestiniens vivant sous leur tyrannie. Ils ne sentent en rien la fin de la guerre.

De Jénine à Hébron, aucun cessez-le-feu n’est en vue. Depuis deux ans, la Cisjordanie vit sous un régime de terreur, à l’abri de la guerre dans la bande de Gaza, qui sert de prétexte douteux et de rideau de fumée, et rien n’indique que cela soit près de se terminer.

Tous les décrets draconiens imposés aux Palestiniens le 7 octobre demeurent en vigueur ; certains ont même été durcis. La violence des colons se poursuit, tout comme l’implication de l’armée et de la police dans les pogroms. À Gaza, moins de personnes sont tuées et déplacées, mais en Cisjordanie tout continue comme s’il n’y avait aucun cessez-le-feu.

L’administration Trump, si active et résolue à Gaza, ferme les yeux sur la Cisjordanie et se ment à elle-même sur la situation là-bas. Empêcher l’annexion lui suffit. « Cela n’arrivera pas, j’ai donné ma parole aux pays arabes », a déclaré le président Donald Trump la semaine dernière, tandis que, dans son dos, Israël fait tout pour détruire, spolier, maltraiter et empêcher toute possibilité de vie en Cisjordanie.


Des colons israéliens jettent des pierres en direction de villageois palestiniens lors d’une attaque contre le village cisjordanien de Turmus Ayya, en juin.
Photo Ilia Yefimovich / dpa

Il semble parfois que le chef du Commandement central de Tsahal, Avi Bluth, fidèle et obéissant à son supérieur — le ministre des Finances Bezalel Smotrich, également ministre au sein du ministère de la Défense — mène une expérience humaine, de concert avec les colons et la police : voyons jusqu’où nous pouvons les tourmenter avant qu’ils n’explosent.

L’espoir que leur soif d’abus se calmerait en même temps que les combats à Gaza a été anéanti. La guerre dans la bande n’était qu’un prétexte. Quand les médias évitent la Cisjordanie et que la plupart des Israéliens — et des USAméricains — se désintéressent de ce qui s’y passe, le supplice peut continuer.

Le 7 octobre a bel et bien constitué une occasion historique pour les colons et leurs collaborateurs de faire ce qu’ils n’avaient pas osé faire depuis des années.


La famille Zaer Al Amour, dans les collines du sud d’Hébron — une région souvent soumise à la violence des colons et de l’armée — monte la garde à tour de rôle du soir jusqu’au matin pour protéger ses terres.
Photo Wisam Hashlamoun / Anadolu via AFP

Il n’est plus possible d’être Palestinien en Cisjordanie. Elle n’a pas été détruite comme Gaza, des dizaines de milliers de personnes n’y sont pas mortes, mais la vie y est devenue impossible. Il est difficile d’imaginer que la poigne de fer d’Israël puisse durer encore longtemps sans explosion de violence — cette fois, justifiée.

Entre 150 000 et 200 000 Palestiniens de Cisjordanie qui travaillaient en Israël sont au chômage depuis deux ans. Deux ans sans le moindre shekel de revenu. Les salaires de dizaines de milliers de fonctionnaires de l’Autorité palestinienne ont également été fortement réduits à cause de la rétention par Israël des recettes fiscales qu’il collecte pour elle.

La pauvreté et la détresse sont omniprésentes. Les barrages routiers et les checkpoints aussi ; jamais il n’y en a eu autant, et pour une période aussi longue. Ils se comptent maintenant par centaines.

Chaque colonie possède des portails de fer fermés, ou qui s’ouvrent et se referment tour à tour. Impossible de savoir ce qui est ouvert ou fermé — et, plus important encore, quand. Tout est arbitraire. Tout se fait sous la pression des colons, qui ont fait de l’armée israélienne leur servante soumise. Voilà ce que c’est, quand Smotrich est le ministre de la Cisjordanie.


Une maison incendiée lors des émeutes de 2023 dans le village de Hawara. Smotrich parlait déjà en 2021 d’un « Plan décisif ».
Photo Amir Levi

Environ 120 nouveaux avant-postes de colonisation, presque tous violents, ont été établis depuis le maudit 7 octobre, couvrant des dizaines de milliers d’hectares, tous avec le soutien de l’État. Pas une semaine ne passe sans de nouveaux avant-postes ; tout aussi inédite est l’ampleur du nettoyage ethnique qu’ils visent : Hagar Shezaf rapportait vendredi que, durant la guerre de Gaza, les habitants de 80 villages palestiniens de Cisjordanie ont fui pour sauver leur vie, par peur des colons qui se sont emparés de leurs terres.

Le visage de la Cisjordanie change chaque jour. Je le vois de mes propres yeux stupéfaits. Trump peut se vanter d’avoir stoppé l’annexion, mais celle-ci est plus enracinée que jamais.

Depuis le centre de commandement que l’armée usaméricaine a établi à Kiryat Gat, on peut peut-être voir Gaza, mais on ne voit pas Kiryat Arba, la colonie située près d’Hébron.

La Cisjordanie crie à l’aide d’une intervention internationale urgente, tout autant que la bande de Gaza. Des soldats — usaméricains, européens, émiratis ou même turcs — quelqu’un doit protéger ses habitants sans défense. Quelqu’un doit les délivrer des griffes de Tsahal et des colons.

Imaginez un soldat étranger à un checkpoint stoppant des nervis colons en route pour un pogrom. Un rêve.

Lynchmeuten, Brandanschläge, Massaker an Viehherden: Das Westjordanland erlebt beispiellose israelische Gewalt

Jonathan Pollak, Haaretz, 25.10.2025
Übersetzt von  
Tlaxcala

Israelische Siedler-Milizen, unterstützt von Soldaten, verwüsten palästinensische Gemeinden: Sie prügeln Bewohner, stecken Felder in Brand, zerstören Autos, schlachten Tiere.
Jonathan Pollak, der palästinensische Bauern während der Olivenernte begleitet, berichtet, was er erlebt hat — und wie er dabei beinahe ums Leben kam.

Die Bäume des Südens tragen eine seltsame Frucht,
Blut auf den Blättern und Blut an der Wurzel,
Schwarze Körper schwingen in der Südbrise,
Seltsame Früchte hängen an den Pappeln.

Pastorale Szene des tapferen Südens,
Die hervortretenden Augen und der verdrehte Mund,
Der süße, frische Duft der Magnolien,
Dann plötzlich der Geruch verbrannten Fleisches.

Hier ist eine Frucht für die Krähen,
Für Regen, Wind und Sonne,
Bis die Bäume sie fallen lassen,
Hier ist eine seltsame und bittere Ernte.

„Strange Fruit“ von Abel Meeropol


Ein maskierter israelischer Pogromist schleudert mit einer Steinschleuder auf Olivenerntehelfer im Dorf Beita, Anfang des Monats. Für viele Bauern ist der wirtschaftliche Anreiz, die Ernte zu beenden, fast verschwunden – während die Lebensgefahr ständig zunimmt.
Foto: Jaafar Ashtiyeh / AFP

 Eine entfesselte Gewalt

Die vergangenen zwei Jahre waren eine Zeit ungebändigter israelischer Gewalt. Im Gazastreifen nahm sie monströse Ausmaße an, doch auch im Westjordanland litten die Palästinenser schwer darunter.
Jeder Ort hat seine eigene Form der Gewalt. Hier im Westjordanland wird sie gemeinsam von allen israelischen Kräften ausgeübt – Armee, Polizei, Grenzpolizei, Inlandsgeheimdienst Shin Bet, Gefängnisbehörde, Sicherheitskoordinatoren der Siedlungen und natürlich von Zivilisten.
Oft tragen diese Zivilisten Stöcke, Eisenstangen oder Steine, manche auch Schusswaffen. Milizen, die außerhalb des Gesetzes handeln, aber unter seinem Schutz.
Manchmal führen die Zivilisten den Angriff an, während das Militär ihnen Deckung gibt; manchmal ist es umgekehrt. Das Ergebnis ist immer dasselbe.

Seit Beginn der Olivenernte erreicht die israelische Gewalt im Westjordanland — planmäßig organisiert — neue Rekorde. Noch vor der Ernte wurde sie in Duma, Silwad, Nur Shams, Muʿarrajat, Kafr Malik und Mughayyir a-Deir entfesselt. Das ist das Schicksal der palästinensischen Dörfer, die sich selbst überlassen bleiben, angesichts der israelischen Bastionen ringsum.

 Tote und Pogrome

Mohammed al-Shalabi rannte um sein Leben, ohne zu wissen, dass er in den Tod rannte, als ein grauer Pickup voller bewaffneter Israelis ihn und zehn andere verfolgte. Seine Leiche wurde Stunden später gefunden – erschossen in den Rücken, gezeichnet von brutaler Gewalt.
Dasselbe geschah mit Saif a-Din Musallet, der zunächst fliehen konnte, dann zusammenbrach und starb. Er lag stundenlang bewusstlos da, während israelische Soldaten und Zivilisten die Hügel durchstreiften, auf der Jagd nach weiterer Beute. Es war der 11. Juli 2025, beim Pogrom von Jabal al-Baten, östlich von Ramallah.

Damals wusste ich noch nicht, dass sie tot waren, aber ich kannte die Todesangst. Stunden zuvor war eine Gruppe Israelis in al-Baten eingefallen, und junge Palästinenser aus den Nachbardörfern Sinjil und al-Mazra’a ash-Sharqiya waren losgezogen, um sie aufzuhalten. Anfangs hatten die Palästinenser die Oberhand, doch bald traf ein grauer Pickup mit bewaffneten Männern ein.

Israelische Zivilisten greifen während des Angriffs auf Beita am 10. Oktober Bauern, ihr Land und ihre Fahrzeuge an. Zwanzig Menschen wurden verletzt, einer davon durch Schüsse mit scharfer Munition. Foto Jaafar Ashtiyeh/AFP

Der Pickup raste auf die Palästinenser zu und erfasste einen von ihnen. Während ich half, den Verletzten zu tragen, mussten wir rennen — denn die Tage zuvor hatten gezeigt, was mit jenen geschieht, die nicht entkommen.
Wir schafften es nicht. Eine Gruppe maskierter Israelis, bewaffnet mit schwarzen Polizeiknüppeln, holte uns ein. Die Knüppel hoben sich und fielen immer wieder nieder – ins Gesicht, auf die Rippen, den Rücken, erneut ins Gesicht. Dazu Tritte, Schläge, Staub. Lange Minuten hemmungsloser Gewalt.
Mit geschwollenen Gesichtern und blauen Flecken waren es – wenig überraschend – wir, die verhaftet wurden, als die Soldaten kamen.

Die entweihte Ernte

Früher war die Olivenernte kein ständiger Reigen von Angriffen. Sie war ein fester Bestandteil des palästinensischen Lebens: ganze Familien, auch Frauen und Kinder, unter den Bäumen; Volkslieder, gemeinsames Kochen von qalayet bandora – Zwiebeln, Tomaten und Chilischoten – über offenem Feuer im Schatten der Olivenhaine.
Diese Ernte in ein Ritual der Angst und Wachsamkeit zu verwandeln, bedeutet mehr als bloße Vertreibung: Es ist ein Angriff auf die emotionale Bindung an das Land, ein Versuch kultureller Auslöschung, der auf Identitätsvernichtung zielt. Kein Zufall, dass dies an Formulierungen des Völkerrechts erinnert, die die Zerstörung eines Volkes beschreiben.

Der Angriff, bei dem Mohammed und Saif starben, war nur ein besonders grausames Glied in einer langen Kette von Pogromen. Ich habe längst aufgehört zu zählen, wie viele Beerdigungen ich in den letzten Monaten besucht habe.
Und als wäre die Gewalt nicht genug, kommt der Klimakollaps hinzu: Olivenbäume tragen ein Jahr reichlich, im nächsten kaum. Dieses Jahr war mager – kaum Regen, große Hitze, vertrocknete Bäume, abgefallene Früchte.
Viele Haine sind kahl, noch bevor man die entwurzelten Bäume mitzählt. Der wirtschaftliche Anreiz ist fast verschwunden, das Risiko des Todes steigt.

Palästinensische Bauern und Aktivisten bei der Olivenernte in der Nähe des Dorfes Turmus Ayya in diesem Monat. Eine breite Koalition hat sich mobilisiert, um die Bauern zu unterstützen. Foto Hazem Bader / AFP

 Widerstand: Die Kampagne Zeitun 2025

Trotz Repression und drohender Haft begann die Kampagne Zeitun 2025 („Olive 2025“): eine breite palästinensische Koalition, von der radikalen Linken bis zu Teilen der Fatah, zur Unterstützung der Bauern während der Ernte.
Aktivisten kartierten Risikogebiete und Bedürfnisse. Doch in der Nacht vor Beginn stürmten Dutzende Soldaten das Haus von Rabia Abu Naim, einem Koordinator der Kampagne, und steckten ihn in Verwaltungshaft – also ohne Verfahren.
Rabia stammt aus al-Mughayyir, östlich von Ramallah, einem Brennpunkt der Gewalt von Kolonisten und Armee. Dort wurden Mohammed und Saif getötet, dort riss das Militär 8.500 Bäume aus, und nachts zerstörten israelische Gruppen weitere Hunderte.

Manche möchten glauben, die Situation sei nicht so schlimm, dass „beide Seiten“ Gewalt anwenden, dass die Polizei ermittelt, dass es geheime Gründe für Rabias Haft gibt. Sie mögen weiter an Märchen glauben.

 Die Saison der Pogrome

Am ersten Tag der Ernte, vor zwei Wochen, fiel die Gewalt wie ein Wolkenbruch.
In Jurish wurden Erntehelfer von Israelis mit Knüppeln angegriffen. In Duma, wo 2015 die Familie Dawabsheh ermordet wurde, verweigerten Soldaten den Zugang zu den Feldern.
In Kafr Thulth schlachteten Siedler Ziegen. In Far
ʿata schossen sie mit scharfer Munition auf Bauern, während Soldaten tatenlos zusahen. In Kobar, dem Heimatdorf des inhaftierten palästinensischen Führers Marwan Barghouti, verhafteten Soldaten Bauern auf ihrem eigenen Land.

Rabia Abu Naim, fotografiert von einem Soldaten. Am Vorabend der Olivenernte stürmte die Armee sein Haus und nahm ihn in Verwaltungshaft. Foto Avishay Mohar / Activestills

Am schlimmsten war es in Beita, südlich von Nablus. Am Freitag, dem 10. Oktober, begaben sich etwa 150 Erntehelfer in Olivenhaine nahe eines neuen Außenpostens. Eine kombinierte Truppe aus Soldaten und Zivilisten griff sie an: Schläge, Schüsse, Brände.
Zwanzig Verletzte, einer durch scharfe Munition. Drei Journalisten wurden attackiert: Jaafar Ashtiya, dessen Auto niedergebrannt wurde; Wahaj Bani Moufleh, dem ein Tränengasgeschoss das Bein brach; und Sajah al-Alami.
Acht Fahrzeuge verbrannt, ein Krankenwagen umgestoßen.

Armee und Siedler – eine Front

In den folgenden Tagen kam es zu Dutzenden weiterer Angriffe in Burqa, al-Mughayyir, Lubban al-Sharqiya, Turmus Ayya.
Die Armee schaut nicht nur zu: Sie begleitet die Angreifer, ignoriert Vorfälle oder greift selbst ein.
In Burin erklärte sie das ganze Dorf zur „geschlossenen Militärzone“, verbot den Bewohnern den Zugang und verhaftete 32 solidarische Aktivisten, die einfach in einem Wohnzimmer saßen.

Am 17. Oktober griffen in Silwad Gruppen von Israelis über Stunden hinweg Erntehelfer an, zerstörten Ambulanzen, stahlen Fahrzeuge.
Ein grauer Pickup – immer derselbe – erschien, beladen mit bewaffneten Jugendlichen, die das Gebiet als „Militärzone“ erklärten. Später traf das Militär ein, vertrieb die Bauern – aber nicht die Eindringlinge.
Ich war dort.
Auf der Rückfahrt wurden wir auf einer schmalen, kurvigen Straße an einer Klippe von einem Auto junger Israelis verfolgt. Die Bilder des Pogroms von Jabal al-Baten kamen mir wieder in den Sinn.
Wir entkamen knapp.


Soldaten hindern Palästinenser aus dem Dorf Kobar in der Nähe von Ramallah daran, Oliven zu ernten. Bewohner, die auf ihrem eigenen Land arbeiteten, wurden von den israelischen Streitkfräften festgenommen. Foto Hazem Bader / AFP

 

Und es geht weiter

Hunderte Vorfälle, große und kleine, reihen sich aneinander.
In Turmus Ayya schlugen maskierte Männer einer alten Frau auf den Kopf – sie erlitt eine Hirnblutung und liegt im Krankenhaus von Ramallah. Zwei Aktivisten wurden verletzt, fünf Autos verbrannt.
Und die Ernte ist erst halb vorbei. Die Angriffe werden weitergehen, und darüber hinaus.

Doch dies ist nicht nur eine Geschichte von Gewalt und Enteignung. Es ist auch eine Geschichte des palästinensischen Widerstands, ihrer Bindung an das Land und ihres unbeugsamen Willens, nicht aufzugeben.
Rabia, der inhaftierte Koordinator der Kampagne Zeitoun 2025, hatte es vor seiner Verhaftung gesagt:

„Wenn die Olivenbäume des Dorfes verschwinden, werden wir die Eichen ernten.
Und wenn keine Eicheln mehr da sind, werden wir die Blätter pflücken.“

Linciaggi, incendi, massacri di greggi: la Cisgiordania di fronte a una violenza israeliana senza precedenti

 

Jonathan Pollak, Haaretz, 25/10/2025

Tradotto da Tlaxcala

Milizie di coloni israeliani, appoggiate dai soldati, stanno devastando le comunità palestinesi: picchiano gli abitanti, incendiano i raccolti, distruggono le auto e massacrano gli animali.
Jonathan Pollak, che accompagna i contadini palestinesi durante la raccolta delle olive, racconta ciò che ha visto — e come ha rischiato di pagarne il prezzo con la vita.

Gli alberi del Sud danno un frutto strano,
Sangue sulle foglie e sangue alla radice,
Corpi neri che oscillano nella brezza del Sud,
Frutti strani appesi ai pioppi.

Scena pastorale del valoroso Sud,
Gli occhi sporgenti e la bocca contorta,
Il profumo dolce e fresco delle magnolie,
Poi il rapido odore di carne bruciata.

Ecco un frutto per i corvi,
Per la pioggia, per il vento, per il sole,
Finché gli alberi non lo lasceranno cadere,
Ecco un raccolto strano e amaro.

“Strange Fruit”, di Abel Meeropol


Un pogromista israeliano mascherato usa una fionda per attaccare i raccoglitori nel villaggio di Beita, all’inizio di questo mese. Per molti coltivatori, l’incentivo economico a completare la raccolta è ormai quasi scomparso, mentre il pericolo di morte cresce di giorno in giorno.
Foto Jaafar Ashtiyeh / AFP

 

Una violenza senza freni

Gli ultimi due anni sono stati un periodo di violenza israeliana sfrenata. Nella Striscia di Gaza tale violenza ha raggiunto proporzioni mostruose, ma anche in Cisgiordania i palestinesi hanno sofferto la loro parte.
Ogni luogo ha la propria forma di violenza. Qui, in Cisgiordania, la violenza israeliana è esercitata congiuntamente da tutte le forze presenti: esercito, polizia, polizia di frontiera, Shin Bet (servizio di sicurezza interna), amministrazione carceraria, coordinatori di sicurezza degli insediamenti e, naturalmente, civili israeliani.
Spesso questi civili portano bastoni, barre di ferro o pietre; altri sono armati di fucili. Milizie che operano al di fuori della legge, ma sotto la sua protezione.
Talvolta sono i civili a dare il via agli attacchi, con le forze ufficiali che li coprono; talvolta accade il contrario. Il risultato, però, è sempre lo stesso.

Dall’inizio della raccolta delle olive, la violenza israeliana in Cisgiordania — organizzata e coordinata — ha raggiunto livelli mai visti. Prima ancora dell’inizio della stagione, la violenza si era già abbattuta su Duma, Silwad, Nur Shams, Mu’arrajat, Kafr Malik e Mughayyir a-Deir. Questo è il destino delle comunità rurali palestinesi lasciate sole di fronte agli avamposti israeliani.

Morti e pogrom

Mohammed al-Shalabi corse per salvarsi la vita, senza sapere che stava correndo verso la morte, quando un gruppo di israeliani armati su un pick-up grigio lo inseguì insieme ad altri dieci uomini. Il suo corpo fu ritrovato ore dopo: colpito alla schiena, portava i segni di una brutale violenza.
La stessa sorte toccò a Saif a-Din Musallet, aggredito, riuscito a fuggire per un po’, poi collassato e morto. Rimase lì, privo di sensi e morente, mentre soldati e civili israeliani continuavano la caccia sulle colline. Era l’11 luglio 2025, durante il pogrom di Jabal al-Baten, a est di Ramallah.

Non sapevo ancora che fossero morti, ma conoscevo la paura della morte. Qualche ora prima, una folla di israeliani aveva invaso al-Baten, e un gruppo di giovani palestinesi dei villaggi vicini di Sinjil e al-Mazra’a ash-Sharqiya aveva cercato di fermarli. All’inizio avevano avuto il sopravvento, poi arrivò un pick-up grigio con uomini armati.

Civili israeliani attaccano agricoltori, i loro terreni e i loro veicoli durante l'attacco a Beita, il 10 ottobre. Venti persone sono rimaste ferite, una delle quali da colpi d'arma da fuoco. Foto Jaafar Ashtiyeh/AFP

Il pick-up investì uno dei palestinesi. Mentre aiutavo a trasportare il ferito, cominciammo a correre per salvarci, perché i giorni precedenti avevano mostrato chiaramente che cosa accade a chi non riesce a fuggire.
Non ce l’abbiamo fatta. Un gruppo di israeliani mascherati, armati di manganelli, ci raggiunse. Colpi sul viso, sulle costole, sulla schiena, di nuovo sul viso. Calci, pugni, polvere. Lunghi momenti di violenza selvaggia.
Con i volti gonfi e viola, fummo noi — e non loro — ad essere arrestati quando arrivarono i soldati.

Mentre aspettavamo di essere portati alla stazione di polizia, il pick-up tornò verso Sinjil, dove c’erano un’ambulanza e un’auto civile. Fu l’inizio del linciaggio, con tutte le componenti della violenza israeliana presenti: forze ufficiali e milizie private, ciascuna al proprio posto.

La raccolta profanata

La raccolta delle olive non è sempre stata una sequenza di attacchi e di pogrom estivi. Un tempo era molto di più di un’attività economica: era un pilastro della vita culturale palestinese. Le famiglie, comprese donne e bambini, si riunivano all’aperto; si cantavano canzoni popolari, si cucinava qalayet bandura — cipolle, pomodori e peperoncini — sul fuoco, all’ombra degli alberi.
Trasformare questa festa in un momento di paura e di allerta è più che un atto di espulsione fisica: è un attacco al legame emotivo con la terra, un tentativo di cancellazione culturale, di annientamento dell’identità. Non è un caso che tale descrizione richiami gli articoli del diritto internazionale che parlano di distruzione di un popolo.

L’attacco in cui Mohammed e Saif furono uccisi rappresentò un momento particolarmente atroce in una lunga serie di pogrom. Ho perso il conto dei funerali ai quali ho partecipato negli ultimi mesi.
E come se la violenza non bastasse, negli ultimi anni si è aggiunto il collasso climatico. Gli ulivi danno un raccolto abbondante un anno e scarso l’anno successivo. Quest’anno è stato scarso, aggravato dalla mancanza di piogge e dalle ondate di calore che hanno seccato gli alberi e fatto cadere i frutti.
Interi uliveti sono rimasti sterili, ancora prima di considerare gli alberi sradicati. Per molti contadini, l’incentivo economico è quasi svanito, mentre il pericolo di morte aumenta.

Agricoltori e attivisti palestinesi raccolgono olive vicino al villaggio di Turmus Ayya questo mese. Un'ampia coalizione si è mobilitata per sostenere gli agricoltori. Foto Hazem Bader / AFPAFP 

 

Resistere: la campagna Zeitun 2025

Nonostante la persecuzione e il rischio di prigione, la campagna Zeitun 2025 (“Olivo 2025”) è iniziata: un’ampia coalizione, che va dalla sinistra palestinese alle diverse fazioni di Fatah, organizzata per sostenere i contadini durante la raccolta.
Gli attivisti hanno mappato le aree di rischio e le necessità dei villaggi. Ma la notte prima dell’inizio, decine di soldati hanno fatto irruzione nella casa di Rabia Abu Naim, uno dei coordinatori della campagna, mettendolo in detenzione amministrativa — cioè senza processo.
Rabia è di al-Mughayyir, a est di Ramallah, epicentro della violenza dei coloni e dei militari. È lì che furono uccisi Mohammed e Saif, e dove l’esercito ha sradicato 8.500 alberi, mentre gruppi di israeliani hanno completato il lavoro distruggendone altre centinaia.

Qualcuno potrà pensare che la situazione non sia così grave, che “la violenza è da entrambe le parti”, che la polizia indaga, che la detenzione di Rabia sia giustificata. Bene: continuino pure a raccontarsi favole.

La stagione dei pogrom

Il primo giorno della raccolta, due settimane fa, la violenza si abbatté come un diluvio.
A Jurish, coloni israeliani attaccarono con bastoni i raccoglitori e impedirono loro l’accesso ai campi. A Duma, il villaggio dove nel 2015 fu sterminata la famiglia Dawabsheh, furono i soldati a vietare l’ingresso ai contadini, invocando la “coordinazione di sicurezza”.
A Kafr Thulth, i coloni uccisero delle capre. A Far’ata spararono con munizioni vere contro gli agricoltori, mentre i soldati presenti non intervennero. A Kobar, il villaggio del leader palestinese incarcerato Marwan Barghouti, i contadini furono arrestati per aver lavorato nei propri uliveti.

Rabia Abu Naim fotografato da un soldato. Alla vigilia della raccolta delle olive, l'esercito ha fatto irruzione nella sua casa e lo ha posto in detenzione amministrativa. Foto Avishay Mohar / Activestills

 Il culmine fu Beita, a sud di Nablus. Quel venerdì 10 ottobre, circa 150 raccoglitori si recarono negli oliveti vicino a un nuovo avamposto coloniale. Furono attaccati da un’azione congiunta di soldati e civili: bastonate, spari, incendi, vetri infranti.
Venti feriti, uno dei quali colpito da proiettile vero. Tre giornalisti aggrediti: Jaafar Ashtiya, la cui auto fu bruciata; Wahaj Bani Moufleh, con una gamba fratturata; e Sajah al-Alami.
Otto veicoli incendiati e un’ambulanza rovesciata.

 Esercito e coloni: un fronte comune

Nei giorni seguenti, decine di nuovi attacchi si susseguirono: a Burqa, al-Mughayyir, Lubban al-Sharqiya, Turmus Ayya.
L’esercito non si limita a osservare: accompagna gli aggressori, chiude gli occhi o interviene direttamente.
A Burin ha persino dichiarato il villaggio “zona militare chiusa”, vietando l’accesso anche ai residenti. Trentadue attivisti solidali furono arrestati per aver bevuto il tè in una casa privata.

Il 17 ottobre, a Silwad, gli attacchi durarono ore: ambulanze vandalizzate, veicoli rubati, alberi abbattuti.
Un pick-up grigio — sempre lo stesso — arrivò con giovani armati che dichiararono l’area “zona militare chiusa”. Poi giunsero i soldati, che cacciarono i contadini… ma non gli aggressori.
Ero lì.
Mentre tornavamo al villaggio, un’auto con giovani israeliani ci inseguì lungo una strada tortuosa sul bordo di un precipizio. Le immagini del pogrom di Jabal al-Baten mi attraversarono la mente.
Riuscimmo ad arrivare sani e salvi.


I soldati bloccano i palestinesi del villaggio di Kobar, vicino a Ramallah, mentre si recano a raccogliere le olive. I residenti che lavoravano la propria terra sono stati arrestati dall'IDF. Crediti: Hazem Bader / AFP

E continua

Centinaia di incidenti, grandi e piccoli, uno dopo l’altro.
A Turmus Ayya, uomini mascherati hanno colpito un’anziana alla testa: soffre di emorragia cerebrale ed è ricoverata a Ramallah. Due attivisti feriti, cinque auto incendiate.
E la raccolta non è neppure a metà. Gli attacchi continueranno fino alla fine — e oltre.

Ma questa non è solo una storia di violenza e spoliazione. È anche la storia della resistenza palestinese, del loro legame con la terra e della loro ostinazione a non cedere.
Rabia, il coordinatore della campagna Zeitoun 2025 imprigionato, lo aveva detto prima dell’arresto:

Se gli ulivi del villaggio scompariranno, raccoglieremo le querce.
E se non resteranno ghiande, raccoglieremo le foglie”.